Nei giorni scorsi, curiosando
nel mare di musica rappresentato dal web, faccio una visitina al sito ufficiale
di Claudia Pastorino, docente a contratto all'Università degli Studi di Genova
di Laboratorio di Linguaggi della Canzone, vocologa artistica, insegnante di
Canto e di Cantoterapia, nonché apprezzata cantautrice, suo ultimo album
pubblicato Claudia (Ed. Sugar 2015) e mi imbatto nel seguente comunicato.
“Nel 1990 ho cominciato la
professione concertistica, come cantante di pianobar e come cantautrice.Ripercorrendo la mia trentennale attività di
cantautrice, ho spesso raccontato le difficoltà dei primi anni, causate dalla
mia timidezza paralizzante di allora, ma soprattutto dall’ambiente cantautorale
maschile e maschilista dei primi anni Novanta. Ma, come dicevo anche nel mio
libro La Cura del Canto, nessuna forza contraria può spegnere una voce che
vuole esprimersi cantando. E così sono stati trent’anni intensi, impegnativi,
viaggianti, profondamente emozionanti, in cui ho avuto la gioia di collaborare
con grandi Musicisti sia nell’ambito Popular che nell’ambito Classico. Nel
2020, a distanza di trent’anni da quegli inizi, ho sentito il bisogno di
concludere le mie attività concertistiche e di dedicarmi al 100% alla didattica
del Canto e della Cantoterapia. E, come scrive Barraqué - Quando ho smesso di
cantare il mio canto è cominciato davvero -"
Scorrendo il tuo sito
(www.claudiapastorino.it), alla ricerca di qualche data live da cogliere al
volo o magari semplicemente pubblicizzare, mi sono imbattuto in questa tua
lettera, in realtà pubblica nel 2020 (quindi immagino in pieno lockdown) in cui
annunciavi di voler concludere l'attività concertistica, dopo trent'anni
intensi e ricchi di collaborazioni, per dedicarti in maniera esclusiva alla
didattica del Canto e della Cantoterapia? È proprio così? Vuol dire che non
avremo più modo di ammirarti in nuove esibizioni live?
Sì, dopo trent'anni mi è proprio
venuta meno la voglia di fare i concerti e così ho smesso. Ora in realtà canto come
prima e più di prima, perché insegno Canto, Cantoterapia, Linguaggi della
Canzone tutto il giorno e tutti i giorni della settimana e il canto è più
libero e più divertito di prima, insieme ad allievi e studenti.
Il non voler più fare concerti
implica anche il non scrivere e pubblicare più nuove canzoni?
Adesso sono molto concentrata
nella scrittura dei libri: uno La Cura del Canto (Ed. Gribaudo 2021) l’ho
pubblicato l'anno scorso e, il prossimo, dovrebbe uscire a fine anno o inizio
anno prossimo. Però non si sa mai... se mi tornasse l'ispirazione di scrivere
canzoni, le pubblicherei "artigianali" direttamente online…
Nell tua decisione finale, questo
final cut, ha influito anche la pandemia in corso o la chiave di lettura è più
da ricercarsi negli amari versi della tua Trent'anni: “E in questi panni
ti faccio un po’ pena / coi miei trent'anni e la testa piena / di illusioni /
che non ha senso star lì a soffrire / tanto a nessuno interessa sentire /
queste canzoni"?
Un misto di entrambe le cose.
Cantare, oltre a essere stata una professione bellissima, ha significato di
più, è stata nello stesso tempo anche una terapia. E sono estremamente grata a
chi lo ha reso possibile, venendo a un concerto o a decine di concerti. A
presto ritrovarci sulle strade del Canto e della Cantoterapia.
A tre anni di distanza da “Il
fantasma baciatore”, il cantautore, scrittore e poeta veronese Marco Ongaro ha
dato alle stampe, preceduto dal videoclip “Solitari” e dal singolo “A ritroso”,
un nuovo album intitolato proprio “Solitari” (Vrec/Andromedarelix), fortemente
voluto e supportato dal produttore Gandalf Boschini e suonato dalla band
prog-rock dei Logos e altri musicisti di valore. Ne è uscito un disco di grande
impatto sonoro, accolto dalla critica con entusiasmo e, credo, destinato a
diventare un classico, soprattutto per le tematiche affrontate e per come sono
state affrontate. Ma chi meglio dell’autore può permetterci di addentrarci nel
suo mondo poetico?
Come sempre vorrei partire dalla copertina del tuo nuovo
lavoro discografico Solitari, perché così come per un prezioso profumo
il packaging costituisce il biglietto da visita dell'essenza stessa, così la
copertina di un disco ben riuscita dovrebbe attrarre e al contempo suggerire il
contenuto dell'intero album. Tratta dalle riprese del videoclip del brano
omonimo che ne ha anticipato l'uscita, la fotografia dai colori desaturati
molto vintage ti ritrae davanti a una Jaguar degli anni '80 con sullo sfondo l'amica
Jesusleny Gomes, ormai non nuova alle collaborazioni video, con il figlio,
entrambi di fianco a una datata Volvo 242. Copertina e titolo suggeriscono
l'idea di un disco dalle sonorità vintage e un duplice significato, preziosità
dei diamanti solitari ma anche solitari che infinite possibilità della vita
possono far incontrare... Non ho capito nulla?
Direi che l'interpretazione è azzeccata.
Entrambi i significati scaturiscono dall'immagine scattata durante la
lavorazione del video con l'intenzione di coordinare il tutto ben chiara dal
principio nella mente del produttore Gandalf Boschini. C'è sempre un margine di
casualità e spirito dell'occasione a intervenire nel risultato finale, giacché
l'amica Jesusleny Gomes ha fornito il contatto con l'ACI di Venezia per
l'utilizzo delle auto in questione, contribuendo di fatto all'atmosfera
generale desiderata dal regista Luca Sammartin, che è pure l'arrangiatore del
disco. Un team ben affiatato tra programmazione e spontanea creatività. Non
giurerei poi tanto sul vintage in merito alle sonorità dell'album, talvolta
immerse in un clima anni 70 grazie all'apporto della prog-rock band dei Logos,
certo, o con vaghi sprazzi anni 80, ma in generale ben in linea con timbri e
groove delle produzioni di questo primo ventennio Duemila. Di vintage ci sono
in verità soprattutto io, che scollino qui dal Novecento nell'imperterrita
insistenza di restare vivo oltre la durata assegnata alla stagione dei
cantautori, con l'impudenza di scrivere e proporre ancora brani inediti, senza
mai riciclare un'esperienza dal vivo. Solitario anch'io, non fosse per la nuova
linfa di giovani come Gandalf e Luca e gli altri, giovani o altrettanto
ostinati, che si sono uniti nell'impresa. Tutti solitari in fondo, nella
realizzazione di un disco in epoca pandemica, con registrazioni separate -
alcuni partecipanti come Adam Clarke alla cornamusa, Giacomo Cazzaro al sax e
Barbara Lorenzato ai cori mai li vidi né probabilmente li incontrerò - tra
autocertificazioni e studi d'incisione sanificati e risanificati in giro per il
Veneto, ma solitari che si riconoscono nella loro preziosa rarità. Guardando la
copertina, più che un'impressione vintage in merito al tempo scorgo una idea di
spazio circospetto, di separazione virtuosa nella coscienza di un'autonomia
conquistata a fatica. Il tutto shakerato ma non mescolato a un mood nostalgico
sul modo di vivere più che su quello di suonare. Torneremo a incontrarci o
resteremo online? E l'incontro sarà fortuito o scelto su una piattaforma
professional-sentimentale? Il tappeto verde su cui stiamo con le auto d'epoca
in copertina è reale o virtuale? Jesus e suo figlio sono creature del Metaverso
o persone in carne e ossa? In tal senso, il terzo video girato con lei, in cui
non accadono cose massimaliste come nei precedenti, esalta il miracolo di
essere semplicemente vivi e ritrovarsi su una strada di asfalto vero, per caso,
bere vino di un rosso concreto e preferire alla meraviglia di un innamoramento
programmato una più appagante comune conoscenza con lo scambio finale di un
libro. La rarità cantata nel brano che dà il titolo all'album è paradossalmente
l'assenza di eroismo virtuale, la speranza di tornare a una normalità troppo a
lungo stravolta dalla ricerca di effetti speciali. Ma questo mi viene da
rispondere oggi, sono pronto a offrirne domani una nuova interpretazione.
In attesa allora di una nuova altrettanto vera
interpretazione, vorrei dare uno sguardo d'insieme al disco che si apre, oserei
dire magnificamente per sonorità e atmosfera, con A ritroso per
concludersi ancora con una ripresa in acustico, con lunga coda strumentale, dello
stesso brano (così come probabilmente è stato concepito) in una sorta di
viaggio, appunto, a ritroso. Il tuo recente saggio su Serge Gainsbourg mi ha
insegnato che un poeta può nasconderne un altro e devo dirti che questa
circolarità del disco mi ha riportato alla mente, in un gioco di rimandi, un
film proprio di quegli anni di Theo Angelopoulos. Circolarità a parte, ciò che
mi sembra trasparire nell'ascolto ripetuto è una compattezza quasi granitica
del disco nella sua interezza, non è un concept album ma sembra quasi esserlo,
è solo una suggestione?
Perché non citare allora Prima della pioggia
di Milčo Mančevski o Pulp Fiction di Quentin Tarantino? La circolarità
del tempo è l'essenza della "catena delle nascite e delle morti" di
concezione buddista nonché platonica, si inserisce nelle età vichiane ed è
patrimonio dell'umanità senza scomodare pure il decadentismo dandy di Joris
Karl Huysmans che nel 1884 ha dedicato un romanzo intitolato A ritroso all'opportunità
di revisione della propria esistenza risalendo verso un'origine mai conclusiva.
Credo che l'imposizione di Gandalf Boschini nell'esigere un album non
concettuale si sia rivoltata contro di lui senza che lo volessimo, creando
l'ironia di una raccolta di singoli incorniciati da una canzone con ripresa
come si usava ai tempi d'oro del prog, vedi King Crimson, tale da far risaltare
i solitari come fossero parte di una parure incapace di far loro perdere la
sostanza solitaria della rarità. L'effetto è straniante e curioso. Non è un
concept album però ne suggerisce l'idea, tanto che poi si va in cerca del
concetto che dovrebbe riunirne i brani e si seguono filoni privi di compiuta
linearità. Potremmo chiamarla una "poesia della confezione", quanto a
complessiva irriducibilità interpretativa: non si arriva mai a una decifrazione
definitiva ma si continua a scovarne indizi. A ritroso ne è in effetti
il contenitore ideale.
Hai ragione, avrei anche potuto citare allora Il cerchio
di Jafar Panahi, ma il mio virare verso la Grecia trova il suo perché nel
disco, impregnato direi di una certa ellenicità, se ben due canzoni Una
signora per bene ad Atene e Parcheggiare a Delfi, non solo sono
collocate geograficamente in Grecia, ma respirano nei versi aria di classicità,
di mitologia, di filosofia. Sembrano già esse stesse dei classici, storia e
presente si mescolano, aneliti divini si alternano ad umane miserie. Vorrei
però la tua chiave di lettura, almeno quella di oggi...
Beh, la prima è il divertimento. Nei testi
scritti nei luoghi narrati, cioè Atene e Delfi, con passaggio obbligato a Tebe,
mi è piaciuto registrare la commistione tra passato e presente, così ben
testimoniata dalla lingua greca moderna, tanto dissimile da quella antica da
sembrare che sia un'altra senza però esserlo fino in fondo. L'esercizio
all'oblio dei Greci sta tra l'ammirevole e il disdicevole, è senz'altro un
espediente necessario alla prosecuzione dell'esistenza nel fluire delle ere. Lo
shock culturale di ascoltare parole che riportano a etimologie di termini
italiani in un continuo rifrangersi di metamorfosi tra il classico e il
contemporaneo è occasione troppo ghiotta, straniante ed emotivamente densa. Graffiare
a Tebe la macchina noleggiata e sistemare la faccenda assicurativa con 100 euro
in franchigia ad Atene sembra, pur vissuto nella realtà, uno scherzo che
ripropone nella ordinarietà veniale del quotidiano la creazione dell'Areopago
per giudicare i crimini del matricida Oreste cantata in età classica. E
scoprirsi a pregare Apollo per trovare un parcheggio nella scoscesa Delfi non è
meno scioccante e ironico. La classicità aggredisce la mente nell'esatto
momento in cui l'irrisorietà moderna la sgrava di consapevolezze che un tempo
pesavano su ogni gesto in luoghi tanto roridi di trascendenza. Come gli
Italiani abituati al Portico di Ottavia possono mangiarsi un panino nel ghetto
senza rammentare nulla delle stratificazioni del tempo in un'area così antica,
così i Greci sembrano non accorgersi che in ogni angolo della loro terra
l'Olimpo continua a manifestarsi con prodigi ridimensionati costantemente
dall'inaridimento occidentale dell’invisibilità immanente. Ma dal latino
all'italiano il passo è molto più evidente che dal greco antico a quello
moderno. Noi abbiamo cambiato le parole, loro i significati. La nostra “metafora”
per loro è un “autobus”. Gli Olimpi sono morti soprattutto nella mente dei
Greci, Gesù ha sostituito suo padre Zeus, come Egli temeva, ma io continuo a
ringraziarlo quando su un'isola delle Cicladi trovo sollievo dal solleone
grazie a una nuvoletta pluvia che in Italia farebbe invece pensare a Fantozzi.
Se le cose sono superficiali quando le guardi in superficie, è bello cogliere
la profondità dimenticata di un luogo sacro come la Grecia.
Vorrei continuare in questa sorta di gioco,
abbinare una canzone a un'altra apparentemente senza nulla in comune, mi
riferisco a L'atteso e Rimasta qui, sembrano anzi nei titoli
presupporre due situazioni diametralmente opposte, in realtà mi sembrano
giocare sulle relazioni temporali tra l'istante vissuto, quel che potrebbe
divenire e ciò che è stato. Mi aiuti a far luce?
Innanzi tutto sono la seconda e la penultima
canzone del disco, come posizione hanno un'analogia che dovrebbe finire lì. L'atteso
è una figura imprendibile che non arriva mai ma continua a essere
aspettato, comincia come un eroe e poi non si sa neanche se sia morto, il che
senz'altro lo escluderebbe dal novero dei martiri, nonché delle persone
attendibili oltre la loro esistenza terrena. Così atteso da sembrare quasi
L'appeso dei Tarocchi, che in effetti imperversano in Rimasta qui, con
la Madonna protopapessa che si stempera nel Matto in una festa di Arcani
Maggiori di cui l'Eremita, simbolo della Vergine, scompare nel miracolo mistico
dell'assunzione in Cielo mentre la comune mortale uscita dal mazzo come
l'Amante, forse, o come qualunque altra carta, rimane in grembo, priva di
destinazione trascendente. Si trovano collegamenti con qualunque cosa,
l'analogia non scarseggia, e come pretesto per parlarne lo stratagemma
funziona. Parliamo comunque di presunte individuazioni: L'atteso è
inesorabilmente assente, Rimasta qui è presente ben oltre le
aspettative, con ostinazione, anche quando in teoria non dovrebbe esserlo più.
La prima è una forma di assenza molto presente nel pensiero, pensiero slanciato
nel futuro per l'attesa, la seconda è una presenza che si protende nel tempo
del ricordo, un pensiero rivolto all'indietro. Hai ragione sono speculari,
diametralmente opposte. Entrambe ballate, rese musicalmente al massimo della
loro ritmicità.
C'è una canzone, Ricominciando, che credo non a caso
sia stata collocata a metà del disco tra le due A ritroso. Si ruota
ancora intorno al concetto di tempo, o meglio alla ciclicità del tempo, al continuo
ricominciare per cui "ogni incontro ha il suo motivo". È proprio
così?
Il titolo già lo dice. Ricominciare indica un
nuovo inizio, dunque c'è stata una fine, ragion per cui si ha occasione di
iniziare nuovamente. Ma la fine dell'inizio e l'inizio della fine si confondono
sempre, finché la faccenda non sarà davvero conclusa. In mezzo abbiamo il
dubbio tra la reale cesura e quella percepita, un po' come per la calura estiva
mista a umidità. Davvero è finito o è un'illusione? Davvero comincia o è un inganno?
In una realtà in cui l'immagine conta più della sostanza, si può comprare una
fontana per vendere un miraggio, senza dissetare nessuno. Si possono fare foto
mirate a una sala spettacoli e fingere che fosse zeppa quando non c'era
nessuno, si può guardare il mare e vedere solo ciò che di bello si immagina
all'orizzonte. Niente morte per acqua, niente morte per fuoco, infine niente
morte. Tutto riparte. Cosa è finito e cosa comincia? "L'inizio è sempre al
buio" vuol dire questo: non è detto che non ci si stia aggirando ancora
nella fine non consumata e chissà se si arriverà mai a vedere interamente chi
si è incontrato. Ci sostiene il caso, con il suo carico di fatalità, a definire
se la fine offerta in aperitivo non è che il preludio a un primo piatto o a un
dessert. Insomma il vortice è tutto lì, nella terra di nessuno della madre di
tutte le metafore, il tempo. Gira la carta un'altra volta e torna l'Appeso,
l'Eremita, l'Amante o forse La Torre. La divinazione in fondo non è che una
specie di bussola per aggirarsi in questa zona incerta, nella quale indugiare
non è poi spiacevole. Una svolta è la fine di un modello e l'inizio di un
altro, ma lascia i suoi rimasugli, frattali ripetuti dentro e fuori l'immagine.
Ho molto amato come l'arrangiamento di Luca Sammartin ha stravolto la versione
"iniziale", animando con batteria elettronica l'andamento da
lenta ballata sottolineata dal pianoforte di Erik Boschini. La chitarra di
David Cremoni ha inacidito il tutto dando l'impressione che un qualcosa di
stabilito infine esista.
Anche in questo disco hai dato spazio a due belle
traduzioni, una è La canzone di Prévert di Serge Gainsbourg che è legata
a giro stretto al saggio da te appena dedicatogli in coincidenza con i
trent'anni dalla sua morte, l'altra è Homburg dei Procol Harum che forse
per la prima volta offre la possibilità di essere compresa nella sua pienezza.
Entrambe sono reinterpretate in nuove vesti, la prima diventa un country folk
la seconda un rock prog di ampio respiro. Entrambe direi mettono le minigonne e
ringiovaniscono non di poco. Ti trovi concorde con questa mia visione?
Non so se le minigonne, ma l'arrangiamento sì le
ha un po' ringiovanite anche se per me il fascino delle loro versioni originali
rimane immenso. Alla canzone di Gainsbourg ho dedicato un capitolo intero del
mio libro su di lui, la traduzione al confronto è un giochino, un gesto di
affetto ammirato per un personaggio che mi è diventato molto familiare dopo
aver passato insieme mesi di studio e interpretazione. Scrivere un saggio biografico
ermeneutico su un creatore è un modo di assumerne la forma, addentrandosi nei
meandri della sua mente e delle sue emozioni. Cantarlo, a quel punto, è come un
momento di relax, un disimpegno in cui ti permetti di impersonarlo dopo averne
dissezionato l'intimità estetica. La canzone di Prévert è un capolavoro
di metacanzone, una esegesi in versi che merita di essere divulgata come lo
meritano i brani dei Procol Harum, in cui il poeta Keith Reid ha dato il meglio
di sé. Si tratta di due autori di origine ebraica, latori di una profondità non
sempre così spontanea nei gentili. L'abitudine tradizionale a contrattare con
Dio e a ridiscutere le alleanze sovrannaturali evidentemente dona loro una
marcia in più nel manipolare il significato delle cose. Homburg è un
momento di apocalisse su atmosfera classicheggiante di cui valeva la pena
cercare di restituire il senso. Il declino e lo spaesamento di un ragazzo
incasinato assumono dimensioni universali con pochi versi ben assestati. Altro
che L'ora dell'amore.
Vorrei parlare ora di La paga, canzone che mi viene da
accostare a Ciascuno ha il proprio festival del tuo precedente disco,
magari non si vuole prendersi troppo sul serio, usando l'arma dell'ironia, ma
in fondo qualche sassolino dalla scarpa ogni tanto è giusto toglierselo, è
così?
Chi si schermisce dietro a "un iban
difettoso" per non pagare il giusto compenso merita una frecciata, ma
principalmente La paga è un canto di giubilo, in cui un riff alla Deep
Purple si apre poi nella festa dei soldi che arrivano in tutte le loro varie
forme, dal bonifico al versamento, con moneta e divisa che si contendono la
gioia finale del Signor Bonaventura. Il compenso sì, ma non solo, c'è anche la
moglie generosa che alimenta l'immaginario dell'artista in ambasce per le
mancate onoranze dei debitori. Se l'insegnante di scrittura creativa di Raymond
Carver, John Gardner, suggeriva come soluzione di "vivere alle spalle del
coniuge", chi sono io per sminuire una tale meravigliosa opportunità?
Anziché rantolare come Baudelaire all'inseguimento di un'elemosina
dall'esecutore finanziario del patrigno, è preferibile giocare a bridge
sperperando i beni coniugali come Barry Lindon. Viva Bel Ami e muoiano tutti i
Filistei.
Eccoci alla canzone che ho volutamente lasciato per ultima,
cioè Metaforicabionda che sembra quasi essere un seguito di Bionda.
Là la bionda in questione era la sigaretta come metafora della donna fatale,
qui è una bionda in carne e ossa, neppure bionda, solo tinta ma metaforicamente
bionda, di quel biondo che fa sbarellare gli uomini e forse anche le donne. Quella
che sembra cominciare come una canzone d'amore sembra poi incentrarsi sui segni
lasciati dal tempo "da troppe estati da troppi inverni" vissuti,
sembra quasi una vendetta servita fredda alla Kill Bill o è solo una mia
impressione?
Non c'è niente di freddo in questa canzone. È
abbastanza rovente la "scorrettezza politica" che la imbionda, tinta
a prima vista di una vaga misoginia. Naturalmente non si riferisce a una donna
quanto invece a un atteggiamento, un comportamento, una propensione
all'apparenza in un'epoca social in cui piattaforme di incontri consentono di
rimorchiare dopo aver valutato l'aspetto e l'intelligenza presunta delle
persone coinvolte. Così si cura il proprio charme in base a ciò che si è voluto
mostrare via internet. Foto in posizione ed età favorevoli, acconciatura fresca
di parrucchiera, sorriso che attutisce le rughe. Ma le rughe ci sono e i
capelli non sono più biondi da parecchio tempo, in alcuni casi non lo sono
stati mai. Il rimorchio da annunci sentimentali tipo "AAA cercasi" è
camuffato da simpatico scrolling delle immagini su piattaforme apposite, cui
seguono gli incontri non sempre all'altezza delle speranze. La bionda diventa
metafora di questa ricerca un tempo destinata solo a pochi incapaci di trovare
moglie o marito e ora di uso generale quale modo principe di conoscere
qualcuno. Al bar o al ristorante ci si trova dopo aver già ben vagliato le
credenziali e quel che sarà sarà. L'occasione favorisce l'occasionalità e il
make-up fotografico deve poi reggere alla prova in presenza. "Il problema
più importante per noi / è di avere una ragazza di sera", cantava
Celentano. Non è più questo, il problema ora è di incontrarne una vera.
Un'ultima domanda, rispettando
quella circolarità di cui si è parlato, tornando a ritroso al punto di
partenza, a Gandalf Boschini e ai Logos, quanto il non dover pensare agli
arrangiamenti dei pezzi e all'impostazione sonora ti ha permesso di cantare con
maggiore libertà, con risultati notevolissimi come anche le prime recensioni
ricevute hanno sottolineato?
Ringrazio per i giudizi favorevoli.
Libertà sì, nel senso di sgravio di responsabilità. La delimitazione del campo
creativo, restringendo i confini alla costruzione di musica e testi senza
badare alla veste e alle scelte stilistiche finali, corrisponde infine a una
maggiore concentrazione sulla propria area di talento. Lasciarsi guidare è un
po' delegare, un'abilità di per sé. La capacità di cedere parte del controllo,
indispensabile all'orgasmo in amore, alla crescita imprenditoriale, all'aumento
del tempo libero, è il risultato di un progresso che permette una più armoniosa
attività in team. La voce stessa risulta maggiormente immersa nella musica, c'è
meno ego, è parte di un felice sforzo comune che attribuisce al
"solitario" una valenza tutt'altro che solipsistica. La demarcazione
del proprio spazio contribuisce a una migliore visione d'insieme. Una lezione
di maturità, meglio tardi che mai.
Dopo ben sette anni di
silenzio musicale, risale infatti al 2014 il suo ultimo album Malaspina
(Hydra/Ukulati), il cantautore pavese Oliviero Malaspina a fine 2021 ha
pubblicato uno splendido singolo dall’eloquente titolo “Il bisogno più
profondo” (Tilt Music Production / SottileVerticale Music) accompagnato da un
videoclip che intelligentemente sottolinea ogni singola parola di un testo
meraviglioso. Quale occasione migliore per sentire cosa bolle in pentola…
Circa tre mesi fa hai
pubblicato il singolo Il bisogno più profondo che sin dal primo ascolto
mi ha segnato, scusa il gioco di parole, profondamente. Com'è nato questo
splendido brano dopo tanto tuo silenzio musicale?
Caro Fabio, intanto i sette anni
non sono stati una scelta ma sono stato gravemente malato nel 2015 e 2016, con
quattro interventi e riabilitazioni. Musicalmente in questo periodo ho
collaborato con diversi artisti, ultimi Phil Mer e Andrea Pavoni per Canzoni
in verticale, in uscita. Mi sono poi dedicato alla narrativa, pubblicando La
prossima volta saremo felici (Galata Ed. 2017) e Drammaturgia degli
invissuti (Fallone Ed. 2019), scritto con Giuseppe Cristaldi, libro
adottato dalla facoltà di Psicologia dall' Università Salesiana di Torino. Il
bisogno più profondo nasce dall'esigenza di una catarsi interiore, piccoli
flash per raccontare di vita morte e amori. Ho cercato un suono controcorrente
alle esigenze del mercato e dell'editoria italiani, infatti, la mia casa
discografica è la TILT Corporate London e la distribuzione Sony Music Usa.
Presto uscirà un altro singolo e a settembre l'album.
Il silenzio era ovviamente
riferito al tuo discorso musicale inteso in prima persona e la notizia di un
tuo prossimo disco in uscita a settembre non può che farmi felice, così come credo
tutti coloro che amano la musica di qualità. Il disco ha già un titolo? Sempre
che si possa anticipare qualcosa ...
Non ancora. I titoli sono sempre
un casino per me.
So che molti preferiscono
sceglierlo per ultimo, in effetti, ma qualcosa in più si può saper del nuovo
disco? Non è certo notizia di tutti giorni un tuo disco.
Sarà un disco molto duro e scuro.
Tanti pianoforti concepiti cinematograficamente, in primo piano, campo lungo.
Archi, elettronica con suoni creati. Molti musicisti bravi.
Quindi il singolo sembrerebbe
uno dei pochi momenti di luce, un volere spiazzare l'ascoltatore?
No, è un corpus a parte.
Nel senso che non farà parte
del nuovo disco o che rappresenterà un unicum all'Interno del nuovo lavoro per
stile e scrittura?
Non credo farà parte dell’album
così come il singolo che uscirà a maggio. Oltre al discorso sonoro e del
momento vissuto, credo si debba essere corretti con chi ci segue e quindi
evitare doppioni. Se fai caso alla mia discografia, io non ho mai fatto uscire singoli.
Non ci avevo mai fatto caso. Allora
ti chiedo se per te ha ancora pienamente senso parlare di album in senso
generale, come raccolta di canzoni e come supporto fisico in un mondo musicale
sempre più virtuale, sempre più fluido...
Ha ancora più senso di prima. Le
piattaforme vanno bene ma io amo il supporto fisico con libretto come in ogni
mio lavoro. Non è musica al consumo, quindi ha un corollario importante sia in
cd e vinile, 100 vinili numerati non ristampabili.
Su questo aspetto non puoi che
trovarmi d'accordo, da feticista del disco, per me un album è fatto di musica, testi
crediti, fotografie disegni, di pagine da sfogliare e consumare. Ci sarà
qualche collaborazione in questo tuo nuovo lavoro? Tu che in passato hai
collaborato a tua volta sia con Fabrizio sia con Cristiano De André, ma non
solo...
No. Ci saranno tanti musicisti
eccelsi e qualche talento scoperto in questi anni. Niente duetti.
Personalmente trovo comunque
molto interessanti nell'ambito della canzone d'autore le collaborazioni, che
non vuol dire necessariamente cantar poi i brani in coppia ma magari scrivere a
quattro mani oppure progettare dei percorsi comuni. C'è qualche artista, al di
là di coloro con cui hai già collaborato, con cui ti piacerebbe confrontarti,
magari nel mondo musicale femminile che sembra quasi essere visto come un
universo separato?
Sto scrivendo alcune musiche con
Carlo Calegari. Un mostro di bravura. Non mi sono mai posto problemi di genere.
Amo alcune cantautrici ma tendo a fare tutto da solo. Sto scrivendo un album
per Fanya Di Croce, ci vedremo a fine aprile per confrontarci.
Le collaborazioni fanno sempre
bene alla buona musica e le sinergie non possono che apportare nuova linfa.
Ho anche avuto contatti con Mina
e Patty Pravo ma hanno trovato i testi, come dire, un po' troppo impegnativi e capisco
bene. Anche se speravo che fossero più libere, vista la caratura dei
personaggi.
Beh, forse è semplicemente più
facile puntare sul già noto al grande pubblico, sarebbe però stato interessante
vederne i risultati.
Sinceramente no. Vedo molte
lamentele ma molta pigrizia. Tipico di noi italiani. Lamentarsi e non fare
nulla. Io sono curioso quindi cerco di ascoltare tutto anche per imparare. Ho
ascoltato cose molto interessanti. Ma anche molte banalità.In più trovo che musicalmente e
editorialmente ci sia una sproporzione immane tra offerta e domanda. Viviamo un
momento di forte arretratezza culturale. Non stupiamoci se poi finisce tutto in
sceneggiate e gossip anziché una forma d'arte dalle radici greche.
Tutto ciò che affermi è vero,
la troppa offerta poi non fa che mescolare banalità a qualità e l'assuefazione
dell'ascoltatore al brutto fa il resto. C'è, invece, un messaggio che vorresti
lasciare alle onde del mare, chiuso dentro una bottiglia, magari a chi ancora
non ha avuto modo di conoscerti musicalmente?
Sopravviveremo. Come sempre
troveranno i nostri foglietti interessanti e da rivalutare. Al momento sono
contento e terrorizzato di essere studiato in Università e in alcuni licei.
Devo dire che i ragazzi hanno fatto elaborati molto profondi e questo è di buon
auspicio.
Se me lo concedi allora, le
parole da scrivere in quel biglietto, le rubo dal tuo nuovo singolo: “E un gran
silenzio urla / Nei perché / Mi manchi e sei con me”.
È il 2 novembre del 1975, Pier Paolo
Pasolini viene trovato morto all’idroscalo di Ostia da un passante, è stato
massacrato di botte e risulta essere stato più volte investito dalla sua stessa
auto, un’Alfa Romeo GT 2000. Da subito, a essere accusato è Pino Pelosi, un
ragazzo di vita di 17 anni, che confessa di aver ucciso Pasolini perché
quest’ultimo voleva avere con lui un rapporto sessuale non consensuale. Quel
momento segnerà la fine terrena di un grandissimo poeta, ma anche l’inizio di
un modo errato di approcciarsi alla sua figura, seguiranno biografie,
documentari, film, spesso concentrati sulla sua omosessualità, sul suo
preferire accompagnarsi a giovani ragazzi di vita, anziché sulla sua vasta
produzione letteraria, cinematografica e persino pittorica.
Cosa c’entra Pasolini con Serge
Gainsbourg? Apparentemente nulla, ma scrivere su un personaggio come Gainsbourg
avrebbe potuto portare allo stesso errore e credo ne sia ben conscio Marco
Ongaro se, in un capitolo di Un poeta può nasconderne un altro - Il senso
della parola di Serge Gainsbourg, scrive “Pare che la formazione sessuale
di Gainsbourg significhi molto per i suoi biografi, divisi tra femmine attratte
dal mito della Bestia che conquista la Bella e maschi invidiosi del Brutto che
attira le splendide che loro non hanno saputo attirare” e più avanti “Ma è la
sua grandiosa capacità di assimilare e trasformare, teorizzare e analizzare le
pratiche conseguenti in fatto di sesso e amore, temi fondamentali di qualunque
espressione artistica, a essere l’elemento principale del mito Gainsbourg”.
Boom! Centro! Ecco, quindi, su
cosa non puntare la lente d’ingrandimento, deve aver pensato Marco Ongaro nello
scrivere del mito Gainsbourg, comprendendo bene che non sta tanto nella capacità
amatoria la sua grandezza quanto, semmai, nel saper trasformare in oro, come un
novello Re Mida, “il sudore e le frizioni basilari che coinvolgono due esseri
esteticamente ben assortiti nel corso degli esercizi d’amore”, citando ancora
una volta l’autore del libro.
Com’è dunque il Gainsbourg di
Ongaro? Se ne intuisce grandiosità e originalità sin dall’introduzione, dove
emerge un poeta che non parte dalle idee ma dalle parole, è il cantante
francese a dire “Le parole veicolanti le idee, e non le idee veicolanti le
parole. Primordiale. Niente parole, niente idee”. Scrive però Ongaro in
proposito “Il calembour è sempre in agguato”, come quando Gainsbourg afferma “Fino
alla decomposizione, io comporrò”. Ma non solo l’amore per il calembour:
dall’immensa produzione di Gainsbourg emerge un utilizzo delle parole spesso
spiazzante, così spiazzante da essere a volte incompreso oppure compreso solo
in parte, soprattutto per chi non è di lingua madre francese. Nelle proprie
canzoni usa spesso il franglese, un ambiguo miscuglio delle lingue francese e
inglese in cui i significati si sommano ad arte, come ad esempio in Lemon
incest, in cuiuna tredicenne Charlotte Gainsbourg canta “incest de
citron” e il coro le replica “lemon incest (lemon zest)”, una sorta di
traduzione simultanea che disvela il senso francese in essa celato. Geniale,
come quando fingendo di voler omaggiare la celebre Le foglie morte di
Jaques Prevért, scrive la sua La chanson de Prevért, che in francese
suona effettivamente come “la canzone del prato verde”, con nuovi versi ispirati
perfino forse a quelli potenti del Giuseppe Ungaretti di Non gridate più,
con cui in realtà sembra voler dire “Finitela con queste Foglie morte, o
moriremo tutti di nostalgia”, quasi a voler interrompere la serie di rimandi
per cui un qualcosa nasconde sempre un richiamo a qualcosa d’altro. Persino
quando pare a corto d’idee, per cui attinge da versi altrui (c’è in tal senso
una complicità incredibile con Boris Vian), riesce sempre a trarne nuova linfa
o a scompaginare le carte.
Ma il mito Serge Gainsbourg, dall’inizio
del timido Lucien alla fine del borderline Gainsbarre, in questa biografia di
Ongaro è totalmente assente? Assolutamente no, è sempre lì sullo sfondo ma sono
le canzoni, o meglio il senso per la parola di Gainsbourg, ad attrarre
visceralmente Ongaro, che quasi come un biologo mette sotto la lente di
ingrandimento le gemme più nascoste e le analizza.
Ne esce una guida preziosissima anche
ai neofiti in fatto di Gainsbourg, come il sottoscritto, un vademecum capace di
far comprendere come mai questo mito assoluto sia sopravvissuto al passare del
tempo, illuminando come un faro anche coloro che sono venuti dopo di lui,
diventando a sua volta fonte di ispirazione non solo per i cantautori francesi,
ma anche per quelli d’oltralpe, perché in fondo un poeta ne nasconde sempre un
altro.
Detto questo, credo che nessun
altro in Italia, se non proprio Marco Ongaro, avrebbe potuto scrivere così bene
e così approfonditamente di un artista sconosciuto a molti miei coetanei (pronti
a riconoscerlo però ascoltando il capolavoro Je t'aime moi non plus, famosissimo brano utilizzato proditoriamente
per animare a tappeto i servizi telefonici erotici degli anni ’80) perché Marco
Ongaro, come Gainsbourg, ha sempre saputo spaziare da una forma d’arte a
un’altra - è autore di canzoni, scrittore di libretti d’opera, saggista,
biografo - facendo della tecnica di scrittura la sua arma migliore per cogliere
la poetica altrui e appropriarsene. Mi viene in mente, per esempio, la sua
canzone The lies que vou disiez, contenuta nell’album Certi sogni non
si avverano: in fondo non troviamo qui lo stesso franglese di cui spesso
fece sfoggio Gainsbourg?