domenica, gennaio 26, 2020

Claudio Sanfilippo, un disco che viene dal passato


di Fabio Antonelli

E' da poco uscito BOXE, il nuovo disco di Claudio Sanfilippo, un album in cui il cantautore milanese ha raccolto 14 canzoni scritte tra il 1981 e il 2017, tutte chitarra e voce, “parole e musica a mani nude”, come l'ha definito lui stesso nel bel libretto che è inserito nel disco. Un disco meravigliosamente fuori moda, da gustarsi lentamente, come questa intervista.



Quanto è bella la copertina di questo BOXE, uno splendido scatto bianco e nero, una schiscetta con il tuo cognome e nome incisi sul coperchio, fotografata dall'alto. Mi racconti la sua genesi e chi è l'autore della foto?

Il disco era chiuso, mixato e masterizzato, per la copertina c’erano un paio di idee sulle quali stavo ragionando, ma non avevo ancora deciso nulla. Poi dal “sottotetto” è arrivata la sorpresa, per puro caso: in uno scatolone c'era questa “schiscetta” (in italiano gavetta, portavivande) che mia madre aveva fatto fare nel 1963 per mandarmi all’asilo, avevo tre anni e ai tempi dalle suore di S.Rita, in via Ponzio a Milano, non c’era la mensa; ogni bambino doveva presentarsi con il cibo preparato a casa, e così mia madre fece incidere il mio nome. Quando l’ho vista è stato un attimo, il richiamo era perfetto, a partire dal titolo, lo stesso della canzone che apre, dedicata a mio padre che era mancato da poco. Inoltre è perfettamente tonda, richiama la forma di un disco che che raccoglie 14 canzoni inedite scritte dal 1981 al 2017, una specie di autobiografia musicale inconscia, la mia natura profonda. L’accostamento con “l’origine” non poteva essere migliore, e così ho chiamato Lorenzo De Simone, l’amico fotografo che mi segue da anni nei concerti, che ha fatto lo scatto e che per l’occasione ha fotografato alcuni angoli domestici che illustrano il libretto. La grafica è stata poi affidata ad Alessia Casati, che segue da anni le mie proposte “visive”. Questa è la storia della copertina.




Prima di parlare delle canzoni, vorrei soffermarmi sul libretto perché offre parecchi spunti, dalle foto piene di ricordi personali, di chitarre, tanto passato. Mi ha colpito la tua definizione "Parole e musica a mani nude", aggiungere io come oggi non si fa più. Si può definire un disco partito da molto lontano?

E’ un disco nato in maniera del tutto casuale, non avevo nessuna intenzione di andare in studio a registrare, era appena uscito Ilzendelswing, l’album in milanese di ispirazione country-folk che ho realizzato insieme a Massimo Gatti. E’ successo che abbiamo organizzato una serata di ascolto attento in uno studio in cui ho registrato quasi tutti i miei album, il Maxine di Rinaldo Donati, volevamo testare una chitarra classica baritono che mi aveva appena costruito un liutaio bravissimo che si chiama Fabio Zontini. La serata, per chitarra e voce, davanti a una ventina di amici, è stata magica, e così abbiamo deciso di replicare il giorno dopo, con l’intenzione di registrare, questa volta senza pubblico. In due pomeriggi abbiamo messo in fila 14 canzoni che raccontano 40 anni di musica scritta, scelte al volo nel repertorio inedito che negli anni è diventato molto corposo. Sono canzoni che potevano entrare in tanti miei dischi e che per motivi casuali sono rimaste fuori, tutto è successo in modo veloce, sfogliando il libro dei miei testi. Poi, nel corso della registrazione, ho suonato tante chitarre diverse: la baritono classica, che è un po’ la protagonista di questo disco, e le acustiche, le elettriche… in fondo si tratta anche di una dedica personale allo strumento che mi accompagna da quando ho iniziato a scrivere le prime canzoni, nel 1976.



Da questo tuo racconto, in cui ci parli di un parto del disco quasi del tutto casuale e di una raccolta  di canzoni scritte nell’arco di quarant’anni, magari per dischi diversi, ci si sarebbe potuti aspettare una miscellanea eterogena di brani, magari fra loro lontanissimi, il tutto, invece, forse favorito anche dalla scelta di proporre questi piccoli gioielli così come sono nati, voce e chitarra, suona quasi come un concept album, dove il tema è la quotidianità, il fare a pugni con la vita stessa, una vita che non sempre ci sorride. E’ solo una mia impressione?

No, credo che la tua impressione sia corretta. Evidentemente il mio modo di affrontare quel tipo di registrazione, così improvvisato e figlio di un’immersione profonda, solo per chitarra e voce, mi ha messo nelle condizioni di scegliere brani che in modo inconscio dipingono un quadro coerente. Sono tutte canzoni che cercano l’incontro, la prossimità, tutto si gioca sul piano empatico, emozionale. La scelta di non aggiungere altri strumenti mi ha aiutato a non lasciarmi sedurre da “distrazioni musicali” di altro tipo, anche se avrei potuto chiamare qualche amico musicista per “colorare” qua e là certe atmosfere. Ne sarebbe uscito un album con risvolti interessanti dal punto di vista sonoro, ma l’intenzione era proprio quella di restare “nudi e crudi”, con il desiderio di restituire le canzoni nella versione più vicina a come le avevo scritte. In questo senso è anche un disco che vuole riportare tutto all’origine di questa arte, o artigianato, secondo i gusti. E il titolo, BOXE, è anche la metafora di questa operazione, in un momento culturale molto confuso, in cui l’autenticità sembra non appartenere più alla modalità di ascolto. E’ un album anacronistico e al tempo stesso attualissimo, almeno per questa intenzione di non perdere il filo di ciò che è la canzone d’autore (o la canzone d’arte, come dice bene il mio collega e amico Max Manfredi).  Va detto che il contributo di attenzione di Rinaldo Donati è stato fondamentale, sia per la parte di supporto artistico che per quella delle riprese, del suono.



Io credo che in questa tua risposta sia davvero racchiusa l'essenza di questo tuo ultimo, bellissimo, lavoro e, per non togliere a chi ci legge il gusto di andare a scoprire ad una ad una le 14 gemme che lo compongono, non voglio entrare troppo tra i solchi del disco però, permettimi almeno di citare le due canzoni che aprono e chiudono il disco. Mi riferisco a Boxe con quei versi iniziali "Il libretto di lavoro di mio padre / sa di cedro e di castagne / e cacao e brace di vulcano in riva al mare / il libretto di lavoro di mio padre / ha l'inchiostro e la matita / la mano è una farfalla nella strada" in cui mi par quasi di annusarli quei profumi, di toccarlo quel libretto di lavoro, di averlo quasi conosciuto tuo padre, non so come dire... E poi c'è Piscinin, in cui canti questi versi in dialetto milanese "Te i han portàa via / mi te sé se foo / el papà ti a compra tütti anmò / l'è or che te dormet / piscinin, l'è stada düra incoeu", che dolcezza in questa immagine, quanto amore, che difficoltà a trattenere le lacrime. Come sono nate queste due canzoni e quanto ha contato nella tua vita la figura paterna?

Boxe e Piscinin sono le canzoni più recenti, che aprono e chiudono l’album, e non è un caso. Ho perso mia madre tanti, troppi anni fa, e mio padre, soprattutto nei suoi ultimi anni, ha significato molto. Un grande pasticciere, un grande lavoratore. Un vero uomo “del Novecento”, un catanese salito a Milano con la famiglia negli anni Trenta, da bambino, cresciuto nei cortili delle case di ringhiera. Infatti parlava un milanese perfetto, assorbito nelle strade. Mia madre invece era una milanese docg. Il retaggio culturale della mia città è molto legato alla memoria famigliare, ai racconti dei miei genitori, di mia nonna materna, che mi ha cresciuto. Queste due canzoni sono innestate in quella dimensione. Boxe ha una serie di immagini legate a lui, che da giovane ha frequentato le palestre del pugilato milanese, alla fine dei Quaranta. Sono immagini che raccontano per scatti visivi: il libretto di lavoro, i colori e i profumi siciliani, le aringhe, una sua passione (in casa nostra un vaso di aringhe che lui metteva personalmente sottolio, non mancava mai), la meringa (era un maestro pasticciere), i suoi modi di dire. Il suo preferito, che cito nella canzone, era un intercalare in dialetto: vann i tram? Cioè: gira tutto, funziona? Me lo diceva col sorriso, una specie di gioco. Ho cercato di scrivere un piccolo quadro emozionale, per immagini. Piscinin invece è l’unica che non ho scritto io, ed è anche l’unica in milanese (le altre 13 sono in italiano). E’ un brano bellissimo degli anni Trenta, scritto da tre americani, si intitola “Little man you had a busy day”, è una canzone dal sapore “cinematografico”, nello stile dell'epoca. L’ho scoperta in un album recente di Eric Clapton (I still do), che l’aveva reinterpretata in chiave “blues”. Il testo originale è bellissimo, e sono riuscito a restituirlo in milanese con una certa fedeltà, aggiungendo cose mie, originali, compreso l’arrangiamento chitarristico. E’ una canzone commovente, con la quale chiudo da qualche anno i miei concerti, come una specie di invito ad abbassare le difese e a darsi un po’ di pace, in questa epoca ansiogena e fetente in cui il buio, l’arroganza, l’ingiustizia e la confusione hanno il sopravvento. E’ una canzone “anarchica”, un po’ come tutto il disco, che non è “politico” in senso didascalico (il mio modo di scrivere è da un’altra parte, da sempre), ma che in fondo, tra i solchi, è una dichiarazione di guerra contro il potere e il gusto dominante, solo lanciata da un territorio in cui il valore della poesia è centrale. Quando si parla di “arte civile” la vulgata coinvolge stili e significati in cui il sociale è un dato dichiarato, esplicito, come se questo fosse un valore indipendente dalla forma. Io invece credo che l’arte civile non esista, se l’arte è autentica non ha bisogno di aggettivi; purtroppo c’è in giro una montagna di arte definita “civile” che trova spazio in nome della definizione, come se cantare il sociale fosse un passaporto sempre valido. Spesso si tratta di roba scarsa. La musica, come tutte le espressioni artistiche, si distingue per un valore che non ha niente a che vedere con il tema né, tantomeno, con presunte dichiarazioni di schieramento politico-sociale. Non c’entra niente. O è buona o non lo è. Se è buona arricchisce, apre, se non è buona paralizza il sogno, la possibilità di andare oltre. Anche in questo senso BOXE cerca di lasciare un suo piccolo segno.



La parte finale della tua risposta aprirebbe la strada a tante altre domande che però ci porterebbero lontano dall'oggetto dell'intervista, ma quanto hai detto credo non possa che accrescere il desiderio di entrare in questo tuo mondo poetico scritto in punta di piedi. Se mi permetti, ti faccio un'ultima domanda, riguarda la scelta personalissima di non pubblicare il disco su nessuna piattaforma digitale. Da feticista del disco, da cultore dei libretti, non posso che condividerla, però vorrei sentire il tuo parere, anzi, aggiungo un ulteriore step: non hai pensato alla realizzazione di una versione in vinile?

Ho pensato di non pubblicare il disco sulle piattaforme digitali, contrariamente al resto di tutta la mia produzione discografica, per dare un piccolo segno di discontinuità al conformismo che impera e che sta generando una pigrizia diffusa insopportabile. Non è un disco da consumare, è un disco da sorseggiare come un vino da meditazione. Io ci ho messo quel tipo di amore lì. Come se fossi, appunto, un produttore di vino che recupera un vitigno autoctono che sembrava perduto, lo recupera e lo coltiva con le attenzioni del caso e poi decide di vendere le bottiglie al di fuori della grande distribuzione organizzata, possiamo metterla così. E’ una scelta di coerenza verso lo spirito dell’album che, come dicevo prima, è un piccolo manifesto controcorrente che riguarda la nobile arte del combattimento, la BOXE. Il vinile uscirà in primavera e devo ringraziare la IRD e Maremmano Records, insieme Simone Veronelli e Paolo Pieretto, che mi hanno accolto e che hanno condiviso lo spirito di questo album. L’idea è stata loro, hanno anticipato e reso possibile un piccolo sogno.