martedì, marzo 16, 2021

Un silenzio lungo dieci anni, poi ecco “Diavoli Storti”, lampi di poesia in tempi bui.

di Fabio Antonelli

Diavoli Storti (REA – Concerto Music 2021), è il nuovo album di Marcello Murru, cantautore sardo, ma ormai dagli anni settanta stabilmente a Roma. Questo nuovo lavoro discografico, è nato sulla spinta entusiastica della regista Francesca Comencini che l’ha prima fortemente voluto nei panni di sé stesso nel film “Amori che non sanno stare al mondo” e che ha realizzato il videoclip del brano “Diavoli Storti” che dà il titolo all’intero progetto e di un grappolo di amici giornalisti, fotografi, ecc. che ne ha finanziato la realizzazione. Ecco cosa mi ha raccontato questo grandissimo poeta.  



A ben dieci anni dal precedente lavoro discografico "La mia vita galleggia su un petalo di giglio", è appena uscito "Diavoli Storti". Sono solito partire dalla copertina del disco perché è il biglietto da visita di un nuovo progetto. La scelta, qui, cade su un primo piano parziale del tuo volto, in un duro bianco e nero, mi pare di cogliere un volto comunque fiero malgrado le difficoltà della vita. Accanto, su campo rosso, il titolo. Cosa è accaduto in questi dieci anni? Perché questa scelta grafica, ma soprattutto come è nato questo titolo così suggestivo?

Non guardare il mostro in faccia è un gioco a risultato zero, ecco il motivo per cui questo scatto, dono di Stefano Babic, grandissimo fotografo e amico da sempre, mi è sembrato oltre che molto bello anche utile per indirizzare al mio percorso l’ascoltatore. Perché Diavoli Storti? Ogni esistenza ha una sua colonna sonora, un titolo. Questo mi sembra il titolo adatto alla mia in questo momento.

Il disco si apre proprio con "Diavoli Storti", brano per il quale è stato realizzato uno splendido videoclip, in bianco e nero, con la regia di Francesca Comencini che, ancor prima della realizzazione dello stesso, ha voluto ritagliarti un cameo nel suo film "Amori che non sanno stare al mondo", in cui canti un tuo storico brano "Testaccio" nel mezzo di una festa. Estrapolo questi versi "Piove sul mare / Su chi ha perduto tutto / Ma si accende di un pallido sole / Per ricominciare" perché mi sembrano racchiudere l'intero senso di questo disco o dico male?

Tutti ci troviamo a vivere questo tempo di minaccia e d’esilio, un tempo di minaccia e d’esilio dove si spacciano facili messaggi di speranza, tante certezze fasulle. A tutto questo penso che il dovere di chi scrive, sia quello di contrapporre l’incertezza. Il mio occhio si è sempre posato sulle marginalità con tutte le asperità, eppure in un mondo che diventa sempre più incomprensibile, cerco di portare uno spiraglio di luce. È un album di segni, di solitudini, di occasioni mancate, di perdite in un tempo di numeri.



È soprattutto un album denso di versi poetici, quasi dei lampi che squarciano il cielo nero della notte, versi che suonano come sentenze, una su tutte "la vita dà solo risposte alla cazzo di cane / ognuno si lecca le proprie ferite" tratta dal secondo brano "Non aver fretta di andartene". Quanto c'è di autobiografico in questa visione della vita?

Non conosco fino in fondo la verità delle mie canzoni anche se, penso che in qualche modo siano collegate alla mia vita.

Hai ragione, è sempre difficile giungere alla verità delle cose, figuriamoci se si tratta del nostro più profondo io. Soprattutto poi in questo ultimo anno, in cui siamo bombardati da notizie contraddittorie e dove "Il mondo vedi / si è chiuso in gabbia / stretto in cinture / gonfie di rabbia" come canti magnificamente tu in "Sapere di solitudine". Non credi sia proprio la solitudine, in un mondo apparentemente sempre più social, il vero male che ci tocca quotidianamente combattere?

Ci troviamo a vivere un tempo che non avremmo mai voluto incontrare “e non smette di piovere”, le nostre case sono diventate scatole troppo fragili per contenere la nostra solitudine. Anche per me, che per natura sono un solitario, si è rivelato molto duro e difficile, per dirla come Carrère “Vivere vite che non sono la mia“.

Quanto mi sento all'unisono con questa tua ultima considerazione, io che ormai da un anno esatto lavoro in Smart Working, ma bisogna pur andare avanti. Nonostante tutto, nonostante nella successiva “Vertigini” tu dica "so che l’amore / è la nostra speranza /ma non smette di piovere" ed anche "so pure che gli ultimi / arriveranno primi / ma non sapranno che farsene", versi che sembrano chiudere ogni speranza ai tanti diavoli storti. È stata forse scritta in un momento particolare della tua esistenza? Me ne parli?

Sono due versi molto amari, fino all’ultimo sono stato indeciso se lasciarli o cambiarli, ma poi ha prevalso la necessità di lasciarli, anche perché mi sono convinto che non fossero rappresentativi solo di un mio stato, ma dello stato di molti... mi capita spesso di non essere un allievo fedele della Speranza soprattutto in questi tempi.

Forse per questo la canzone successiva "La chiave del buio" ha un incipit così tranchant "Il mondo è orfano / se te ne vai". È l'inizio di una grande canzone, ma sancisce anche la fine di un grande rapporto.  Il testo si chiude con un verso "Nessuno appartiene a nessuno, / amore mio", che dovrebbe essere sottoscritto da tutti, all'inizio di un qualsiasi rapporto a due. Di grandissima attualità, dall'inizio dei tempi, non credi?

Una canzone come “La chiave del buio” mi racconta meglio di quanto io riesca.

Direi allora di proseguire il nostro viaggio lungo le tracce del tuo nuovo lavoro. C'è un altro verso che mi ha lasciato senza parole, per tua capacità di sintesi nell'osservare la realtà odierna "Si vive in digitale / si muore in analogico".  In "Digitale Analogico", il titolo della canzone, dici anche "C'è solo una parte di me che accetto di raccontare". Sono tutto orecchi...



Non ho mai parlato molto di me, ho voluto che fossero le mie canzoni a farlo, anche perché le parole da sole sarebbero state dure e spietate soprattutto con me stesso e io non posso permettermelo, per non compromettere il mio stato di salute. È passato troppo tempo e l’uomo che sembrava inespugnabile fisicamente ha ceduto il passo ad un uomo più riflessivo, che continua a guardare lontano. “Si vive in digitale si muore in analogico” è un modo di prendermi un po’ in giro anche se è così vero in fondo.

Guardare lontano, in fondo, l'hai sempre fatto sin da bambino se, come canti in "Spingendosi più in là", eri tu "il bambino che chiedeva a suo padre / se qualcuno lavasse le nuvole / e perché nude attraversassero il cielo". Trovo magnifica questa immagine. Ti manca tanto quella fase della tua esistenza?

No, non mi manca, anche se sin da bambino mi piaceva quando mia madre mi portava a trovare i vecchi zii in montagna. Io mi sporgevo felice dal finestrino del treno e sul mio diario descrivevo il panorama pieno di colori e di visi bruciati dal sole.

Hai ragione, d’altronde non possiamo che rassegnarci a vivere il nostro tempo, anche se un tempo in cui si fatica a riconoscersi. In "Lungo un cammino di numeri" c'è, da una parte tutta la drammatica attualità ben descritta dai versi "Ogni abbandono / ritrova il suo passo / lungo un cammino di numeri / lungo un cammino di numeri" che aprono e chiudono come fosse un cerchio il brano, dall'altra l'ottusa incapacità di affrontare la fragilità umana, l'ineluttabilità della morte "Sembra che ormai per morire / ti devi filmare / e se non sei fotogenico / ormai non si muore". Questa tragica pandemia ci ha forse riportato con i piedi per terra, anche se tu, personalmente, forse i piedi per terra, tuo malgrado, li hai sempre avuti. Non è così?

Mi stai chiedendo di spiegare quello che io non so spiegare... io non so spiegare i versi delle mie canzoni. Loro si rivelano molto più brave ed intelligenti di me. In fondo nella tua domanda c’è un’analisi del testo lucida che quasi mi sento spiazzato. Qualsiasi suggerimento o spiegazione io tentassi di dare alle parole di un verso è un po’ come volerle ingabbiare laddove io le ho rese libere.

Hai ragione, scusami, ma è più forte di me finire per analizzare i testi, soprattutto se stimolanti come i tuoi. A proposito di libertà, l'ultima traccia si intitola proprio "Liberos" e si chiude con i versi "danzamos liberos". La definiresti più una metafora di questi nostri poveri giorni o una sorta di umana preghiera?

Qui dentro c’è tutta una vita, proprio tutto, soprattutto quello che non mi sono perso. C’è il ragazzo che faceva su e giù per le scale di casa e, appena poteva, correva verso il piccolo molo di Arbatax a guardare il mare, a riempirsi gli occhi di una terra magnifica, a tratti amara. C’è la Sardegna degli anni ’60 ’70 con gli attentati, i rapimenti, i banditi, i Carabinieri, che in fondo è anche un po’ la metafora di questi nostri tempi, tempi dal mio punto di vista abbastanza bui. Però penso anche che sia, come tu dici, una preghiera, aggiungerei amara, dove c’è il perdono per troppe vite da risorgere, dove c’è il destino ineluttabile come dicevano i vecchi, i fallimenti, la paura di non farcela in un mondo dove a giocare sono sempre gli stessi e dove, come ho scritto, in un'altra canzone “gli ultimi arriveranno primi ma non sapranno che farsene”. Eppure penso che in questo tempo buio, dove purtroppo troppi amici sono andati via con un finale meno convincente di quello che potessimo aspettarci, si accende ancora una luce e riparte una musica: “danzamos liberos”.