martedì, dicembre 21, 2021

Max Manfredi - Il Grido della Fata, sospeso tra clausura e curiosità

 di Fabio Antonelli

Max Manfredi ha compiuto il 7 dicembre scorso 65 anni ed ha voluto farsi e fare un regalo a tutti i suoi ammiratori, pubblicando un nuovo album di dodici inediti, dal titolo “Il Grido della Fata” (Maremmano Records – IRD). Sono passati ben sette anni dal precedente Dremong (Gutenberg Music), un lungo periodo durante il quale non è certo rimasto con le mani in mano, ma ha alternato la realizzazione di opere letterarie e teatrali ad una lunga tournée con il conterraneo Federico Sirianni. Ma ecco, finalmente, dopo una lunga gestazione causata anche dalla pandemia, l’uscita di un disco che, ne sono sicuro, lascerà il segno.



Direi, se sei d'accordo di partire dalla copertina del tuo nuovo disco, una fotografia di Renzo Chiesa che si pone direi in maniera enigmatica un po' come tutto il disco (ma di questo ne parleremo più avanti), sta più a significare l'artista che scruta quasi di nascosto il mondo che lo circonda o l'artista recluso prigioniero di sé stesso, dei suoi fantasmi, dei suoi amori, delle sue fate o forse altro ancora? Poi c'è il titolo Il Grido della Fata. Folgorante. Sembrerebbe quasi un sequel della canzone Il regno delle fate. Ho già messo troppa carne al fuoco ... a te la parola.

Il nome dell'album proviene da una poesia del poeta "simbolista" francese Gerard De Nerval. Il componimento si chiama El desdichado e finisce evocando "i sospiri della santa e le grida della fata”. La figura della fata però si è inscritta direi capricciosamente nel mio immaginario da alcuni anni e quasi impercettibilmente. Tu citi giustamente il mio Il regno delle fate, poi, come le decalcomanie di una volta, la velina allegorica si è staccata e la fata è comparsa in tutto il suo smalto e in piena autonomia. La foto di copertina fa parte di una serie di scatti che mi ha dedicato il grande fotografo Renzo Chiesa nel quartiere milanese della ex Varesina, da covo nebbioso che era, oggi diventato un polo formale e informale di architetture e franchising. Dietro alla vetrina di un edificio anonimo, tra fregi quadrati, il mio occhio sì inoltra come quello di un "peeping Tom", o, perché no, di un fotografo, verso l'osservatore, riproponendo l'eterna questione del "chi è fuori?" e suggerendo un clima inquieto e conventuale insieme, una mescolanza di clausura e curiosità, che impregna tutti i brani del disco, il mio album più esplicitamente e francamente magico.

Ecco, hai citato un altro aspetto che mi ha colpito. L'intero lavoro, pur non trattandosi di un concept album, ha davvero come un fil rouge, un'atmosfera musicale particolare, che definirei algida, che impregna un po' tutte le tracce e non solo musicalmente. In più brani come già in passato, ritornano termini come freddo, gelo, inverno, neve, il tutto sembra poi essere accentuato dall'utilizzo abbondante, quello sì forse per la prima volta, dell'elettronica. Ritieni che la collaborazione con Vibrisse Studio abbia avuto un ruolo fondamentale in tal senso?

Sì. Abbiamo scoperto insieme, io, Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci, una vera miniera di possibilità sonore e musicali, e abbiamo raffinato ogni strumento, ogni plugin, convincendolo alle nostre esigenze estetiche. È proprio come dici, un disco algido, cristallino, pieno di vetrofoni e di invenzioni. Ad esempio, abbiamo campionato i suoni dei pianeti forniti dalla Nasa e abbiamo fatto loro eseguire delle melodie pilotandoli con l'autotune. Oppure abbiamo fatto suonare organi barocchi campionati e cordiere di pianoforte. Ma non meno precisi sono gli strumenti reali che abbiamo registrato, grazie alla collaborazione di musicisti straordinari.

Ecco, direi che è giunto il momento di addentrarci tra i solchi del disco, che si apre con uno dei brani più enigmatici ed allo stesso tempo affascinanti, si intitola Scimmia grigia e vede già due importanti collaborazioni in carne ed ossa: una, non nuova, che è quella di Ezio Zaccagnini alla batteria, l'altra di Bob Callero al basso. C'è ritmo, c'è molta poesia, spesso misteriosa come quei versi finali "Come l'immagine bionda e calda / che per un attimo mi abbaglia / dell'uccello perso nella boscaglia / che va cercando l'alba". Chi è realmente questa scimmia grigia, grigia come la materia del nostro cervello?

Hai ragione, è grigia come è chiamata la materia del cervello. È il simbolo dell'inflazione comunicativa e della solitudine paradossale che ne consegue. È anche la delega della nostra coscienza separata. Ti spiego invece l'immagine finale. È tratta - uno fra i pochissimi riferimenti letterari del disco - da una poesia del trovatore medievale Guiraut de Bornelh, una "alba", dove l'amico sta di sentinella davanti al luogo di incontro amoroso tra il suo compagno e la nobildonna sua amante, per sorvegliare che non ritorni il "geloso", cioè il marito di lei, magari coi suoi sgherri. E c'è la frase "Ho già sentito cantare l'uccello che va cercando il giorno per la boscaglia". Immagine pregnante che, oltre a ricordare l'atto sessuale che sta svolgendo l'amico, configura una sinestesia vertiginosa che mischia tempo e luogo. Ed è evocata da nient'altro che i suoni dei messaggi dei telefonini della Samsung, che trasformano "il treno in una foresta incantata", scenario favorito delle fiabe medioevali e rinascimentali. Anche qui si ammazza il tempo come si può, il concetto stesso di tempo cronico e lineare viene sospeso tra il prima e il dopo, niente ha fatto il suo tempo e il tempo lascia il tempo che trova.



Fantastico. Ora vorrei affrontare insieme le canzoni Sala da concerto e Polleria perché, sebbene molto diverse fra loro, sono accomunate dal tema della solitudine. La prima ha un titolo che farebbe presupporre una certa situazione, ma l'ambientazione poi spiazza l'ascoltatore, c'è un grande senso di freddo e trovo bellissimo, ancora una volta, il finale "l'inverno vuol dire girare da soli / con le mani in tasca le strade del centro / a inzupparsi di luce che il cielo è già spento / e sentire partire le navi e restarsene il vento". La seconda, si basa su una melodia struggente, ha un testo molto conciso e mi sembrerebbe ambientata in un passato lontano, che ferita poi al cuore quel "Tutti gli amici volano via / Come polli allo spiedo di una polleria". Temporalmente sono nate in periodi vicini? Lo scrivere canzoni, come il loro ascolto, possono essere un buon viatico contro la solitudine?

È vero, sono canzoni "con" la solitudine, non sulla o contro la solitudine. La solitudine come compagnia. E, ci hai visto giusto, risalgono più o meno agli stessi anni. E ti parlo della fine dei settanta e dell'inizio degli ottanta. Ma le canzoni nascono quasi sempre in solitudine e poi vengono condivise. Mi pare un buon inizio, da contrapporre alle solitudini condominiali. La condivisione di un senso di solitudine può dare adito a bevute insieme, o addirittura ad amicizie e amori. La solitudine sociale, invece, è incattivita dal rancore. Tutti i brani del mio album, infine, ma forse quasi tutti i miei (quasi) parlano di perdono. "Perdoni" venivano chiamate alcune porte delle chiese - l'ho letto in un mio libro. Quindi ingressi, possibilità di entrare e uscire. Anche a piccoli gruppi.

Salto, in questo zapping, ad un'altra canzone dal testo molto stringato e dal titolo orientale Nasi Goreng. Potrebbe sembrare il nome di una donna ma non lo è. Ogni parola centellinata in questo brano, il cui testo è stato scritto con Sante Boldrini, sembra avere un peso specifico immenso e quasi sempre più d'un significato. Ancora una volta magnifico il finale, quella zeppa "Conto salato, conto saldato". Direi che vi si respira aria densa di guerra e musicalmente è fondamentale il contributo di Elisa Montaldo e i suoi strumenti cinesi (koto, guzheng, flauto). Com'è nata questa canzone piena di suggestioni?

Nasi Goreng è nata da un testo dell'autore ed epigrammista Sante Boldrini, su cui ho innestato un'altra strofa. Abbiamo pensato all'estremo Oriente, ai conflitti indocinesi, alla violenza e al sangue. Ho cercato di fotografare questi elementi che esplodono nel corso di una "normale" cena durante un coprifuoco, come nel film di un regista contemporaneo. I nasi a cui si fa riferimento ricordano però una guerra "di tantissimi anni fa" e rappresentavano i trofei dei nemici dei nipponici, che avevano sostituito in questo modo le più impegnative teste. Ancora adesso c'è un monumento a Kyoto che custodisce questi nasi e viene chiamato, non so per quale ragione, "tumulo delle orecchie". La canzone è stata elaborata dai Lady Lazarus con l'aiuto di un tablet. Molti strumenti esotici campionati sono poi stati sostituiti da quelli reali suonati da Elisa Montaldo, che ne possiede una sfilza.

Malvina, invece, sì è il nome di una donna, una donna che "suona l'arpa a suon di sguardi / per i ragazzi della terza età", un'immagine splendida che mi ha riportato alla mente un altro verso di una canzone tua di tanto tempo fa, mi riferisco a "La sua donna stanotte ha un’altra pratica: suona l'armonium per i sordomuti" presente in Natale fuoricorso. Se le due donne non sono le stesse, è però forse lo stesso il periodo creativo? Resta per me una delle canzoni più poetiche e delicate allo stesso tempo, in più vi è il contributo musicale di Vincenzo Zitello e la sua arpa. Enigmatico ancora una volta il finale, non si sa chi tra Malvina e il "mister" sia ad inciampare e cadere, chi ad aiutare chi ad essere aiutato, viene quasi il dubbio che il misterioso mister altro non sia che la propria coscienza. Ho bevuto anch'io troppi calvados?

Il mister è il coach, l'allenatore, il tutor, lo sparring partner, il demone, l'ombra, il consulente. E sì, la coscienza. È legato all'io che racconta, tanto che si sorreggono e cadono insieme. Malvina è molto più recente, almeno come invenzione, della donna di San Giorgio in Natale fuoricorso, tuttavia si assomigliano in quanto se quest'ultima suona per il circolo dei Sordomuti, Malvina si esibisce con la sua arpa celtica per una classe di vecchietti in visita in Bretagna. Che della Bretagna si tratti, si capisce da una quantità notevole di indizi disseminati nel testo: dal suo nome gaelico ai Calvari, dai menhir ai Calvados bevuti dalla ragazza. Si tratta di una scena, ma è la scena di un addio, da cui fuggire e dove fare presto, senza indugiare e senza prestarsi all'incantesimo, come Ulisse fa con le Sirene e con Circe, mantenendo una specie di fatale autonomia. L'io narrante qui fugge con sé stesso o col suo doppio e si sottrae così all'incanto che probabilmente lui stesso ha inventato, non però al suo traballante destino. Fra l'altro questo "cadere" non è solo una delle mie favorite metafore, ma una pratica accidentale cui sembro essere alquanto legato, come ho sperimentato ancora un paio di giorni fa.



Tutto torna, si direbbe. Dalla Bretagna spostiamoci alla Sardegna, o così almeno sembra essere ambientata la dolcissima Elicriso. Non è un trattato di botanica, ma l'elemento per trattare ancora una volta di solitudine e di nostalgia, questa volta dettata da una forzata distanza, da un distacco che sembra d'altri tempi ma che ahimè è di un'attualità lacerante. Vorrei che fossi tu a parlarne, io cito solo il verso che chiude la canzone "Ho imparato a leggere nel libro, / pagine che sanno un po' di fieno. / Metto dentro al libro l'elicriso. / Preferivo sul tuo seno".

Si è più a casa nella propria situazione reale o nella nostalgia? Se la nostalgia, termine coniato in età relativamente moderna, implica un sentirsi a casa dove non si è più, se il verbo "desiderare" ha a che fare con le stelle, la realtà vissuta ha necessariamente a che fare con quella sognata. Ma entrambe hanno i loro diritti. Così il mio emigrante abbandona tutto un mondo, e un amore, per un universo differente (altri fiori e altri sguardi al davanzale) ma ritorna in sogno, la notte, al suo antico promontorio. E un indizio, un segnale, che lo fa tornare alla "Porta dell'argento"; che i geografi e i Sardi riconosceranno come un monte, gli occultisti e i poeti come l'ingresso dei sogni. E questo indizio è un fiore secco di elicriso.

Il fiore di elicriso mi per permette di passare ad Apis, canzone meravigliosa per costruzione e scrittura, mi sono annotato qualche verso "E adesso no che non so / riciclare / amori in folle e folle in amore! / A chi scende giù fino al miele / si sciolgono scienza e parole", "e ho visto un'ombra all'albergo diurno, / Cleopatro che scendeva le scale”.  Desiderio e illusione sembrano fondersi irrimediabilmente come in un crogiuolo o sbaglio? Mi fai luce?

A buon diritto parli di illusione, parola che, con la sua bella dieresi ronzante, utilizza Pascoli proprio parlando del miele delle api. Tuttavia, qui non si tratta nemmeno di illusione. È proprio il crogiolo di cui parli, che fonde insieme evoluzione e involuzione. C'è una forza necessaria alla vita, al di là di scelte e definizioni. Qui vengono detti solo frammenti di questa scienza d'amore. Ricordi di vite precedenti, in tutti i sensi. Luoghi apparentemente vili: diurni, cessi, cinema porno, autobus. Preziosi, però, proprio nella fragilità del loro fuoco. E le candele che tremano nel coprifuoco sono insieme riscatto e contraddizione.

In questo nuovo disco, ci sono anche due canzoni d'amore o meglio, che riguardano l'amore in senso lato, forse più l'assenza che la sua essenza, mi riferisco a Nostra Signora della Neve e Rosso Rubino. La prima, come si evince dal titolo stesso è una sorta di invocazione alla Madonna della neve, titolo risalente ai primi secoli della Chiesa cattolica e legato alla nascita della basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, è ambientata in una generica campagna, sembrerebbe in una casa sperduta tra incantesimi e spiriti "Se sono spiriti o è il legno / di notte tu non puoi capirlo". La seconda sembra anch'essa abitata da spettri e fantasmi, ma legati ad una bevuta colossale, ne emerge un protagonista desideroso d'amore ma tremendamente solo "Un re senza amici che si guarda nello specchio, / ma dalla cornice sta a beffarlo il suo giullare" e che il bere di una notte, quasi non ci fosse un domani, lo porta a sognare una donna, ma ormai c'è l'alba che s'avvicina "Brucia guglie e rovi inciampando ad ogni tetto. / Ora dorme il sovrano ed il suo giullare lo riscalda". Se la prima è lieve come il posarsi della neve su un paesaggio sperduto, la seconda è musicalmente densa e mirabolante, mi sembra a tratti di sentire echi e sonorità di Luna persa. Pur sobrio, ho forse sognato anch'io?

Nostra Signora della Neve è il nome di diversi santuari in Italia. Qui può essere il nome dato ad una donna amata. Questa canzone è una specie di litania profana. È una canzone d'amore, certo, amore rivolto a una donna e al suo paesaggio. Invece Rosso Rubino è un brano egocentrico, dove però un vero "io" (e quindi un vero centro) non esiste. Esiste, per il carnevalesco Re che si auto recita, la funzione dell'ubriacarsi e del rimpianto. La prima è estesa fino al mondo circostante, nella prosopopea "passo da ubriaco sta barcollando l'alba". La prosopopea è una figura retorica che consiste nel personificare un elemento naturale. L'alba, appunto, ma anche il crepuscolo, anzi, il suo trascolorare: "l'indaco bigotto fuori sgrana i suoi rosari". Questa figura retorica ci riporta a un pensiero animista, un mondo mentale primitivo o infantile, abitato o propinquo a demoni e fantasmi. Un comune bicchiere diventa "il bicchiere dello spettro" (forse usato in precedenza come tavoletta ouija per qualche evocazione spiritica, ed adesso destinato senza complimenti a più reali libagioni?). Non la casa del Re in questione (o forse, per tornare alla poesia di Nerval, del "principe d'Aquitania della Torre abolita") è diabolicamente invasa, ma il teatro esterno. Sipario ne sono una finestra e, ancora, la neve. Lì fuori impera una sarabanda di lussuria che precipita in un'oscenità di annunci pubblicitari, fatti di cronaca e comunicati commerciali. Dentro le anime, oscuramente, la nostalgia di un inferno caldo come un rifugio alpino, a sua volta carnevalesco, alla Rabelais, se vuoi, dove "c'è la gara di rutti ed i diavoli versan da bere". Ma tutto questo pandemonio si disperde con la neve, lasciando l'ipotetico Re a pagare con la solitudine lo scotto di un amore tanto perduto quanto esibito. Il bicchiere dello spettro, che specchiava il sorriso dell'amata assente, è rotto per terra. L'assente non è morta, ma ha preferito una vita tanto normale quanto assurda appare al giudizio di chi la ricorda e la evoca. I canali di una cittadina del nord diventano incomprensibili alfabeti braille, la donna è tanto cieca da sposarsi e avere dei figli, e non potrà rispondere alle disperate e persino prosaiche proposte inventate dall'amante ("pescheremmo trote per farle con il timo e l'alloro"). Le due canzoni, Nostra Signora della Neve e Rosso Rubino, hanno in comune alcuni elementi, l'animismo medianico e il clima invernale. Ma nella prima il desiderio si stempera nella contemplazione, mentre nella seconda si teatralizza nella vanità fanfarona del monologo.



Si è parlato di amore, non possiamo non parlare di un'altra canzone che ruota intorno agli amori o meglio a chi quasi fosse un passatempo preferisce farli fallire, cioè di Guastamori. Vorrei fossi tu a chiarire meglio chi è in realtà il protagonista di questa canzone che sembra svilupparsi per flash discontinui. Personalmente sono rimasto affascinato soprattutto dalla poetica riflessione finale "O forse siamo noi che siamo / fotogrammi alla moviola: / la gente non ricorda gli intervalli / ed è per questo che si sente sola".

Sembra una boutade, ma la mia opinione è che il protagonista di questa canzone, o meglio, chi viene raffigurato nei suoi graffiti, sia le nostre concezioni del tempo. Se la leggi così, non è discontinua. Non voglio farla lunga a te e ai lettori. Il testo originario nasce moltissimi anni fa. Ma subisce un'operazione, se ne toglie un finale e se ne mette un altro. Proprio perché la frenetica attività erotica o sentimentale del personaggio altro non è che tentare di precedere il tempo, inseguirlo, cavalcarlo. Mi è capitato di leggere una frase del filosofo moderno Walter Benjamin, secondo la quale il distruttore non ha bisogno dell'attività distruttiva, ma semplicemente di passare attraverso le rovine. È lo sguardo che scorge rovine in tutte le cose. Uno sguardo che travalica il tempo. Anche la visione dell'innamorato sospende e trascende il tempo. Ma il dongiovanni lo abita freneticamente, lo fa suo. Solo che la chiave del suo agire è prendere, abbandonare ed essere abbandonato, prendere di nuovo. Assomiglia tantissimo al gioco infantile del nascondersi e riapparire, del lasciare un oggetto caro per riprenderlo. E infine al gioco di prestigio: fare sparire qualcosa per farla ricomparire. Ma è un gioco cruento, come dimostra Michel Caine in un film sugli illusionisti. Il canarino che riappare non è lo stesso. Ma la nostra pretesa di identità non è altro che una dinamica filmica. È il vuoto tra i fotogrammi che permette l'illusione del moto. È questo vuoto che feconda l'individuazione. Per dirla grossolanamente, le conquiste del Guastamori sono come carte da gioco, l'importante è quel gesto nascosto, quel vuoto, quella distrazione che permette l'azione del prestigiatore, e la sua truffa. Il vuoto impercettibile fra i fotogrammi. Il delitto del Guastamori è quello di attraversare un mondo di potenziali rovine considerando le persone come i vuoti da cui passa, e non come altre individuazioni.

Restano da affrontare due canzoni e ne rispetterei la sequenza originale, via libera quindi a Canzone del Finale. L'ho adorata sin dal primo ascolto, in tempo di lockdown, eseguita da te solo voce e chitarra. Qui si arricchisce di strumentazioni ed uno splendido arrangiamento, ma resta intatta la prima sensazione visiva di essermi tuffato per un attimo dentro una sorta di Shining, questo sogno-realtà mi ha ricordato l'episodio in cui Jack si sposta nella sala da ballo dell'hotel, dove ha un surreale incontro con un barista degli anni Venti di nome Lloyd. Magnifica poi la visione iniziale "E nella festa dell'apparenza, / con le sue luci straniere e invitanti / io non capivo la differenza / tra gli invitati e i mendicanti". Com'è nato questo piccolo gioiello?

È nato proprio dalla frase che tu hai riportato, che ha fatto da lievito madre a tutta la canzone, unendosi però a un altro ingrediente: le parole dell'apertura, "Entrai dunque nella villa senza essere invitato, dopo aver legato a un palo l'ombra che mi aveva accompagnato". Questi versi aprivano una mia canzone di adolescente, chiamata proprio La villa dei fantasmi.  Era scritta sulle suggestioni delle letture di Edgar Allan Poe, mio autore amato fin dall'infanzia. E forse, dati i tempi, voleva dare fiato ad una allegoria politica. In questa canzone sì può vedere un fenomeno di abduction, sospensione del tempo, rapimento. La leggenda della casa incantata di notte che poi si rivela diroccata e disabitata di giorno, è frequente nei racconti di fate e di fantasmi. Anche in questa canzone su parla del tempo e della sua abolizione. Non mi sono riferito a Shining, film che credo di aver visto almeno una dozzina di volte. Ma anche la villa di cui canto "pareva invasa". Qui si presenta una cornice di ulivi, gli stessi che compariranno in Il Grido della Fata.



Ecco mi hai dato il gancio per parlare, finalmente, della canzone che dà il titolo all'intero album Il Grido della Fata, che nella track-list credo tu abbia lasciato in fondo al disco perché ha un finale che è un coup de théâtre geniale, ma non anticipo nulla. Cito solo l'incipit altrettanto straordinario "Bruca l'erba dei tetti il sole al tramonto / Brucia dentro camini di pietre uguali" ed alcuni tuoi topos che sembrano qui ricomparire tutti come d'incanto: le cattedrali, i gatti, il vino, il cadere... il resto lo lascio dire a te. È comunque il degno finale di un album grondante densa e struggente poesia.

Sì, le immagini dominanti ritornano. Solo che qui finalmente l'identificazione implode. Se è questo il coup de théâtre di cui parli, non lo sveleremo qui! Anche in questo caso strofe nuove sì sono innestate a quelle di una vecchia canzone, e lo stesso è successo alla musica. Rispondevo alla lettera di un caro amico, che ne ha colto molti punti, specialmente la poetica vivissima dei suoni elettronici. Una canzone, dicevo, è un organismo vivente. Ma anche un'intenzione. E la sua intenzione, una volta che è c'è stata "composta" (ma non in una bara come un cadavere) è di essere ascoltata ed ascoltarsi ancora. La canzone è la fata. Se agli uomini è difficile decifrare il silenzio delle Sirene, alle Sirene non va giù la refrattarietà degli uomini al loro canto. L'amore delle fate è formidabile.

Credo che, chi ci ha seguito fin qui, in questo viaggio tra le tracce del tuo nuovo lavoro, vorrà ora sapere come e dove trovarlo? So che, attualmente, oltre che sulle piattaforme digitali, è stato pubblicato sotto forma di CD ma è in previsione anche la pubblicazione in altri formati, è così?

Adesso si trova o si può ordinare in formato CD, per chi ancora ama l'oggetto fisico. Lo si può richiedere ai negozianti di dischi, quelli irriducibili che non hanno chiuso bottega, o alle Feltrinelli, specificando la produzione, Maremmano Records, e la distribuzione, IRD. I negozi di dischi non devono chiudere. Sono come i bar, e può succedere in effetti che offrano da bere. Il vinile è in preparazione. Ma c'è un'altra sorpresa: prestissimo sarà disponibile lo "scrigno" no plastica, un rivoluzionario formato inventato da Vibrisse Studio che permette un ascolto ad alta fedeltà, ma anche animazione di immagini, ipertesti, possibilità interattiva, nuove pubblicazioni, addirittura nuove orchestrazioni, richieste. Sarà come avere un filo diretto con Max e i suoi collaboratori. Molti l'hanno già scelto e prenotato. Sarà anche in vendita ai concerti.


Sito ufficiale di Max Manfredi