di Fabio Antonelli
È il 2 novembre del 1975, Pier Paolo
Pasolini viene trovato morto all’idroscalo di Ostia da un passante, è stato
massacrato di botte e risulta essere stato più volte investito dalla sua stessa
auto, un’Alfa Romeo GT 2000. Da subito, a essere accusato è Pino Pelosi, un
ragazzo di vita di 17 anni, che confessa di aver ucciso Pasolini perché
quest’ultimo voleva avere con lui un rapporto sessuale non consensuale. Quel
momento segnerà la fine terrena di un grandissimo poeta, ma anche l’inizio di
un modo errato di approcciarsi alla sua figura, seguiranno biografie,
documentari, film, spesso concentrati sulla sua omosessualità, sul suo
preferire accompagnarsi a giovani ragazzi di vita, anziché sulla sua vasta
produzione letteraria, cinematografica e persino pittorica.
Cosa c’entra Pasolini con Serge
Gainsbourg? Apparentemente nulla, ma scrivere su un personaggio come Gainsbourg
avrebbe potuto portare allo stesso errore e credo ne sia ben conscio Marco
Ongaro se, in un capitolo di Un poeta può nasconderne un altro - Il senso
della parola di Serge Gainsbourg, scrive “Pare che la formazione sessuale
di Gainsbourg significhi molto per i suoi biografi, divisi tra femmine attratte
dal mito della Bestia che conquista la Bella e maschi invidiosi del Brutto che
attira le splendide che loro non hanno saputo attirare” e più avanti “Ma è la
sua grandiosa capacità di assimilare e trasformare, teorizzare e analizzare le
pratiche conseguenti in fatto di sesso e amore, temi fondamentali di qualunque
espressione artistica, a essere l’elemento principale del mito Gainsbourg”.
Boom! Centro! Ecco, quindi, su
cosa non puntare la lente d’ingrandimento, deve aver pensato Marco Ongaro nello
scrivere del mito Gainsbourg, comprendendo bene che non sta tanto nella capacità
amatoria la sua grandezza quanto, semmai, nel saper trasformare in oro, come un
novello Re Mida, “il sudore e le frizioni basilari che coinvolgono due esseri
esteticamente ben assortiti nel corso degli esercizi d’amore”, citando ancora
una volta l’autore del libro.
Com’è dunque il Gainsbourg di
Ongaro? Se ne intuisce grandiosità e originalità sin dall’introduzione, dove
emerge un poeta che non parte dalle idee ma dalle parole, è il cantante
francese a dire “Le parole veicolanti le idee, e non le idee veicolanti le
parole. Primordiale. Niente parole, niente idee”. Scrive però Ongaro in
proposito “Il calembour è sempre in agguato”, come quando Gainsbourg afferma “Fino
alla decomposizione, io comporrò”. Ma non solo l’amore per il calembour:
dall’immensa produzione di Gainsbourg emerge un utilizzo delle parole spesso
spiazzante, così spiazzante da essere a volte incompreso oppure compreso solo
in parte, soprattutto per chi non è di lingua madre francese. Nelle proprie
canzoni usa spesso il franglese, un ambiguo miscuglio delle lingue francese e
inglese in cui i significati si sommano ad arte, come ad esempio in Lemon
incest, in cui una tredicenne Charlotte Gainsbourg canta “incest de
citron” e il coro le replica “lemon incest (lemon zest)”, una sorta di
traduzione simultanea che disvela il senso francese in essa celato. Geniale,
come quando fingendo di voler omaggiare la celebre Le foglie morte di
Jaques Prevért, scrive la sua La chanson de Prevért, che in francese
suona effettivamente come “la canzone del prato verde”, con nuovi versi ispirati
perfino forse a quelli potenti del Giuseppe Ungaretti di Non gridate più,
con cui in realtà sembra voler dire “Finitela con queste Foglie morte, o
moriremo tutti di nostalgia”, quasi a voler interrompere la serie di rimandi
per cui un qualcosa nasconde sempre un richiamo a qualcosa d’altro. Persino
quando pare a corto d’idee, per cui attinge da versi altrui (c’è in tal senso
una complicità incredibile con Boris Vian), riesce sempre a trarne nuova linfa
o a scompaginare le carte.
Ma il mito Serge Gainsbourg, dall’inizio
del timido Lucien alla fine del borderline Gainsbarre, in questa biografia di
Ongaro è totalmente assente? Assolutamente no, è sempre lì sullo sfondo ma sono
le canzoni, o meglio il senso per la parola di Gainsbourg, ad attrarre
visceralmente Ongaro, che quasi come un biologo mette sotto la lente di
ingrandimento le gemme più nascoste e le analizza.
Ne esce una guida preziosissima anche
ai neofiti in fatto di Gainsbourg, come il sottoscritto, un vademecum capace di
far comprendere come mai questo mito assoluto sia sopravvissuto al passare del
tempo, illuminando come un faro anche coloro che sono venuti dopo di lui,
diventando a sua volta fonte di ispirazione non solo per i cantautori francesi,
ma anche per quelli d’oltralpe, perché in fondo un poeta ne nasconde sempre un
altro.
Detto questo, credo che nessun
altro in Italia, se non proprio Marco Ongaro, avrebbe potuto scrivere così bene
e così approfonditamente di un artista sconosciuto a molti miei coetanei (pronti
a riconoscerlo però ascoltando il capolavoro Je t'aime moi non plus, famosissimo brano utilizzato proditoriamente
per animare a tappeto i servizi telefonici erotici degli anni ’80) perché Marco
Ongaro, come Gainsbourg, ha sempre saputo spaziare da una forma d’arte a
un’altra - è autore di canzoni, scrittore di libretti d’opera, saggista,
biografo - facendo della tecnica di scrittura la sua arma migliore per cogliere
la poetica altrui e appropriarsene. Mi viene in mente, per esempio, la sua
canzone The lies que vou disiez, contenuta nell’album Certi sogni non
si avverano: in fondo non troviamo qui lo stesso franglese di cui spesso
fece sfoggio Gainsbourg?
Un
poeta può nasconderne un altro.
Autore: Marco Ongaro Casa Editrice: Caissa Italia Genere: Musica Tipo libro: Saggio Prezzo: € 19,50 |
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