di Fabio Antonelli
Ispirato all’omonimo
successo editoriale del 2018, è appena uscito, su etichetta Freecom, il nuovo
album di Giangilberto Monti, intitolato MALEDETTI FRANCESI, in cui lo chansonnier milanese è accompagnato dalla voce e dal pianoforte di
Ottavia Marini. Si tratta di ben diciassette canzoni che riassumono il suo grande
amore per la canzone impegnata d’oltralpe.
Vorrei cominciare dalla copertina che raffigura gli occhi degli artisti
francesi che hai voluto racchiudere in quest’omaggio alla canzone impegnata
d’oltralpe, hai scelto gli occhi perché specchio dell’anima?
In realtà la copertina è la
stessa del mio libro omonino, pubblicato da Miraggi nel 2018, ma certo gli
occhi sono un po’ il biglietto da visita di ognuno e in questa raccolta c’è davvero
un secolo di storia della canzone francese, dal 1880 al 1980, anche se io in
realtà mi sono concentrato soprattutto sul periodo che va dal dopoguerra in
poi.
Il titolo Maledetti Francesi
può essere letto facendo riferimento a quei poeti francesi da sempre considerati maledetti, ma
anche un “maledetti francesi che amo così da non riuscire a farne a meno”,
giacché da sempre la tua musica ha girato intorno a questi artisti.
Beh, maledetti francesi perché da
sempre Rimbaud, Baudelaire e Verlaine sono considerati i poeti maledetti,
quelli da cui trassero poi ispirazione i vari artisti che sono presenti nel
disco, uomini ma anche donne, perché spesso si pensa alla canzone francese al
maschile ma vi sono state molte voci
femminili da Juliette Gréco ad Édith Piaf tanto per citarne un paio. Le figure
femminili sono state così importanti che in questo disco ho voluto vi fosse una
presenza femminile poi, certo, ci sta anche la tua accezione, perché il titolo
è volutamente provocatorio. E’ vero la loro è stata una presenza fondamentale
nella mia vita di chansonnier, anche se ciò non ha impedito che io scrivessi negli
anni canzoni mie.
A proposito di donne, in questo disco hai voluto con te Ottavia Marini,
hai scelto lei perché già la conoscevi?
In realtà mi è stata presentata
dall’attore Walter Tiraboschi, con cui aveva lavorato, e s’è rivelata una scelta
molto azzeccata, pur provenendo dalla classica, è una grande pianista, con la
sua voce, per altro un po’ fuori del comune, ha però dato un importantissimo
contributo nei duetti. Non faccio più da anni il produttore, in tal senso direi
che ho già dato, ma se dovessi segnalare una valida artista, farei volentieri
il suo nome, per la grande sensibilità dimostrata nell’affrontare un mondo
musicale non suo.
Dal punto di vista musicale si può definire questo disco il più
francese tra i tuoi? Per l’impianto musicale su cui si fonda?
Sì, in un certo senso sì, perché
piano, chitarra e le nostre due voci, registrate in presa diretta, con solo
qualche passaggio ripreso in studio, hanno voluto dare quell’atmosfera che si
percepiva a chi entrava in un locale parigino in quegli anni, è in tal senso
vero, autentico.
Una cosa che mi ha colpito è l’alternanza italiano-francese nel
cantato, senza discontinuità, tanto che, non so se per la bellezza poetica dei
testi originari o la bellezza delle traduzioni, quasi non si capisce più quale sia
il punto di partenza, se le canzoni siano nate in francese o in italiano.
La scelta di alternare francese e
italiano è derivata dagli spettacoli dal vivo, dove questo espediente ha
funzionato molto bene, in effetti, quello che dici è vero, perché c’è dietro un
grandissimo lavoro nelle traduzioni, negli adattamenti dal francese all’italiano,
nel cercare di rendere il senso di citazioni di doppi sensi, calembour, altrimenti
sarebbero delle semplici cover e non è certo il mio intento.
Ho visto che molte traduzioni sono opera tua o sbaglio?
Lo sono tutte in realtà, qualcuna
magari in collaborazione come Parigi
Canaille firmata anche da Alessio Lega, oppure nel caso di Les amants d’un jour vi era già una
traduzione, intitolata Albergo a ore,
opera straordinaria dello stesso Herbert Pagani o di Le méteque di Moustaki che già era stato tradotto e cantato come Lo Straniero da Bruno Lauzi o Le Gorille
di Brassens già tradotto e interpretato da De Andrè.
Il disco è nato da un lavoro di coppia, questa collaborazione tra te e
Ottavia Marini e quindi sarà portato in giro in coppia?
Sì, certamente, non avrebbe senso
fare diversamente, per altro si è già fatto perché in realtà lo spettacolo è
venuto prima del disco la cui registrazione è stata voluta da Jean-Luc Stote,
che ne ha curato le immagini da cui è nata anche Paris Canaille, una mostra dal 13 novembre a Milano nei locali
dell’Institut Français.
Nel sito di Miraggi Edizioni, l’editore scrivendo di Maledetti Francesi fa riferimento a un
mondo che “ha portato un messaggio vitale, anarcoide, canagliesco, che forse
non esiste più”, ma davvero questo mondo poetico musicale appartiene a un
passato che non c’è più o, invece, può ancora dirci molto.
No, credo che quel mondo, che
aveva connotati così diversi dai giorni nostri abbia però ancora molto da
dirci, in termini d’ideali e di umanità se mi guardo intorno, se ascolto tanti
colleghi cantautori non a caso, ritrovo tanti riferimenti a quel mondo.
C’è, tra tutte le canzoni che hai scelto di inserire in questo disco,
una cui non riusciresti a rinunciare?
Beh, una domanda difficile, direi
due allora, la prima Allo Chat Noir
che è in realtà Le Chat Noir di
Aristide Bruant, uno chansonnier che a differenza degli altri non si limitava a
eseguire canti tradizionali, ma che scriveva testi e musiche e che nel 1881
fece nascere, in un colpo solo, cabaret e canzone d’autore, la seconda Parigi Canaille per quell’atmosfera così
scanzonata e perché ci presenta un Leo Ferré inusitatamente ironico o, forse
per meglio dire, sarcastico.