Folco Orselli |
La copertina del tuo nuovo disco mostra una porta dischiusa e, sotto
questa porta, il titolo "Outside is my side". Perché hai scelto
questo disegno e questo titolo in inglese?
E’ una porta che si apre verso
l’esterno ed è un invito all’”outsiding”, all’uscire dalle convenzioni, al
proclamare la propria indipendenza intellettuale intesa come rifiuto al
pecorame del pensiero unico ribassato; un invito al piacere che si prova nel
sentirsi investiti della responsabilità di fare ognuno qualcosa per migliorare
noi stessi e l’aia in cui viviamo; il rifiuto del modello imperante
riaffermando la propria indipendenza, sapendo che dagli “insider” non possiamo
aspettarci quasi nulla. Chi sono gli insider? Tutti quelli che hanno costruito
e imposto lo sbilanciato ossimoro in cui viviamo, sbilanciato sul fattore
negativo. Il titolo “Outside is my side” è anche un omaggio a Woody Guthrie e
alla sua "This land is your land”, land intesa come terra fisica e mentale
per me.
Il disco si apre con "Legato a un palo della luce", una
canzone che musicalmente si stacca molto dalle sonorità del tuo precedente
disco, quasi volessi spiazzare l’ascoltatore ... in realtà la canzone si muove quasi su due
piani, diversi e contrastanti fra loro un po' come il rapporto che ti unisce e
ti divide dalla tua Milano, o sbaglio?
Il titolo esatto è "Legato a
un palo della luce / Gattorotto ouverture" e, come suggerisce, è una
commistione tra due cose. E’ un cortometraggio in musica. Avevo questi due pezzi
nel cassetto da un po’ e, come succede nei cassetti, si sono mischiati,
imbastarditi dal tempo e dalle altre cose abbandonate con loro in un luogo
chiuso e piccolo. L’ho aperto e li ho raccolti smunti ma ancora vivi. Li ho
portati a casa di Enzo Messina, il co-produttore artistico insieme a me del
lavoro, il mio pard musicale. Li abbiamo massaggiati per bene per ridargli
tonicità e forma. Certo, non mi aspettavo che qualche giorno dopo mi proponesse
quest’arrangiamento in 7 della prima parte, ne avevo un’idea diversa. Mi ha
spiazzato. Per circa … 40 secondi! Poi ho capito che aveva colto nel segno e
aveva ridato “pellicola” al pezzo. Da li abbiamo proceduto alla “visione"
della parte centrale che in realtà avrebbe dovuto avere lo stesso passo
dell’inizio. Con la sua chitarra acustica nel suo studio, in cui abbiamo
lavorato alla pre-produzione di tutto l’album, mi è venuto in mente di cambiare
totalmente atmosfera e accordi e di portare il pezzo a un’atmosfera più
“Floydiana”. Enzo ha raccolto immediatamente e con la sua faccia illuminata si
è buttato a capofitto nell’arrangiamento del mood, è venuta fuori “Sbarra”, la
sbarra che c’è tra i due titoli. “Gatto rotto” era già previsto che fosse il
secondo pezzo unito al primo, non ci aspettavamo diventasse il terzo del primo,
infatti, la canzone ha tre atmosfere completamente diverse. E’ una marcia
semi-trionfale che porta al riscatto dopo l’analisi amara. La strada è nera ma
i gatti sanno come vederci, ne usciranno vivi dormendo sereni in mattinata.
Menzione speciale per Matteo Agosti, il sound engineer (o ingegnere del suono
che è più nostro) che ha lottato come un leone su questo flusso prog, dandogli
un’unità sonora davvero eccellente. Milano è madre, ma non mi da pace e non mi
lava.
Il disco prosegue con "Una vecchia storia d'amore (di noi)".
Si ritorna a sonorità più familiari e il brano sembra essere quasi il sequel di
"L'amore ci sorprende" ma qui il verbo è al passato, "L'amore ci
ha sorpresi in pieno con le sue illusioni", è quello stesso amore ma ormai
finito? Splendido poi l'Hammond che la introduce e la conduce per mano ...
L’amore ci sorprende (cd “La
spina”) è una canzone di attesa, la condizione in cui ci si trova tra una
storia e un’altra, quando dopo esserti leccato le ferite ti senti pronto a infliggertene
delle altre pur di vivere la fase dell’incanto."Una vecchia storia d’amore"
può essere quello che era successo prima o quello che potrebbe succedere dopo.
Dove va chi se ne va? E cosa lascia? Il pezzo non lo dice. Il prezzo è l’onestà
di capire che mollare a volte è meglio che trattenere. Le cose rotte hanno un
fascino solo se non si hanno semi in tasca da piantare nel futuro. E’ un blues.
Abbiamo pensato a "Mad dog & Englishmen", è un omaggio al sound
del primo Joe Cocker, al quale va tutta la mia riconoscenza e quella di Enzo
che, su questi mood, ci sguazza d’Hammond e di piano come se fossero
prolungamenti del sistema nervoso.
Folco Orselli |
Si può dire che in questo disco prevalga l'ambientazione notturna?
Quella in cui esce anche il lato più oscuro e incontrollabile del comportamento
umano? Sto pensando a due canzoni come "Il lupo" e
"Hooligan", mi parli di loro, della loro genesi?
Non so, sicuramente è il disco
più dark che abbia fatto. Ci sono gli aspetti più intimi della mia vita e
scavando ho scoperto di avere un’anima controversa e a tratti scura, nonostante
mi senta una persona solare e positiva. Per quanto riguarda “Il lupo” ho
scritto questo blues dopo aver letto dell’uccisione di alcune pecore fatta dai
lupi in Garfagnana l’anno scorso. Si è alzato un coro di allevatori che
chiedevano a gran voce di uccidere tutto il branco famelico e mi sono detto che,
se un lupo non può più attaccare qualche pecora per fame, pena lo sterminio,
forse dovremmo chiederci cosa stiamo distruggendo noi per “sete” di potere e
quale punizione meriteremmo. Ho dato parola al lupo che racconta il suo punto
di vista scimmiottando i peggiori lati umani, un lupo che vuole essere come un
uomo e somma le negatività delle due nature, antropomorfico come pezzo. “Hooligan”
è Il pezzo più violento del disco. Una di quelle notti che sembrano tre insieme
(e ce ne sono state) in cui non saprai mai cosa è successo, nessuno avrà il
coraggio di dirtelo e ti svegli con un maiale nella testa … parlante. Pare che
una parrucchiera abbia finito tutti i tuoi soldi, la Bestia si sia rivelata,
qualcuno voleva uccidere il tuo nome e tutto è un fischio insopportabile nelle
orecchie. L’unica cosa che ti ricordi è un sudamericano sudato che ti
raccoglieva e ti metteva su un taxi guidato da un tizio che somigliava a
Predator.
Se "Holigan" è la canzone più dura di questo album, credo che
"Piove" sia la più intimista e struggente, sostenuta splendidamente dal
flicorno di Daniele Moretto. Sembra nascere da un vecchio disco che gira su un
grammofono e poi, piano piano, si dispieghi lenta e sinuosa, com'è nata?
“Piove” è il pezzo forse più
fragile del disco, una canzone cui sono particolarmente affezionato perché mi
riporta a una crisi molto profonda vissuta qualche anno fa, in cui la
solitudine mi stava per schiacciare e che ora, finalmente, riesco a pubblicare.
Ho utilizzato degli schemi mentali per parlarne, immagini e suoni. La pioggia
che apre era necessaria perché mi rimanda a ore buie e solitarie per strada,
con lo sguardo perso in un vuoto che non mi dava sollievo, con un ombrello, gli
ombrelli sono uno dei modi migliori per avvicinare il suono della pioggia. Poi
c'è un uomo che scappa da se stesso ma, arrivato da qualche parte lontano da
casa, ha bisogno di telefonare da una cabina per parlare con nessuno, in quella
casa che ha lasciato, a una segreteria telefonica a cassetta, sapendo che la
sua voce risuonerà in una stanza in cui è stato felice. Bellissimo il piano di
Enzo, le spazzole di Diego Corradin, il contrabbasso di Piero Orsini e, naturalmente,
la “voce” di Daniele Moretto, che fa da contraltare alla mia. Apre con un
quartetto da camera … vuota.
Forse la solitudine e la disperazione di “Piove” sono le stesse del
protagonista di "Quello che canta onliù", lo splendido omaggio che
hai voluto fare a un milanese doc come Enzo Jannacci. Come la sua musica è
entrata a far parte della tua vita? Credi che in qualche maniera abbia potuto
influenzare il tuo modo di scrivere canzoni?
Quando ero ragazzino, mio padre
mi portava la domenica a fare delle gite fuori Milano. Quelle domeniche che
partono presto, passano pigre e sonnolenti, statiche; tra campagna stinta e
osterie, pesca sportiva e zucchero filato. In macchina una musicassetta. Rossa.
Fissa: “Ci vuole orecchio” di Enzo Jannacci. Il ritorno era il momento in cui
l’assaporavo di più. Cotto e semi addormentato sul sedile dietro, vivevo come
un film tutte quelle parole, meravigliose, vere e surreali nello stesso tempo.
Non capivo, ero giovane … ma capivo. “Quello che canta onliù” era tutta la
malinconia che percepivo esistesse, ma non potevo ancora tastare realmente. La
solitudine di un commesso viaggiatore? Il tarlo roditore del senso di colpa?
L’amore che crolla e tu che ti affanni a tamponare le falle con la sabbia? Amo
non averla ancora capita. Jannacci è uno stregone. Mi ha insegnato l’arte della
“visione” in senso psichedelico. I suoi testi sono cangianti, dipenda da come
li guardi, come li ascolti, chi sei, chi sei stato. Purtroppo l’ho incontrato
una volta sola al teatro Dal Verme per una beneficenza, stavo provando il pezzo
che avrei cantato in serata “La ballata del Paolone”, che potrebbe essere una
deriva di “El purtava i scarp del tennis”, se non fosse una storia vera; lui
era seduto in quarta o quinta fila con un suo collaboratore, il teatro vuoto. Finita
la mia prova, vedo che si alza, fa per andarsene, torna indietro e dice al suo
collaboratore: ” Ma chi è quello li?”, indicando me e, senza aspettare risposta,
se ne va. Fantastico.
Una canzone quasi magica, con quella sua delicatissima intro del pianoforte
è "Artisti di strada", dove "ogni ragazza anche se non sarà
bella avrà un fiore fatto apposta per lei". Quanto ti senti artista di
strada con le tue canzoni?
Gli artisti di strada, insieme ai
pittori, sono i miei eroi. Sin da piccolo sono attratto da qualunque forma d’arte
per la strada: madonnari, mimi, giocolieri, cantastorie, musicisti. Mi hanno
sempre dato un senso di protezione, come la se la strada ti garantisse la
carezza materna perduta. Forse è un punto d’arrivo a differenza di quello che
si pensa. C’è un carillon che aleggia su tutto il pezzo, è la “pura parte da
non fare mai da parte”, come cantavo in una canzone di un po’ di tempo fa
(“Paladino” – cd “La Spina”). L'arrangiamento di Enzo, qui, diventa davvero la
cifra del racconto, volevo una cosa alla Prokof'ev tipo “Pierino e il lupo”,
con tutti gli strumenti a descrivere la storia da protagonisti narranti e così
è stato, grazie alla sua magnifica sensibilità.
Se sei d'accordo, vorrei abbandonare il disco, lasciando ai lettori il
gusto di scoprire il resto, Chiuderei affrontando la dimensione live, quella
che credo tu ami maggiormente. So che ti stai attualmente dividendo tra teatro
e concerti, racconti cosa stai realizzando e cosa hai in mente per il futuro?
Ci sarà anche un seguito di "Scuola milanese”?
Si, come sempre sono in tour
continuo, mi divido tra quello che c’è da fare, suonando ovunque: teatri, club,
case. Dove c’è un pubblico e dove mi pagano, io vado. Questi sono tempi in cui
bisogna risaltare sui treni con la chitarra e andare in giro a raccontare
storie. L’aspetto più interessante di questo crollo del mercato discografico è
che ci ha costretto a rimetterci tutti (chi lo sa fare) sulla strada. Ho appena
finito il tour teatrale con Gino e Michele per i loro quarant’anni di spettacolo
per i quali ho composto le musiche e sono alla ricerca di date per me. Ho
lanciato da qualche tempo il Facebooking tour (cioè se mi vuoi nel tuo locale,
scrivimi e ci mettiamo d’accordo), che sta funzionando molto bene. Le agenzie
non si rendono conto che devono fare un passo indietro e lavorare anche con
artisti come me, che non fanno (per ora) il grande pubblico, ma che ovunque
vanno buttano le basi per un ritorno. Così facendo mi sto creando un ottimo
giro in tutta Italia. Per il futuro ho un po’ d’idee, starò a New Orleans per
tre mesi a scrivere il mio prossimo disco tra febbraio e aprile del prossimo
anno, voglio andare alla radice del sincretico blues di quelle parti,
incontrare e suonare con musicisti del luogo e registrare lì, per catturare
quel suono. Il disco credo che s’intitolerà “BLUES IN MI”, dove MI sta per la
tonalità del blues più utilizzata, la sigla della targa di Milano, il suono del
pronome ME in inglese, ma anche in dialetto milanese. La Scuola Milanese si sta
rianimando, a breve metteremo a disposizione, tramite un canale Youtube, le 60
ore di girato che abbiamo realizzato durante le due stagioni alla Salumeria
della Musica, montate per bene; poi da ottobre molto probabilmente ripartiremo
con un progetto radiofonico.
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