Il 12 gennaio 2024 è stato
pubblicato “Guardate com’è rossa la sua bocca” (AMS Records, 2024), il nuovo
album pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo, uno splendido
omaggio ai cinquanta anni di carriera di Angelo Branduardi. L'album è stato inoltre
accompagnato dall'uscita in contemporanea del videoclip del singolo “Fou de
love”.
Se fossi d’accordo, prima di
buttarci a capofitto dentro quest’ultimo progetto, vorrei partissimo dal tuo
incontro con il pianista e compositore Alessandro Russo che risale a parecchi
anni fa, dato che era già presente nel tuo secondo album Il minuto secondo
del 2012, in veste di pianista ed arrangiatore. Direi che il vostro è un solido
sodalizio artistico più che solido …
Sì, noi ci siamo incontrati in
quell'anno lì o forse qualche anno prima. Alessandro mi era stato proposto da
un amico cantautore romano che mi aveva detto “Guarda che c'è un pianista molto
in gamba, che ha fatto una tesi su Battiato e che potrebbe fare il tuo caso” e
quindi ci siamo conosciuti, ci siamo subito trovati in sintonia, abbiamo gli
stessi gusti, un po’ la stessa estetica musicale, lo stesso modo di pensarla.
Inizialmente abbiamo suonato parecchio dal vivo e poi c'è stata la
collaborazione per il mio secondo album Il minuto secondo. In seguito,
abbiamo suonato ancora tanto dal vivo e, sempre insieme, abbiamo aperto alcuni
concerti di Franco Battiato dell’Apriti Sesamo Tour. Abbiamo davvero
suonato tanto assieme in quei primi anni e già da lì cominciavamo a suonare i
pezzi di Branduardi, ma per noi, per conto nostro. Finché siamo arrivati al
punto di dire “Beh, queste canzoni in qualche modo funzionano abbastanza. Se ci
mettessimo un po’ di impegno e facessimo uno studio un po’ più approfondito,
forse potrebbero essere buone per essere messe su disco”. Ecco, questa è in
sintesi la storia tra me e Alessandro, siamo molto in sintonia e siamo
diventati anche molto amici.
A questo punto possiamo dire
che tutto è partito da Battiato…
È partito tutto da Battiato? Sì,
il deus ex machina è Battiato.
La tua attività, invece, è
partita in veste di cantautore con l’esordio discografico, all’età di 33 anni,
rappresentato da L’esempio delle mele, per poi volgere pian piano nel
tempo lo sguardo anche all’interpretazione, con la riedizione nel 2018 di La
voce del padrone, capolavoro del 1981 di Franco Battiato, con il quale hai
vinto la Targa Tenco per la categoria “Interprete di canzoni”.
In realtà fui già interprete
anche nel mio secondo album Il minuto secondo, perché quel disco era in
realtà diviso in due parti e, nella seconda parte, interpretavo lied e canzoni
non mie, però era una cosa un po’ diversa… Poi, invece, quando ho vinto la
Targa Tenco come miglior interprete, lì ho capito che forse avrei potuto sfruttare
la voce anche al di fuori del mio contesto cantautorale ed effettivamente,
proprio come in questi giorni, peraltro, sto cantando le canzoni di un album di
un cantautore che vive in Australia, un disco progressive. Ho prestato la voce
anche nel disco di Fabio Zuffanti, come interprete puro.
Tornando a La voce del
padrone, cosa hai provato nel mettere mano ad un disco epocale come quello
e nel vincere poi questo prestigioso riconoscimento, cosa ha rappresentato per
te la Targa Tenco 2018 di Migliore Interprete?
Hai detto bene, un disco epocale
come quello! Beh, all’inizio devo dire che l'ho fatto un po’ per gioco, nel
senso che mi sono messo a lavorare con gli arrangiamenti più che altro perché
mi ero stancato di stare lì a fare le mie cose, volevo confrontarmi con
un'opera colossale, proprio come quella di Battiato. Ricordo benissimo che poi
ci fu in quel periodo una cena qui a casa mia con quelli che poi hanno fatto
uscire il disco: discografici, produttori, eccetera, che in quell’occasione mi
hanno detto “L'idea è molto buona, se te la senti di farlo uscire, ti diamo una
mano”. Io ero un po’ titubante, perché pensavo di prendermi fondamentalmente
delle gran bastonate, perché a toccare un'opera così si rischia davvero grosso.
Ma siccome ci ho messo veramente un grande rispetto nel farlo, mi sono detto
“Vabbè, proviamo, vediamo che succede” ed è andata molto bene infine, fino ad
arrivare poi a vincere la Targa Tenco, una vittoria che è stata completamente
inaspettata. Tra l’altro, qualche anno prima, nel 2014, avevo scritto una
lettera aperta al Club Tenco in cui mi lamentavo un po’ del meccanismo di
votazione, e lì scoperchiai un vaso di Pandora e ci furono poi delle grosse
critiche nei miei confronti. Per cui, a valle di quel fatto, mi dissi che avrei
potuto mettere una pietra tombale sulla Targa Tenco per quanto mi riguardava, e
che non avrei mai potuto vincerla. Poi, invece, nel 2018 sono stato votato ed
ho vinto; non mi aspettavo neanche lontanamente di poterla vincere perché
pensavo di essere tagliato fuori proprio in virtù di quella lettera aperta. È
stata un'esperienza meravigliosa, è stato bello essere invitato al Tenco a
suonare e ritirare la Targa, Targa che mi ha dato molte possibilità. Il disco,
poi, è uscito quando Franco ancora era vivo, nel 2018, ma riuscì ad ascoltarlo
e gli piacque, anche se non stava già bene, quindi non sono riuscito a
parlargli. In seguito, sono stato chiamato sia dall'orchestra della Magna
Grecia - per rifare quelle canzoni con i miei arrangiamenti -, sia dalla band
originale di Franco Battiato, cioè dalla da Angelo Privitera e dal Nuovo
Quartetto Italiano con il quale ho fatto molte date (e ne farò altre…). Tutto
ciò è avvenuto perché hanno ascoltato il mio adattamento de La voce
del padrone. Per me è stata una grande conquista.
Quindi la Targa ti ha portato
fortuna.
È stato un privilegio vincerla,
sono stato molto contento, soprattutto, ripeto, perché non me l'aspettavo ed
ero completamente disilluso, non so come dire, non ero lì in attesa… poi,
quando mi è arrivata la notizia che ero nella cinquina mi sono detto “Come mai?
cosa è successo?”. Poi ho pensato di essere entrato solo tra i finalisti e che
finisse lì, invece, poi, una mattina mi chiama l'ufficio stampa e mi dice
“Guarda che hai vinto!”. Ero completamente fuori di me e incredulo, non me
l'aspettavo. Ecco è stato molto bello. Adesso vediamo con questo che succede…
Devi comunque averci preso
gusto a ricoprire il ruolo di interprete se il 12 gennaio 2024 hai pubblicato
un disco omaggio ai 50 anni di carriera musicale di Angelo Branduardi, sempre
in collaborazione con Alessandro Russo, omaggio composto da 8 brani che è stato
intitolato Guardate com’è rossa la sua bocca, un verso estratto da Sotto
il tiglio. Perché, dopo Franco Battiato hai deciso di interpretare Angelo
Branduardi?
Sì sì, mi piace molto e devo
dirti che questo progetto ce l'avevamo in cantiere da tanto tempo. È stato
soprattutto Alessandro a spingermi; io ero un po’ restio per via del fatto che
avevo già fatto uscire La voce del padrone ~ un adattamento gentile, ma
lui, invece, ha insistito. Quindi ci siamo messi a lavorare e devo dirti che ci
ho impiegato un po’ di tempo a fare uno studio approfondito, perché non è così
semplice Branduardi. I suoi brani sono, da un punto di vista degli
arrangiamenti, molto complessi e non sono facili da ridurre in solo pianoforte
e voce; è stato necessario trovare quel quid che rende i pezzi emotivamente
belli come sono quelli originali, lavorandoci tanto.
Quali sono state le difficoltà
maggiori nel tradurre le complesse orchestrazioni di Branduardi per sola voce e
pianoforte.
La difficoltà è proprio questa,
nel senso che, quando si ascolta una canzone con gli arrangiamenti così
complessi, barocchi, folk, celtici, come quelli di Branduardi, se si decide di
fare una riduzione per pianoforte e voce, si deve trovare all'interno di
armonia, melodia e ritmo quelle parti incastrate che riescano a tradurre tutto
in un’unica linea melodico-armonica, quella che tu “senti" quando ascolti
tutti gli strumenti. Non so se mi sono spiegato… Quindi bisogna mettersi lì
piano piano e operare delle scelte, strumento per strumento. Allora si cerca di
mettere insieme tutte le parti e far venir fuori un'unica linea che comprenda
tutti gli strumenti, ma non è facile perché bisogna cercare con una specie di
astrazione emotiva, ascoltare contemporaneamente in modo superficiale e
approfondito, con il cuore aperto e la mente attenta. Poi il nostro punto di
vista è quello di metterci completamente al servizio della canzone, di non
toccare niente della scrittura del brano, di non modificare niente, neanche una
nota, di non aggiungere niente di nostro, con un’impronta assolutamente
classica. E poi cercando di essere il più possibile non dico distaccati, perché
poi emotivamente ci siamo molto molto dentro, però di mettere un po’ da parte
la personalità di ciascuno per non far uscire fuori una cover in cui uno ci
mette del suo, e di comportarsi come un pianista classico che si mette a
suonare un'opera classica.
Senza quindi andare a
modificare la partitura.
Sì, senza andare a modificare la
partitura. Questa è stata la sfida, la cosa più difficile. Spesso chi non è
capace di rifare una canzone come l’originale se la modifica secondo le proprie
capacità e possibilità: certamente può uscire qualcosa di buono, ma nella
maggior parte dei casi si è molto al di sotto dell’originale. L’eccesso di
personalismi spesso è scadente. (Se si ha questa voglia di esprimersi con le
proprie idee, allora scrivi pezzi originali!) Invece, per rifarla esattamente
com'è, bisogna confrontarsi con quel gigante che l'ha scritta. E questo è lo
stesso lavoro che ho fatto per La Voce del Padrone ~ un adattamento gentile.
Non ho toccato niente. Qualcuno mi ha detto “Ah, ma sai, le canzoni di Battiato
sono molto alte di tonalità, forse ti conviene abbassarle”. E perché?
Assolutamente no, se non riesco allora non le canto! Con Battiato poi ho anche
la fortuna di avere un timbro che lo ricorda, quindi non è stato troppo
difficile…
Se è per questo, anche in
molti passaggi di questo nuovo progetto ricordi molto Branduardi.
Sì, ma perché siamo un po’ in
quell'ambito lì, in quel modo modo di cantare, però non c'è nessuna imitazione,
nessuna emulazione. C’è semplicemente il cercare di immedesimarsi in quelle
canzoni ed è un lavoro abbastanza complesso, devo dire. essere se stessi è più
facile che essere uno strumento. In questi tempi c’è un culto della penalità
che non capisco molto e che non accetto. Ci si riduce a cercare dentro di sé il
nulla, come se se le nostre risorse originali fossero infinite… Ma noi siamo
contenitori e dobbiamo riempirci prima di poter elaborare ed esprimerci. Ci
vengono spesso imposte personalità vuote e ci devono star bene solo perché sono
tali? la personalità si forma prima per addizionepoi per sottrazione. Se non ti riempi di
qualcosa potrai anche essere originale, ma sei povero e vuoto.
Ho cantato più volte le canzoni, cercando di trovare l'interpretazione più
giusta, cercando di non fare patchwork, di non cantarle in maniera spezzettata,
ma cercando sempre di fare un'unica take, di cantarle cioè dall'inizio alla
fine.
Qual è il brano per cui hai
avuto maggiori difficoltà nell’approccio?
Sono stati due. Confessioni di
un malandrino: è un brano stupendo, abbastanza conosciuto ma complesso, il
primo brano scritto interamente da Branduardi, il testo dice tante cose e ha un
ritmo abbastanza incalzante. Il secondo è stato Alla fiera dell'est,
perché è un brano famosissimo. Anche lì con Alessandro abbiamo detto “Tra i
brani famosissimi di Branduardi, scegliamone soltanto uno” e quindi c'era da
scegliere tra Cogli la prima mela, La pulce d'acqua, Alla
fiera dell'est, Si può fare… Con le canzoni più famose è più
difficile, perché è come se costituissero, in testa, una specie di regola
infrangibile.
Certamente il criterio
adottato per la scelta degli otto brani non è stata la notorietà.
Ah, esatto! non volevamo fare il
disco The Best. Volevamo semplicemente cantare le canzoni che ci piacevano di
più, quelle che ci sentivamo di più a cuore. Alla fine, abbiamo scelto solo Alla
fiera dell'est, che però è un brano ripetitivo ed è stato quindi difficile
cercare un approccio e un risultato che non fosse noioso. Abbiamo quindi
inserito i cori e abbiamo utilizzato il pianoforte un po’ come fosse non uno
strumento solo, ma tanti strumenti, quindi aggiungendo di volta in volta una
parte.
Quale tra gli otto brani
scelti, quello che più ti ha entusiasmato e perché?
Un brano che ho riscoperto, che
mi è sempre piaciuto molto e che trovo peraltro simile un po’ alla scrittura di
Battiato è Casanova, che è sul disco Si può fare. È un brano
“minore”, nel senso che è veramente poco conosciuto, però ha una melodia e un
testo molto belli. L’ho trovato dolcissimo. In questa versione pianoforte e
voce, secondo me ha avuto anche una specie di fioritura in più, rispetto
all'arrangiamento di Branduardi che si mescolava insieme a tutte le altre
canzoni.
Beh, è molto bello anche il
video di Fou de love, soprattutto perché mostra da una parte il rigore
di una vostra registrazione, dall’altra il divertimento assoluto che ne
scaturisce.
Sì, ma poi guarda, come diceva
Sgalambro, “il divertimento è una cosa seria”. Quindi da quel punto di vista ci
siamo divertiti seriamente, seriamente nel senso che, quando uno si diverte a
fare le cose che gli piacciono non è il divertimento dello sballo che uno
cerca, ma è un divertimento derivante dal fatto che mi sta piacendo molto
quello che faccio. Volevamo che nel video si trasmettesse questa cosa, anche la
tranquillità con cui abbiamo lavorato al disco io e Alessandro. È stata molto
bella anche la scelta del titolo…
Ecco, perché è stato scelto
proprio quel verso a rappresentare la raccolta e perché questa sobria copertina
che tanto mi ricorda la collana Classici di Adelphi, forse perché un’opera come
questa può considerarsi a tutti gli effetti un classico?
Il titolo. Ogni volta che
arrivavamo a quel punto della canzone ci guardavamo in faccia io ed Alessandro
e lo cantavamo un po’ assieme scherzando “Guardate come è rossa la sua bocca”!
e quindi ci sembrava sempre un punto di arrivo. Alla fine, abbiamo detto “Beh,
utilizziamo quella frase lì per titolo” perché sembrava quasi che fosse venuta
da sé, che ci stesse un po’ chiamando e poi, devo dire, suona molto bene, e
soprattutto racchiude un po’ tutto il mondo di Branduardi in qualche modo, …no?
Quest'immagine di questa donna sotto il tiglio che ha questa bocca rossa, un pò
come un fiore…
Direi molto fiabesca.
Sì sì, molto fiabesca. Ecco,
quindi ci pareva buona come titolo. La copertina, invece, hai detto bene. Io
sono un fan della Adelphi e volevo che il disco avesse questa veste classica
perché classico è l'approccio, come abbiamo detto prima, e volevo che somigliasse
un po’ anche agli spartiti della Ricordi. Non so se hai presente gli spartiti
per pianoforte super classici, ecco, che sono un po’ così. In definitiva una
via di mezzo tra gli spartiti della Ricordi con quel marroncino e i libri
dell’Adelphi che hanno una veste così, rigorosa, sempre molto elegante. Il
progetto grafico è il mio, poi un grafico ha elaborato tutto il layout. Molto
semplice, ma funzionale.
Un progetto musicale come
questo credi sia destinato ad un’attività concertistica esclusivamente
teatrale? Hai in programma un tour?
L’assetto pianoforte e voce
prevede un silenzio e un'attenzione che soltanto a teatro si può avere, a meno
che non si va in dei locali appositi. Diciamo che i locali rumorosi non fanno
il nostro caso, non siamo un band rock… Stiamo lavorando adesso, proprio in
questi giorni, con il booking, per capire un po’ come muoverci con le date.
Adesso ho due date, ma riguardano Battiato ancora, la prima a Messina il 13
marzo e l'altra a maggio ad Acireale, dove canterò la Messa Arcaica con
l’orchestra e il coro del Conservatorio di Catania…, però sì, stiamo cercando
di chiudere con il booking in modo che si parta poi con le date.
Come cantautore, invece, hai
qualcosa che bolle in pentola?
Sì, io continuo a scrivere. Prima
di questo avevo fatto già un altro disco che è Al blu mi muovo, uscito
nel 2020, in piena pandemia. Adesso l'idea sarebbe, avendo fatto prima La
voce del padrone e poi questo, quella di fare una trilogia; quindi,
realizzare un altro disco come interprete, però non abbiamo ancora idee
precise…
Hai già in mente qualcuno
quindi?
Un cantautore che mi piace
moltissimo e che vorrei interpretare è Herbert Pagani, ci sono delle sue
canzoni stupende… È tutto da tutto da vedere però, è un'idea mia, ma magari in
mezzo potrebbe essere che faccia un disco di inediti, invece. Vedremo…
Il 13 ottobre 2023, in pieno autunno,
è stato pubblicato il nuovo disco di Davide Van De Sfroos intitolato “Manoglia”
(BMG/MyNina, 2023). Un disco volutamente acustico con undici tracce inedite che
hanno preso vita negli anni e sono rimaste gelosamente custodite da Davide
probabilmente in un cassetto, o in una tasca come fossero amuleti, in attesa
fosse maturo il tempo per venire alla luce e dare vita ad una rinascita, un nuovo
cammino. Ecco cosa mi ha confidato in una lunga e piacevolissima chiacchierata.
Partirei dalla copertina dell’album
che, un po’ come avviene per il package di un profumo o l’etichetta di un vino,
rappresenta il biglietto da visita di un album discografico. In questo caso un
disegno con un albero che ha penne di uccelli al posto dei rami e, al centro
dove partono i rami o, meglio, le penne, una maschera che a poco a poco forse sparirà…
Com’è nata e perché hai scelto Manoglia come titolo dell’intero lavoro?
Può ritenersi in assoluto il tuo lavoro più intimo, in cui ti metti con grande
coraggio più a nudo?
Innanzitutto, la penso come te. Le
copertine degli album sono il primo invito all’ascolto. Nella storia dei miei dischi
comperati, che sono stati veramente tanti, ci sono stati veramente moltissimi
LP che sono finiti a casa proprio a scatola chiusa, solo per la bellezza della
copertina. Quando vidi il disco di J.J. Cale, con l’immagine del pacchetto
delle Gitanes, mi dissi “non può non essere un bel disco” e, infatti, è un
disco stupendo. Poi, purtroppo, non sempre funziona così bene. In questo disco
acustico il mio desiderio era quello di far intravedere una certa psichedelia,
una psichedelia del periodo anni 60 e 70 e, originariamente, lo volevo ultra-colorato,
se vogliamo dire anche un po’ in stile San Francisco. Però Michele Cerone, che
abita vicino a Roma e che mi è stato proposto come grafico, aveva in serbo
anche altre suggestioni, ovvero quella psichedelia più legata a Sgt.
Pepper's e ad altri mondi. Quando ha ascoltato alcune tracce del disco e
gli ho parlato di un disco che si sarebbe intitolato Manoglia, ha modificato
un'immagine che aveva trovato su un vecchio erbario e mi sembrava veramente già
un totem, con la maschera sotto, con tutto il resto della copertina libero.
L’unica cosa che gli ho detto “se mi metti le piume al posto delle foglie, abbiamo
la copertina” e così è stato. Ecco come è nata. Poi all'interno tutto si apre e
tutto diventa anche molto in stile psichedelia anni 70, però la copertina,
proprio perché è così semplice, diventa molto attrattiva e in un negozio di
dischi, comunque, la noti. Per quanto riguarda il titolo Manoglia è il
titolo di una canzone che era nata proprio sotto la grande magnolia, qui del
paese, quando era finito il momento del lockdown pesante e io mi sono ritrovato
con migliaia di foglie lì sotto, che nessuno ovviamente aveva ripulito ed erano
proprio i simboli di tutti i miei ricordi dell'infanzia, di tutte le cose che
avvenivano in quel luogo quando era un po’ il centro del paese. Da lì poi è
nato il disco che è completamente arboreo, naturalistico, in cui ci sono ali di
falco, il becco del merlo, in cui c'è tutta una ritualità tipica del
camminatore per le piccole strade di paese, di montagna, che raccoglie visioni
e le trasforma poi in canzoni. Si tratta di un disco nato da un taccuino
privato e quindi, se vogliamo, è molto intimo ed ecco perché l'ho voluto
lasciare il più acustico possibile.
Il disco si apre con La ballata del
mascheraio, forse la canzone musicalmente più vicina al Davide che
conosciamo. Una canzone che, se ascoltata con superficialità potrebbe sembrare
la classica ballata folk che anche un ragazzino capirebbe senza difficoltà, poi
però se la si ascolta bene emergono strati sottostanti, versi che fanno
riflettere come “perché una maschera se mustra / intaant che sùta la nascuund…”
o i bei versi finali “Per fa’ una maschera de bestia / pröeva a vardàss in del
prufuund / Per fa’una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa a un ómm /
Per fa’ una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa all’amuur…. Mi aiuti
a decifrarla un po’ senza scomodare troppo la psicanalisi?
No, no, vabbè. È chiaro che è una
canzone che può essere applicata alla vita di tutti i giorni, che prende in
prestito la figura ancestrale della maschera che c'è sempre stata nella nostra
cultura, fin da quando eravamo primitivi, poi però prende in prestito il
demiurgo, il mascheraio, per arrivare a fare una metafora su tutto quello che
noi di fatto siamo, queste maschere involontarie, che ci troviamo ad indossare
quotidianamente, perché è un dato di fatto che noi cambiamo anche
atteggiamento, non perché siamo falsi, ma cambiamo atteggiamento e cambiamo
modo di porci a seconda di chi incontriamo. È molto differente il nostro
atteggiamento con l'edicolante da quello con un bambino di quattro anni, quando
arriva un ospite di un certo tipo oppure arriva una persona che magari ti sta
scocciando, ecco, cambiano tutte le nostre modalità di maschera. Come hai detto tu, questa canzone forse nasce
come ballata, molto semplice, proprio perché deve arrivare a tutti, ma come
tutte le canzoni apparentemente semplici, nasconde una parabola, una metafora,
come Il pensare che per fare una maschera che ride lavorerai in un certo modo,
mentre per quella triste, cioè quella arrabbiata, non deve sembrarti per forza
quello che appare, perché sotto, probabilmente c'è una persona che ha sofferto
e che usa questa maschera aggressiva per esorcizzare la paura o per
proteggersi. Oppure perché non si fida più. Poi, alla fine, giustamente quando la
canzone dice che per realizzare una maschera da donna devi pensare a una donna
che pensa un uomo, è semplicemente perché la donna nella storia ha sempre
dovuto combattere, relazionarsi con la figura dell'uomo che molte volte la
dominava, la scoraggiava e, in qualche modo, la faceva passare in secondo
piano, per non dire delle volte che doveva addirittura subirla la presenza
maschile. Ancora oggi, purtroppo questa realtà non si è risolta. Quindi una
donna che pensa un uomo non è semplicemente una donna che pensa all'innamorato,
ma è la donna che deve continuare a rendersi conto che c'è anche una polarità
maschile con la quale lei deve fronteggiarsi quotidianamente. Nella seconda
frase, invece, la donna che pensa all’amore, l’amore che può essere l'amore per
un uomo, per una donna, per un animale, per un padre, un figlio, per qualunque
cosa. La donna che pensa all'amore è la maschera forse più bella e più ricca
per disegnare quello che è il profilo femminile. È quindi una canzone molto
simbolica.
Forsi,
bellissima canzone manouche, sembra essere la canzone di chi si trova a fare i
conti con il proprio passato, “E questa cràpa pièna de véent, questu quadernu
che gùla via / l’è una furesta senza sentée, per fa’ fiadà ancamò la puesiia /
Se sun vestii de aal de muscòn e de paròll che ho rubaa all’usteriia / ho
racataa ogni tocch de rutàmm e adèss la rüggin me fa cumpagniia ché” ma che, ad
un certo punto, accetta di essere così com’è “E FORSI…forsi passerà una naav /
E FORSI…me resteroo ché… / Senza valiisa e senza bigliètt / senza piöe
dumandàss el perché”. Quante volte ti sei sentito fuori sintonia con il mondo
circostante?
Tantissime e questa canzone parla
proprio anche della decisione di reagire, è una canzone ribelle. Tanto più che
gioca, anche a partire dalla musica, con un tempo che non è il nostro. Non dico
che è una canzone di nostalgia, ma è una canzone che si sente libera e non si
vergogna di tante cose belle che ha vissuto in un passato nel quale uno si
sentiva molto a suo agio. Abbiamo preso una musica manouche, protojazz, proprio
per essere fuori dal tempo, come in un lungometraggio alla Buster Keaton, una
roba del genere. Questa canzone è anche il rifiuto di salire sulla nave che
tutti ti obbligano a dover popolare, perché oggi c'è questa velocità, perché
oggi c'è questa tendenza e tu, invece, che sei stato abituato ad andare a prendere
queste piccole cose, le ali di mosconi, le canzoni rubate all'osteria, tu che
lascerai aperto il portone, lascerai passare tutta la processione, poi però
chiuderai le finestre per trattenere fortemente la le tue canzoni, per non
farle sfuggire e la tua poetica che è l'unica cosa che tu continui a ad
inseguire. Una canzone, quindi, che si rifiuta di appartenere ad alcuni tempi
che stiamo conoscendo, che ci stanno un po’ comprimendo e deprimendo.
Nonostante abbia quasi sessant'anni non sono mai stato uno che screditava le
cose nuove, mi sono appassionato sempre anche delle musiche, delle canzoni che
ascoltano i miei figli. Mi piace vedere quando c'è arte, quando c'è
credibilità, talento, quando c'è buona musica e ce n'è tantissima. Io non mi
nascondo dietro a un disco di Dylan o dei Pink Floyd, né sto lì a dire che una
volta era tutto bello e adesso tutto merda, anzi, io sono un grande ricercatore
di tutti quelli che sono i nuovi Dylan, i nuovi geni, nuovi, grandi artisti.
È stato grazie a te, ad un tuo
commento pubblico, che ho conosciuto ad esempio Mirko Menna ed il suo Nebbia
di idee, per dire.
Questo è un esempio, un disco che
Paolo Conte stesso, aveva citato e recensito benissimo con una frase. Tutte queste
figure, però, bisogna avere anche il coraggio, la forza e la pazienza di
andarle ad ascoltare, sennò, altrimenti, rimaniamo lì, con tutto il nostro
bagaglio del passato e diventiamo dei bacchettoni ammuffiti che non ascoltano
più niente. La canzone Forsi, comunque, è una canzone di ribellione.
Passiamo a Crisalide (Le ali del
falco) che si apre con il magico pianoforte di Maurizio Fasoli fino al dispiegarsi
di una dolce melodia, è indubbiamente una canzone che guarda verso l’alto, la
definirei una canzone d’aria. Se penso ai versi “Ma me dumanderóo i aal del
falco per un viàgg, per un viàgg / taant per regurdàss de vèss staa in voolt
püssée de inscé, püssée de inscé / e se guleróo via salüdum cun la mànn / e pöe
dii mè sacòcc vedaréet burlà föe tütt” mi sembra di capire che sia stata
scritta dopo un periodo down, dico male? La crisalide è vista come segno di
rinascita, di trasformazione?
Quella canzone, prima di diventare
canzone, è stata una sorta di appunto che io mi sono scritto sul quaderno, in
un momento in cui non mi trovavo bene, con i piedi nel fango, nelle sabbie
mobili che mi risucchiavano. In quel momento io camminavo verso il santuario
della Madonna del Soccorso di Ossuccio, quindi mi stavo innalzando, più salivo
e più guardavo le farfalle, però sognavo addirittura le ali di un falco che in
quel momento è passato, per poter essere un po’ più in alto, per poter fare una
specie di meditazione da un altro punto di vista, una cosa più elevata, che mi
permettesse di avere un punto di vista differente. E allora devo dire che
quella lì era una cosa che stavo scrivendo proprio a me, come dire, per
incoraggiarmi. Maurizio Fasoli è stato eccezionale. Io ho fatto togliere tutto
il resto, chitarre e tutto il resto, perché doveva proprio essere un pezzo aereo,
volatile, un pezzo d'aria.
Invece di parlare della canzone che dà
il titolo al disco, se sei d’accordo, vorrei parlare di El Giuvanon (Il becco
del merlo) perché nasce dalla stessa melodia di Crisalide, sebbene suoni molto
diversa. La definirei una canzone di terra, qui non c’è il desiderio di volare
in alto ma di scavare in profondità, dentro sé stessi, “Ma me dumanderóo el
bècch del merlu, per fà un böecc, per fa un böecc / per truvà quii ròpp che’l
téemp el m’ha scundüü sùta i radiis, sùta i radiis… / e quando troverò la cassa
del tesoro, vi chiamerò con me e dopo l’aprirò…”. Una curiosità, El Giuvanon è
frutto della tua fantasia o è realmente esistito?
El Giuvanon (Il becco del Merlo) è,
invece, un brano profondamente legato alla terra ed è uno scavare nelle radici,
con la figura del Giuvanon, proprio perché questo grande contadino è stato uno
degli ultimi cowboys della nostra sponda del lago, cui era fortemente legato, fisicamente
sempre più ricurvo su sé stesso, un uomo che era di una forza e di una statura
di un certo tipo, che si è modificato con la vecchiaia seguendo proprio la
terra. Queste due canzoni, dunque, sono diventate due facce del vivere, aria e
terra.
Trovi sia stato più arduo volare verso
l’alto o cercare dentro sé?
Non c'è una classifica, sono due
viaggi che prima o poi uno deve fare e che costantemente ti chiamano, perché ci
sono dei momenti in cui ti devi per forza elevare un po’, specialmente quando
intorno a te tutto sta diventando palude, dall'altra parte però non puoi vivere
appoggiato a una nuvola, perché tu sei un uomo della terra e perché la terra ti
appartiene e tu appartieni a lei e dentro di te ci sono tutti quei simboli,
tutti quei ricordi e tutti quei viaggi che uno deve ancora fare. Per cui quando
tu chiedi in prestito il becco al merlo, il merlo è quello che è sempre giù nel
prato, che scava, che scava per trovare i tesori che ti sono sfuggiti, quelli
che hai dimenticato. Come mai eri così contento da bambino, anche solo per una
pietra colorata, una biglia o un fumetto. Come mai adesso non va bene più
niente? Come mai non ti accontenti più? Qual è il l'anello magico che hai
perduto? È molto difficile, perché devi proprio scavare in profondità.
Riprendiamo a seguire l’ordine delle
tracce e affrontiamo la title-track, che credo sia stata scritta dopo il duro
periodo di lockdown durante la pandemia, almeno così mi sembra dai versi “Ho
fümaa la nustalgiia, ché luntànn de tücc / Ho fümaa la nustalgiia e adèss me
resta el mùcc”. I versi “Tel gìret e rigìret, te vöeret stravacàll / l’è el
solito büceer ma rièset mea a finìll” mi sembrano descrivere un segno di
rottura rispetto al prima, è così? Quanto è stato duro per te restare lontano
da tutti durante quel periodo e che cicatrice ti ha lasciato?
No, è un pezzo modulabile, quindi la
tua impressione può avere molto senso. Questo bicchiere che poi è il tuo
bicchiere, quello nel quale ci sono tutte le tue cose, i tuoi ricordi, tu ogni
tanto lo vorresti svuotare, lo vorresti bere tutto e dire “Basta! Adesso questo
bicchiere di ricordi è finito”, però non riesci a svuotarlo, perché come
abbiamo detto prima non puoi vivere nel passato, non puoi far finta che non ci
sia stato. Il passato passa solo fino a un certo punto. Tu ce l'hai dentro,
quello è il tuo bicchiere, sempre, può finire, può cambiare il contenuto, puoi
riempirlo, puoi finirlo, però il tuo bicchiere è un po’ macchiato, macchiato
dalle cose che hai pensato e un po’ sbeccato, da quello che non hai fatto, da
quelle cose che sono i tuoi rimorsi, ciò che non è stato. È il tuo bicchiere e
non puoi farci niente, è il contenitore nel quale qualsiasi liquido tu voglia andare
a mettere, dovrai poi farci i conti. In merito al lockdown, dal punto di vista
della sofferenza che c'era in quei momenti e delle perdite anche qui in paese,
è stato drammatico perché era come una fucilazione settimanale, quindi questo è
stato un aspetto che ci ha segnato e in un tempo in cui credevamo tutti, di essere
diventati registi della nostra esistenza, molto supponenti e arroganti in
quanto tecnologici, il dolore ci ha ricordato, invece, una fragilità devastante
per un qualcosa di invisibile e un qualcosa di incomprensibile all'inizio. Dal
punto di vista, invece, della clausura, io devo dire che qui è avvenuto
qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto, sembrava di essere su una nave
famigliare, immersa in un posto bellissimo che era diventato all'esterno un
paradiso, con il lago fermo come uno specchio, un cielo nitido, animali che si
erano rimpossessati del territorio e la vegetazione che la faceva da padrona.
Questo vivere tutti insieme un tempo così lungo ci ha regalato una resistenza
incredibile, perché noi, io, mia moglie e i miei tre figli, eravamo proprio
tutti i giorni a contatto diretto su di una nave, in una lunga crociera. Il
problema era che, se guardavi fuori dalla finestra di casa, vedevi il paradiso,
se accendevi l'altra finestra che era quella della televisione, vedevi
l'inferno… Da un certo punto di vista è stato splendido, il vivere tutti
insieme, magari leggendo libri, giocando, guardando film, riappropriandoci di
un ritmo di vita che avevamo perduto, non avrei però voluto viverlo a quel
prezzo. Però quando l'ho vissuto, sarei stato un'ipocrita se avessi detto che
stavo male. Anche quando abbiamo preso tutti e cinque insieme il Covid, che era
già la variante inglese, stavamo chiusi in casa e guardavamo Sanremo. Non
stavamo particolarmente male, era un'influenza come un'altra e grazie a Dio non
ci ha lasciato segni. Poi sì, è vero che un po’ di strascichi psicologici queste
esperienze le lasciano, perché poi rimani un po’ indebolito da questa cosa. C'è
voluto un po’ per tornare alla normalità, però niente di drammatico e quindi, in
definitiva, l'abbiamo vissuta come dei veri e propri naufraghi ma su una nave
che era ben salda.
La canzone che non c’è, stile
western, narra lo sforzo e la fatica del partorire una canzone ed uso
volutamente il verbo partorire. “Bagna
la tua penna nel catrame del tuo fondo, / se vuoi regalare un pianto mentre
scriverai cantando” mi sembra la sintesi perfetta di questo disco, solo se sai
guardarti dentro con estrema sincerità puoi regalare intense emozioni a chi
ascolterà le tue canzoni? È così?
Hai detto esattamente. È la canzone
che parla dell'inseguire la canzone che non c'è ancora, come il fotografo che
cerca la foto che non ha ancora scattato, il pittore che vuol dipingere il
ritratto che non ha ancora dipinto. In fondo sei sempre alla ricerca di
qualcosa che non c'è, sennò altrimenti sarebbe tutto finito. La canzone che non
c'è è quella che tutti inseguiamo, la preda che non hai ancora preso, il pesce
più grosso che non hai ancora catturato nelle tue reti. Ecco, il pescatore non
andrebbe mai a pescare se non pensasse di prendere il pesce più grande e poi,
anche se quello pescato fosse gigantesco, ne vorrebbe prendere un altro con
altre caratteristiche…
Shandemé è un crogiuolo
di strumenti anche insoliti come duduk, ney, baÄŸlama, suonati da Andrea
Cusmano, una melodia orientale, un ritornello “Scià’n’de mé Regina Del Tütt,
tègnum per la mànn… / Scià’n’de mé Regina Del Tütt, tègnum per la mànn…” che si
fa mantra. Una preghiera, un’esperienza spirituale. Quanto è importante per te
la spiritualità e quanto la natura è elemento portante della tua spiritualità?
Questa canzone penso che, come mantra,
è rimasta negli archivi veramente per decenni e poi gli ho dato una struttura,
gli ho dato un testo. Ho voluto proprio che ci fossero degli strumenti non
riconducibili a noi, a questa nostra terra. Proprio come queste cose un po’ spirituali,
doveva avere assolutamente un suono distante, etnico, lontano, che sapesse di
viaggi incredibili e tante altre cose. È stata una di quelle cose che abbiamo
potuto fare grazie alla collezione di strumenti di Andrea Cusmano e grazie alla
sua capacità di poterli anche suonare. In merito alla tua domanda sulla spiritualità,
io penso che anche nei momenti in cui sono apparentemente distaccato o poco
spirituale, in realtà sto lavorando sempre alla ricerca di spiritualità, come
un camminatore, come un viaggiatore. Ancora oggi, tutte le volte che ho tempo,
mi trovo a viaggiare con determinate musiche nelle cuffie, salendo verso monti
o verso rive, scendendo santuari, vecchie chiese, vecchi templi. Non è tanto la
“religione” ad attrarmi, anche se ho studiato svariate religioni, anche dal
punto di vista antropologico e devo dire che mi affascinano tutte e tutte
contengono un buon tentativo di cercare di crescere spiritualmente, però, è
proprio la spiritualità, invece, quella cosa che cerco, indipendente da quanto
uno sia un belivero, un credente oppure no È però un viaggio che tu devi
costantemente fare. Se io non avessi questa impronta probabilmente sarei già
disperso. Sarei perduto, sarei sotto un ponte fatto solo di dubbio, invece,
tutte le volte che c'è un'apertura, tutte le volte che c'è uno spiraglio per
cercare di volare un po’ più in alto, ci provo. Questa cosa è fondamentale,
anche questo mio continuo indagare su riti, miti, credenze, leggende. Gli
spiriti li vedo o li percepisco ovunque, ma non i fantasmi con il lenzuolo, proprio
l'idea di geist, l'idea di spirito delle cose, anche un po’ shintoista se
vogliamo, vecchi oggetti, ambienti, vecchie case nelle quali sono accadute
cose. È come se tutto fosse lì, anche nella canzone Manoglia lo dice, anche
lì non c'era più nessuno, c'erano solo gatti, però era tutto popolato da
fantasmi, che erano importantissimi perché c'erano stati e perché avevano
caratterizzato il mio passato, la mia infanzia, il mio essere cresciuto in un
paese del genere, quindi, vedi che custodisco tutto inzuppato della stessa
materia, fatta di natura, spirito e alla fine dei conti uomo.
Zia Nora credo
nasca dal desiderio di omaggiare una persona che ti è stata te molto cara.
Musicalmente è una canzone folk alla vecchia maniera, zeppa di ricordi, che si
chiude con i versi “Ma il suo foulard lo sa, mia zia ritornerà / Nei giorni un
po’ a metà, dirà qualcosa piano poi mi saluterà… / Mia zia ritornerà……”. A
volte basta un foulard, un oggetto della persona per farla rinascere dentro di
noi…
Zia Nora è
un'allegra nostalgia. Mentre ti sto parlando ho qui una sua foto e la
percepisco dentro di me. È una canzone che io stupidamente tenevo soltanto per
me, la cantavo qualche volta a mia mamma perché era sua zia, sorella di sua
madre. Questa zia Nora che non aveva mai avuto marito, che era rimasta sempre
quella, uno spirito anche un po’ libero, se vogliamo, aveva lavorato in giro
per il mondo, era andata, viaggiato e mi ha e mi ha trasmesso, nelle lunghe
passeggiate, nelle lunghe giornate in casa sua tutte quelle possibilità del
curvare la realtà con la forza della fantasia, oppure ripescando vecchi miti
vecchi, vecchie abitudini, credenze, cose che potrebbero essere scambiate anche
semplicemente per superstizioni, ma che erano travestite più da rito magico e
queste cose si sono depositate pesantemente sul mio fondo e sono sempre rimaste
lì presenti. Probabilmente zia Nora è stata un'iniziatrice di quella latitudine
un po’ sciamanico creativa, che mi permetteva di co-creare un mondo fatto anche
di cose che mi somigliavano molto da dentro. Laddove non mi piaceva o non mi
bastava una cosa, io lì la battezzavo, la facevo diventare altro. L'essere poi
cresciuto in mezzo a boschi, giardini, montagne, acque, terre, sassi e valli, mi
ha permesso di dare un nome alle entità, a vederle sotto forma di qualcosa che
veniva proprio dal mio profondo. Intingevo davvero il pennello dentro la
natura. Un albero, un semplice platano era diventato per me un un'entità di un
certo tipo con la quale dialogare, guardando se stesse bene, se stesse male,
vivendo a contatto non solo con le persone, ma anche cose visibili e invisibili
della natura.
Quel verso finale “mia zia ritornerà”
mi pare però pieno di fiducia. È così?
È il fatto che ritorna nei giorni in
cui magari puoi avere un problema, i suoi tentacoli spirituali non smetteranno
di sostenerti perché lei c'è stata e fortemente è ancora ancorata al tuo
ricordo, così come lo è mio padre, i nonni o altra gente. In questo caso la
canzone è dedicata a lei e come nel caso del Giuvanon, anche lei fa parte di un
qualcosa che non può essere trascurato.
“E anca incöö…e anca incöö…ghè una
strana canzón / scundüüda nel fiöemm / E ghè un föej de fuschiia che incarta la
löena / e un cùlp de campana sempru püssee luntana…” mi sembrano descrivere
perfettamente quella strana canzone che si intitola Ankainkoo, un titolo
che sembra già un miracolo, una canzone che alterna due parti recitate tra loro
diversissime, al ritornello. La prima narra dell’affannarsi quasi senza senso
delle persone dal momento che si alzano a quando vanno a letto, abbandonandosi
al sonno. La seconda narra di un viaggio in un mondo di boschi, funghi, grilli,
salamandre, immerso nella natura, in un sogno profondo, la vita ideale. Com’è
nata questa bellissima e intensa canzone?
Bravo. Questa canzone è stata scritta
perché tutte le mattine e ancora oggi lo faccio per mia figlia quella più
piccola che ha sedici anni, portavo tutti alla mattina presto alle 06:30 a
prendere la corriera giù in paese, quindi, era il momento in cui vedevi tutte
queste persone intabarrate nel buio, alla ricerca della luce, del bar, del
panificio. Qualcuno stava già fumando la prima sigaretta, il primo caffè e tutti
sembravano palombari appena usciti dal sonno e pronti a dover affrontare una
cosa oscura, strana, che era la giornata. Però la prima parte della canzone
sembra quasi uno sforzo per arrivare a sera, come un'arrampicata durante la
giornata per poi riportare a casa tutto quello che è successo e rinfilarsi in
questo mistero del sonno. La seconda, invece, ti fa vedere come uno potrebbe
vivere la giornata nel momento in cui trasforma, co-crea, come dicevo prima. Perché
ci sono anche quelli, invece, che la giornata non gli basta timbrare, timbrare,
timbrare e portare a casa e fare tutte quelle che sono le mansioni solite. C’è
anche colui che guarda oltre il divino stupore, il divino stupore tipico di
quelli che sono coloro che hanno lo sguardo più aperto verso il miracolo che ci
circonda. E allora ecco grilli, ecco salamandre, ecco tutte queste cose. E alla
fine la canzone lo dice, ecco che sul fondo tutto quello che c'è, questo fiume,
è per chi domani ha ancora voglia di ripartire. Che cos'è il più grande dono
che tu puoi avere? È quello di andare a letto, contento di riposare, il meritato
riposo, si spera sempre di dormire un po’ di ore serenamente, però con idea che
domani tu sei pronto per andare. Quando non hai voglia di alzarti al mattino è
l'inizio della depressione, l'inizio dell'ansia. Io li ho provati questi
malesseri e quindi ho dovuto combattere e tutte le volte, l'unico modo per
proteggersi, per venirne fuori era, con l'aiuto della poetica e con l'aiuto
della visione, guardare al di là di tutto quello che è il cemento che ti chiude
dentro, l'abitudine a dover obbedire a determinati ritmi che diventano per te
sempre più incredibili, Il non riconoscere tutto quello che avviene. Se uno si
basa soltanto sul telegiornale, su un giornale, letto anche distrattamente,
tutti gli input che gli arrivano sono tossici, sono velenosi, perché non ci
sono notizie urlate poi così belle. Però se tu chiudi il giornale e guardi
fuori, anche se abiti in un luogo non naturale, non bello come il lago di Como,
puoi vedere comunque dei piccoli miracoli avvenire, il tuo gatto, un fiore che
sta spaccando il cemento, un piccione che arriva in un certo modo, una persona
che ha attraversato tutta una fila di anni e la vedi ancora che sta prendendo
con una certa fierezza il suo autobus con la sua borsetta della spesa, ci sono
tante piccole cose che ti incoraggiano, se le guardi. Certo, se apri il
giornale, da una guerra passi a un'altra guerra, da una strage in famiglia,
passi a un'altra strage in famiglia. Un mondo che si sta dissanguando anche per
colpa nostra, soprattutto per colpa nostra, governi che non funzionano mai bene,
perché poi comunque noi viviamo sempre appoggiati su due piatti di bilancia, no?
Qualunque cosa si voglia guardare, non saremo mai tutti da una parte del piatto
e questo forse è anche un bilanciamento che serve. Anche politicamente, non
saranno mai tutti a destra, non saranno mai tutti a sinistra. Calcisticamente
non saranno mai tutti dell'Inter, mai tutti del Milan, altrimenti finirebbe il
senso del campionato. Non saranno mai tutti credenti, non saranno mai tutti
atei. Vedi che è sempre tutto bipolare? Tutto si divide almeno in due parti.
Qualcuno è per la natura, qualcuno non ne vuol sapere. Qualcuno vive ancora per
la compagnia, il mangiare, il bere, il sociale, qualcuno per l'isolamento per
cui siamo proprio divisi e questa cosa qui probabilmente è anche la grande
bilancia che ci permette di non di non cappottare. Poi oggi c'è anche il
bastian contrario per partito preso, perché dire che una cosa è semplicemente
bella e accontentarsi di ciò che ci sta arrivando, sembra quasi qualcosa di
scontato e allora bisogna trovare subito il veleno, bisogna trovare subito il
complotto dietro.
A frequentare i social, poi, emerge
solo questo.
Ma i social mi stanno veramente
amareggiando ogni giorno di più. A parte le fake news urlate su tutti i nostri
colleghi dello spettacolo, sembra veramente un mattatoio mediatico solo per
farti cliccare, per farti aprire e per vedere poi una fila di cose che non
dicono niente, piene di pubblicità. Però anche come la gente interagisce. Io
credo che i social, che dovevano servire per unire le persone, per far
ritrovare le persone, sono diventate invece delle piattaforme per duelli di scorpioni
da tastiera. Forse qualche piattaforma è ancora abbastanza libera da questo, ma
altre sono diventate addirittura infrequentabili perché poi sono anche degli obitori
dove, purtroppo, più amici hai e più vedi notizie di persone che vengono a
mancare, anniversari continui e quindi non c'è più il bello di trovarsi, di condividere
una cosa. Io credo che non ci sia niente di male se uno fotografa la
pastasciutta e la vuol far vedere ai suoi trenta amici “quest'oggi un bel
piatto di pasta” e tutti gli dicono “Ah buon appetito!”. È una gran cazzata, però
può far piacere, può far compagnia. Se però uno nella pastasciutta, mette
dentro un po’ di carne, allora ecco che arrivano subito anche i vegani, i
vegetariani o quelli che ti scrivono “Che schifo mangi i cadaveri” e allora
entra quello che scrive “merde, io mangio quello che voglio” e diventa subito
guerra per una cosa stupida. Se tu scrivi “Buongiorno” ti dicono “Buongiorno un
cazzo. Oggi ho già litigato all'assemblea condominiale”, quindi non va più bene
niente e lo sappiamo, è un mondo difficile. Allora lì si capisce la canzone Forsi
per chi ha voglia di svincolarsi da tutto questo.
Veniamo a El mekanik, racconto psichedelico
di uno strano personaggio, un “meccanico che sistema i pezzi che la vita ti
spacca…”. La chiave di lettura credo sia nei versi “sono un segugio e non riesci
a capire se piango o se abbaio, / ma sono bravo a trovare le tracce del male
imboscato, / la mia vendetta non crede all’invidia per chi ha avuto un passato
/ la mia vendetta è farti avere quello che non mi hanno dato...”.
È la storia di tutte quelle persone
che ho conosciuto che, pur avendo avuto un'infanzia magari dura, hanno fatto in
modo di usare tutte le loro forze che avevano in serbo per poter far sì che ad
altri non accadesse la stessa cosa. Qualche volta erano anche medici,
psicologi, qualche volta erano semplicemente persone, operai dell'anima o
persone ben disposte nei confronti dell'aiuto a chi, magari, non aveva neanche
il coraggio di chiederlo. Quelle persone che ti trasmettono forza, una serenità,
una possibilità, quelle che ti salvano anche un po’ la giornata, i riparatori
di un destino. Ho visto gente distogliere persone che erano sulla brutta strada
benché loro venissero da strade ancora più brutte, per convincendole che quella
non era assolutamente la via da seguire, che quella non era assolutamente la
cosa da fare. I meccanici sono stati tanti, io ne ho conosciuti, qualche volta
probabilmente lo sono stato anch'io…
Indubbiamente, anche attraverso le tue
canzoni, i tuoi racconti, le tue poesie, no?
Ecco, io magari non me ne sono reso
conto… C’è un film bellissimo ambientato nel deserto sudamericano, si chiama El
Cristo siego, Il Cristo cieco, è un film dove questo ragazzino che
ha avuto delle visioni mistiche da bambino, sa che un suo amico ha avuto un
problema ad una gamba e non può più lavorare e lui decide di attraversare a
piedi nudi il deserto, lui si sente quasi santo, attraversa il deserto e
durante questo viaggio accadono tante cose. E lui senza rendersi conto solo con
quel viaggio lì, solo incontrando le persone, ha già dato in giro speranze,
cose, situazioni, ma lui ha in mente solo di guarire il suo amico. Andrà da
lui, imporrà le mani, non riuscirà a guarirlo. Torna indietro incazzato e
deluso ed è convinto di non essere niente, di non essere santo e, invece, si
rende conto che sulla strada di ritorno c'è tanta gente che già parla di un
nuovo Cristo che è andato in giro, ha fatto miracoli, ha fatto star bene le
persone e lui si rende conto che ha fatto tutto senza rendersene conto. Ecco, a
volte noi siamo meccanici inconsapevoli, crediamo di non valer niente, di non
essere niente, andiamo in cerca di qualcosa di esaltante da fare per poter fare
qualcosa di buono e, invece, lo stiamo già facendo proprio nelle piccole cose,
ma non ce ne rendiamo conto. Ecco, El Mekanik è proprio una canzone che
poi ha avuto dei suoni psichedelici tali che mi hanno convinto a metterlo
nell'album ed è anche una delle più insolite, ma anche una delle più efficaci
dal punto di vista forse della sua diversità. Proprio perché si parla di un
meccanico che deve entrare negli ingranaggi mi piacevano questi suoni tipici
anche della musica un po’ psichedelica, un po’ progressive, che cambia, e anche
lì vedi che poi alla fine dici ascolto i grilli e loro non smettono mai di trafiggere
il buio, non smettono mai di continuare a mandarti un messaggio e allora il
meccanico è come uno di questi grilli che non smette mai, facendo quello che fa
con il suo transito. Del resto, continua a portare in giro qualcosa che a
questo mondo sempre di più serve, il capire dove c’è il male, spostare la gente
da lì e cercare di rimpastarla. Quanta gente ha spostato dalla droga pur
essendo stata drogata magari o in un ambiente pieno di droga. Ecco, pensiamo,
pensiamo al famoso film Taxi Driver. Questo pazzo, questo Travis che arriva a
casa dal Vietnam, non si trova, è un disadattato, è uno psicosociale, non
riesce ad avere una vita normale e finisce per salvare una giovane prostituta
da un ambiente pazzesco e distruttivo, mettendo quasi a repentaglio la sua
stessa vita. Anche lui è un Cristo cieco. E tante figure come queste.
Mi viene in mente anche Gran Torino.
Gran Torino,
sicuramente, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo. Un pazzo come
McMurphy entra dentro in una in un contenitore di pazzi e fa capire che così
pazzi loro non sono, sono vittime di un sistema che li sta schiacciando. E lui
invece, pur venendo poi annichilito, l'indiano che scappa alla fine è come se
portasse avanti il suo nome e la sua vittoria e questa è una speranza nel
guardare che c'è gente che vola più alto. Quindi adesso noi abbiamo scomodato
la storia del cinema, però queste canzoni sono fatte di poco, ma sono profonde
che ti possono fare entra nel tanto. Il disco è lieve ma ti porta tante
briciole.
Ogni tuo disco si chiude sempre con
una canzone dedicata al vento, qui troviamo Foglie al vento, una sorta
di invocazione a quattro foglie diverse: castagno, salice, sambuco e noce. Una
canzone che ad un certo punto si trasforma, attraverso la ripetizione di nomi
di alberi, in una specie di mantra su un tappeto di musica ambient. Tradizione
rispettata ma con un’apertura, dal punto di vista musicale, verso suoni più
internazionali. Un po’ come tutto il disco, non credi?
Questa è stata una grande trovata di
Alessandro Gioia. Doveva essere semplicemente la parte due della Preghiera
delle quattro foglie, queste erano quattro altre foglie, sempre nate nel
bosco e via dicendo. In questo caso però, cosa è successo? È successo che il
disco quando arriva sul punto di finire non finisce ed è come se non finisse
mai, perché con questa apertura giustamente ambient, che è una musica che io
ascolto tantissimo, ha cominciato a creare un'apertura, è come una sigla finale
per cui l’ascoltatore non ha la fine di un disco classico, ma un mantra sonico
che va… Dobbiamo ringraziare Alessandro Gioia che ha lavorato su tantissimi ai
miei dischi del passato. Alessandro ci ha detto “Adesso mettetevi lì e suonate
liberamente degli accordi strani di chitarra, un po’ di violino, aloni e,
rivolgendosi a me, ha “recitami queste parole di questi nomi di pianta” e
dentro tutto questo ha cominciato a muoversi il tutto e sembrava di vederle
proprio volare via queste foglie nel vento ed era il finale che uno poteva
sognare per un disco del genere.
Anticipato a novembre dello scorso anno dall’uscita del bel videoclip “La spia che ti amava” e il giorno di San Valentino dal secondo videoclip “S.r.d.”, esce proprio oggi il nuovo disco del cantautore veronese Marco Ongaro, intitolato “La spia che ti amava” (2024 Long Digital Playing). Un disco decisamente rock, realizzato con le Cifre, un classico trio basso elettrico, chitarra elettrica e batteria che vede come interpreti Pepe Gasperini, Pietro Franzosi e Giovanni Franceschini, con l’aggiunta di due coriste Lucia Corona Piu e Jessica Grossule. Se l’impianto del disco è rock, la scrittura poetica e raffinata di Marco Ongaro la fa da padrona.
Come consuetudine, se sei d'accordo, partirei da copertina e titolo. Una foto in cui ti si vede camminare furtivo per strada nascosto quasi per intero da una siepe. Con gli occhiali scuri da sole sembri quasi un agente segreto in azione e, guardando bene per intero la foto, a sinistra si vede parzialmente qualcuno o forse meglio qualcuna che di nascosto ti fotografa. Il titolo sembrerebbe togliere ogni dubbio. Com'è nato il tutto?
In verità il braccio del fotografo che mi ritrae di nascosto in copertina è del videomaker Oscar Serio: lui sta girando il video del singolo La spia che ti amava che dà il titolo all'album mentre Stefania Tramarin scatta sul set la foto che con l'intervento dell'art director Tiziano Cristofoli sarebbe diventata lo scatto di copertina. Una mise en abyme casuale che, se l'avessimo pensata, non sarebbe venuta così bene. Cristofoli ha poi insistito mettendo un fotografo anche dietro la vetrata del locale da cui vari miei cloni si allontanano nell'immagine del libretto interno usata come copertina del video su YouTube. La privacy è violata dal principio, c'è sempre un paparazzo da qualche parte, ciascuno fotografa qualunque cosa in ogni momento, uno dei sensi della title track sta appunto nell'essere spie grazie allo strumento di spionaggio per eccellenza, la macchina fotografica di cui ormai ogni telefono è provvisto. Ma se "L'amore è un'informazione che sfida l'algoritmo dell'iPhone", il resto delle manifestazioni della nostra esistenza ormai non si sottraggono alla sudditanza digitale, o almeno si crede sia così. Si cercano prove dell'amore dell'altro andando a spiare il suo cellulare mentre dorme, ma l'amore non lascia prove di sé se non effimere, ambigue, fraintendibili. E a poco serve cambiare la password "un giorno sì e un giorno no", bisogna rassegnarsi all'irriproducibilità virtuale del sentimento, quindi al suo impossibile smascheramento. Una parola lasciata su una chat può essere mal compresa mille volte e celare così l'essenza del sentimento che l'ha suscitata. Le parole scritte, le stesse immagini, mentono il più delle volte a dispetto della voglia di rappresentarsi da cui scaturiscono. Allora i miei occhiali scuri, finti Cartier comprati al mercato delle pulci di Glignancourt, non nascondono solo il mio vero sguardo, ma anche la loro natura "tarocca", e gli edifici da Miami Vice che Cristofoli ha messo in rilievo con la luce camuffano il complesso residenziale di Verona in cui una felce di qualche tipo suona come una pianta tropicale. Non c'è niente di vero nel mondo delle spie, tranne l'apparenza.
Ecco, diciamo che così mi hai già parlato anche della title track che apre con una grande grinta rock il disco, per cui passerei alla seconda traccia Il gelsomino, un brano dolcissimo in cui un fugace incontro tra due amanti si fa pura poesia, che belli i versi in cui descrivi lei nell'amplesso "E la schiena si mostrava nel suo volo / era l'esile sua tempra / solo per chi l'amava / candida su un bianco stelo / potente come la sua fiamma / ardente tra la tragedia e il dramma". L'atmosfera ha un qualcosa di francese, di Nouvelle Vague, ma magari è solo una mia impressione...
Come contraddire una tale affermazione? Quando si parla d'amore la Nouvelle Vague occhieggia felice. Direi più Truffaut che Godard, più Rohmer che Chabrol. Poi l'evocazione è soggettiva, la pennellata dell'autore tende a sollevare nell'animo di chi legge o ascolta echi delle rispettive esperienze. Per me, ad esempio, si sovrappone all'immagine di un airone che vidi una mattina di giugno "nella pioggia rada", e rara visto il luogo e la stagione, su una spiaggia di Sifnos nelle Cicladi. Non sai mai cosa ti fa venire in mente un'immagine. Così come un profumo. Il gelsomino del titolo è la parte per il tutto, ciò che accoglie all'arrivo e ciò che lascia alla fine, una sorta di saluto, un profumo che incornicia il ricordo con la sua struggente intensità. L'uso dell'imperfetto poi: la canzone è tutta all'imperfetto, un tempo verbale di per sé elegiaco. Il ritornello di El portava i scarp del tennis, oltre alla potenza delle parole di Jannacci, riesce a rendere mitica e gloriosa la semplice figura di un barbone in virtù dell'imperfetto, questo tempo così meditativo, inconcluso, continuativo. Usato nelle strofe di Gianna da Rino Gaetano rende epica la pur stramba figura della ragazza prima di sdrammatizzarla nel presente del ritornello che si stempera poi nel futuro proverbiale di "chi vivrà vedrà". La scelta di narrare all'imperfetto è la scelta di immortalare, molto più che con il passato remoto. Se si deve fare una statua commemorativa in poesia, niente di più potente dell'imperfetto. A volte scrivere di un ricordo aiuta a custodirlo.
S.r.d. con il suo potente riff iniziale ed un ritmo rock molto teso ma allo stesso tempo gioioso, ci porta ad affrontare un altro capitolo dei rapporti di coppia. Se in economia i rapporti societari si muovono tra S.p.A., S.a.s. o S.r.l. l'amore sembra regolato da una S.r.d., cioè una Società a responsabilità disperata, in cui i rapporti tra i due sono "una sfida al ribasso tra due libertà". Il tema è svolto in tono quasi scherzoso, incomincia con un "Tu amavi me / io amavo te / ma tu temevi che / tra te e me / il primo sarei stato io / a dire addio" per passare a "Tu ami me / io amo te / ma tu sospetti che / tra te e me / il primo sarò io / a dire addio" e finire con "Io credo a te / tu credi a me / Però non credi che / tra te e me / l'ultimo sarò io / a dire addio". Sembra quasi un L'hai voluto tu (Eptalogia delle colpe e del perdono - Archivio Postumia) 2.0, o sbaglio?
In effetti tendo a sdrammatizzare e il rock 'n' roll aiuta molto. Sto fatto che si tratti di "dondolare e rotolare" in fondo non rende mai del tutto serio ciò che si racconta. Era mia intenzione ridere di questa abitudine, di quando si è innamorati, a rendere prossimo il distacco, a scongiurarlo attirandolo in una serie di profezie che si autoavverano culminanti nella dichiarazione "Mi lascerai", cui si risponde naturalmente "No, sarai tu a lasciarmi". È un gioco che si fa quando si è cotti persi e non si ha in fondo molto altro da dirsi tra un abbraccio e l'altro. E hai ragione! Sei andato a pescare una canzone in Archivio Postumia che finiva mettendo a braccetto Luigi Tenco e Piero Ciampi: "Mi lascerai, non ti lascerò. Io sì io sì. Tu no tu no". Me n'ero dimenticato e questo la dice lunga su quanto possano essere utili agli autori dei recensori preparati. In effetti questo giochino che ho intitolato Società a responsabilità disperata riprende il discorso dalle recriminazioni amorose di L'hai voluto tu e lo porta avanti in modo meno adulto, lo infantilizza così come ci si infantilizza nell'innamoramento. Non si crede che l'amore dell'altro resista più del proprio, mentre dentro di sé si spera che avvenga proprio questo, perché il primo a disamorarsi sarà quello che poi starà meno male, se togliamo il senso di colpa di essersi disamorati che comunque non è dolore vero e proprio. Ma finché si fa il giochino nessuno ancora sta male, si cerca solo di prefigurarsi l'inevitabile, un po' per esorcizzarlo e un po' per quel masochismo da cinema horror per cui si prova un brivido standosene però ancora bene al sicuro. Per questo l'arrangiamento del brano è di per sé "poco serio", inanellando rock anni Cinquanta e Sessanta a momenti punk e visioni elettriche un po' buffe come le sa fare Vasco Rossi. Lo stile è frammentario e concitato, a volte ripetitivo come i discorsi che si continuano a fare con piccolissime variazioni all'unico scopo di tenere il contatto in amore. Ho voluto farci un video giocoso proprio per questo, quasi irriverente dal punto di vista del rocker. Niente cuori straziati, solo immaginazione reiterata su modelli coattivi. Gli stessi discorsi in vari posti diversi. Di cosa parliamo quando si parla d'amore? Ma di lasciarci, è ovvio!
La successiva Lo sfondo è di una dolcezza incredibile, si apre con questi magnifici versi "Tutto è sfondo dove non sei tu / tutto è scenografia / tutto è sfondo quando sei via / tutto è retroscena / chi camminava si ferma / chi discorreva sta zitto / e la proprietà del mondo / in fondo è un affitto" e ci racconta di una storia d'amore mancata e della perdita di senso di tutto il resto, che alla fine diviene solo sfondo. Personalmente è forse il brano che più mi ha colpito e quel verso "Tutto è sfondo dove non sei tu" è così bello da avermi fatto venire in mente il verso "Se dovessi reinventarti ti farei dal vero" di Pierangelo Bertoli.
E tu mi citi Bertoli che con il mio discografico attuale, Luca Bonaffini, ci ha scritto canzoni. Lo sfondo vuole rendere l'idea di un egotismo traslato. Se per l'egotista il mondo è tutto filtrato dalla sua sensibilità ed esiste in quanto pura autopercezione, nel caso dell'egotista innamorato il mondo appare totalmente filtrato dalla sensibilità della persona amata. Se lei non c'è, l'ambiente diventa uno sfondo inane, una specie di programma di videogame per un gioco di ruolo in cui le interazioni non si innescano, i personaggi che lo abitano non agiscono e i suoni e le immagini si mostrano nella loro insensatezza di circuiti immotivati. Mi piace fare poesia citando i videogame, i pixel e l'elettronica, un po' cyberpunk. In verità non è detto che la storia d'amore della canzone sia mancata, il testo tratta dell'ipotesi di tale fallimento. "Se dall'aereo tu non scendi / o il bagaglio non esce mai", o ancora "Se tu riparti prima del tempo / o ti sistemi in qualche hotel". È il gioco letterario del "e se...", un altro modo di dichiarare l'amore, facendo capire quanto la persona mancherebbe qualora mancasse. Accidenti, fino a qua è proprio un disco sull'amore!
Scusa Marco, te lo cito nuovamente, perché se Bertoli in Poeti cantava "I poeti son poeti perché scrivono poesie / Fanno a gara nei concorsi dove vincono bugie / quei concorsi col salame, con la medaglietta d'oro / hanno il vizio di spiegarti che i poeti sono loro" qui, in Concorsi di poesia senza poeti, abbiamo uno scenario forse ancor più sconsolante "Complottavano nei portici come profeti / forti di qualche ingenua che li aveva condivisi in un post / sognando concorsi di poesia senza poeti / dove spadroneggiare grazie alla Gazzetta dello Sport", sognando di far parlare di sé fosse anche solo per un giorno "In concorsi di poesia senza poeti / a far parlare oggi e domani si vedrà", ma forse non sono tanto le vittime a destare la tua compassione quanto chi, cosciente della loro mediocrità li adula innalzandoli come massimi poeti "Tra catering kermesse prego astenersi / da faccine selfie e altre forme di pornografia". Potrebbe, in qualche modo, essere considerata un seguito di Ciascuno ha il proprio festival?
Lo è senz'altro. Entrambe sono invettive sui carrozzoni. Prosegue sul solco dell'indagine sulle motivazioni profonde di chi organizza tali concorsi, spesso un'aspirazione inconfessata alla poesia. Taluni operatori culturali che sotto sotto, se vai a grattare bene, scopri che nascondono le loro "poesie nel cassetto". Taluni radunatori di cantautori che scopri essere loro stessi cantautori, sebbene non apertamente dichiarati, poeti mancati che puntano sull'altrui mediocrità o sulla vicinanza a qualcuno di effettivo valore per risaltare in società, se non altro per emergere o parificarsi. Il problema con un'invettiva è come risolverla infine, dove mandarla a parare. Mentre in Ciascuno ha il proprio festival il protagonista punta al mercimonio come risarcimento per l'altrui presunta incomprensione, qui ho voluto porre il ritornello in un territorio lontano, un canto senza autore o di autore ormai ignoto, che molti di noi cantavamo andando in montagna o nelle passeggiate da bambini e che nessuno riconosce più, in base al mio esperimento. Incerti pure sul titolo (Lassù sul monte nero o anche Caramba) in internet lo definiscono "canto scout" come pure "canto di pace" o "canto contro la guerra", ed è una specie di Spigolatrice di Sapri che muore con tanto di mitragliata nemica nella strofa più drammatica che però da bambino non mi facevano cantare mai. La fermavano prima. Mi è bastato prendere una strofa di questa, cambiare i "dodici briganti" in "tredici invitati" e il détournement era servito. Chi è l'invitato che non beve? Come diceva Thomas S. Eliot, ne La terra desolata: "Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?" È l'eterno mistero dell'autenticità.
Foto di Stefania Tramarin
Un'altra chitarra elettrica dal suono teso e un coro a far da contraltare con i versi "Tieni le distanze / poche confidenze / Tieni le distanze / poche confidenze" apre Una via di fuga. Lo scenario mi sembra essere la pandemia ma, sembra che il tenere le distanze più che una regola dettata dall'emergenza sanitaria sia più un'imposizione amorosa, un altolà all'approccio amoroso, almeno mi sembra di intendere dai successivi giustificativi versi "Vuoi trovare una nuova persona / che ragioni a mente fredda / che abbia una vita sana ed un'anima assai buona senza essere per forza un Buddha / ma nessuno è senza macchia / senza un Fracchia nell'armadio". Trovo che i versi "Al mattino una rugiada alla sera una candela alla notte una via di fuga" siano una perfetta sintesi della situazione descritta dalla canzone o mi sbaglio?
La pandemia come esperienza di isolamento e di divieti, certo, che sinteticamente trasforma un ipotetico refrain alla "twist and shout" nei versi del coro, che sono esortazione e figure da ballo collettivo: invece di "butta in aria le mani / e poi falle girar" ci troviamo ora con "tieni le distanze / poche confidenze" a compendiare il cambio di epoca. Così come la figura retorica della personificazione viene a ripopolare nel ritornello le spiagge e i paesaggi disertati dagli umani, e per fortuna che il linguaggio almeno ci soccorre ancora. Va da sé che l'isolamento e lo spopolamento di umani dal mondo, ripopolato invece a dismisura nei siti virtuali, comportino pure difficoltà d'incontro amoroso in senso concreto. Esplosioni di chat mentre il coprifuoco impazza. Nei versi che citi mi è molto piaciuto traslare il solito scheletro nell'armadio nella maschera di Fracchia che tutti conserviamo nell'intimo, antonomasia sconosciuta ai giovani che forse riconoscono per sentito dire Fantozzi. Giovani che dovrebbero studiarsi il nostro Gogol, il nostro Melville, il nostro Kafka: l'incredibile Paolo Villaggio grande fustigatore di debolezze nazionali per nulla superate. I versi che citi nel finale della tua domanda, è vero, raccolgono l'emozione di quei tempi in cui si era bloccati per disposizioni governative, costretti a una frugalità umana dalla quale chissà se ci siamo ripresi.
Con Ritratto di donna scomparsa, c'è un cambio di scena totale, si può dire che cambi completamente anche lo stile di scrittura che si fa più descrittivo, andando a cogliere i particolari di un'assenza "di una casa di una stanza / negli scaffali in ordine / di un armadio a scomparsa / cucina senza intingoli / parete con credenza" aggiungendo però con quel "averne avuto già / più che abbastanza /sapere di mancare un giorno / magra soddisfazione" segno inequivocabile di precedente insoddisfazione. Più enigmatico il finale "Il quadro si è piegato / eppure non lo era / dev'essere passato / qualcuno a qualche ora /forse un colpo di vento", quasi una presenza "in casa tutto è spento / però c'è luce ancora"... C'è bisogno che ci illumini. Splendido l'assolo finale di chitarra elettrica, mi ricorda Santana...
Mi assicurano che il chitarrista Pietro Franzosi stesse pensando a John Mayer, ma effettivamente può ricordare Carlos Santana. Di certo hai ragione a definirlo splendido. Pennellate misurate, distorsione q.b., gusto dell'attesa e dell'affondo, finale in vorticosa ascesa. Il titolo della canzone è come capita a volte il verso mancante. È Lo sfondo che dalla quarta canzone viene in rilievo nella settima. Se prima era onnipresente ma insignificante, insufficiente nell'ipotesi di assenza della persona amata, ora acquista tutto il senso che si cerca non trovandola più davvero. Gli oggetti diventano indizi in un'indagine, elementi di un identikit, immagini solitarie tra Hopper e Morandi. Se prima tutto era niente, ora il niente diventa tutto e sembra parlarci di lei, di com'era quando c'era, di perché se ne sia andata. Si compone così un ritratto che, come ogni ritratto, è la rappresentazione dell'assenza sostanziale della persona, la descrizione della sua mancanza. Come la stanza in cui Salvador Dalì nella sua casa di Figueras raffigura il volto della procace Mae West mettendo una tenda bionda per i capelli, un rosso divano per la bocca e due quadri di gente in piazza per gli occhi, qui ogni dettaglio della mobilia descrive la donna scomparsa del titolo. E una cornice fuor di sesto per chissà quale ragione offre all'osservatore non certo disinteressato il sospetto, l'illusione, forse la speranza che lei sia ancora lì da qualche parte, scampata grazie a qualche momento di disattenzione. La casa è al buio, eppure c'è o s'intravvede della luce, vorrà dire qualcosa. In verità non c'è rassegnazione, né nella donna scomparsa forse proprio per questo né in chi ancora la cerca dove un tempo fu.
Ed arriviamo a Ma tu sorridi, canzone lenta, accompagnata per tutto lo svolgimento dal clarinetto suadente di Marco Pasetto. L'atmosfera del brano mi riporta un po' ad Anni ruggenti, in più sento molta nostalgia in questa canzone che parte da un presente, un dato di fatto, "Si vuole il corpo e si vuole la mente / ognuno cerca un cuore gentile / per questo lascio il ricordo indulgente / vagare all'ombra del vecchio cortile" per passare a dei versi all'imperfetto che emergono dai ricordi "C'erano pietre brillanti di sole / ed incantesimi di naftalina / sotto il sospiro del vento la gonna / già troppo adulta per una bambina" e poi si torna ancora al presente "Ma tu sorridi se scatta la foto / guardalo in faccia quando ti parla / abbassa gli occhi quando è arrabbiato / apri le orecchie orecchino di perla". Chissà che diranno le donne qui ... Fino agli amari versi finali "Ciò che è passato lo chiamano vita / E non esiste il presente davvero". Che mi racconti?
Se vogliamo lasciare "il ricordo indulgente vagare all'ombra del vecchio cortile", per forza di cose si va nel passato. E, come sottolinei tu, ci si va a passo alternato. Il cortile è un po' un Giardino dell'Eden e l'infanzia di ogni bambina, questa in particolare, è normalmente vissuta nell'innocenza di un paradiso terrestre destinato a guastarsi. Nella canzone in modo sotteso c'è questa atmosfera di perfezione corrotta, perché laddove si tratta di corpo e di mente, e torniamo all'amore ma anche strettamente all'eros, la presunta purezza infantile non può che tramutarsi in qualche shock che prepara la vita adulta. Non è chiaro nel brano, volutamente, di che natura sia lo shock. C'è un uomo, autorevole o autoritario, certo, potrebbe essere un padre come pure uno sconosciuto, come l'uomo con cui la donna vive adesso. Ciò che conta nel presente inesistente della protagonista è che il passato non è mai trascorso davvero, è una reminiscenza che occupa l'attimo che lei vive riempiendolo di determinati attimi che visse un tempo. Lei e la sua vita sono il risultato di qualcosa accaduto nel suo passato, in quel cortile, qualcosa di pregnante, non per forza riconoscibile in una categoria estetica di bello o brutto, ma talmente significativo da essere ancora qui, con lei, adesso. Allora il presente dei versi che tu hai citato non è che il passato che mai la lascia. Non sappiamo più se quel padre o quello sconosciuto sono davanti a lei in questo momento o se ne sono semplici rappresentazioni rimesse in circolo da altre persone o da fantasmi. L'identificazione tra passato e presente è assoluta, forse per un trauma, forse per una felicità tenuta stretta. Marco Pasetto e il suo clarinetto, certo, ma Anni Ruggenti proprio no. L'arrangiamento imbastito da Pepe Gasparini poggia sul suo basso intrecciato alla batteria di Giovanni Franceschini e alla chitarra di Franzosi in un modo talmente sofisticato da essere lontano anni luce dal dixieland di quel disco birbante. Per non dire delle voci di Lucia Corona Piu e Jessica Grossule, sirene morbide a unire il ricordo alla neutralità dell'attuale.
Il dixieland scoppiettante di Anni Ruggenti è indubbiamente distante dalle sonorità di questo lavoro, ma il clarinetto di Pasetto, sempre morbido e rotondo, lo trovo inconfondibile, intendevo questa assonanza ma passiamo, invece, ad Aveva un uomo in cui c'è ancora uno stupendo sottile gioco di parole nei versi "Ce n'era stato uno prima / forse più di uno / ma chi c'era stato non c'era / proprio quando c'era / era sì il suo uomo / ma poi non ci credeva / e lui non lo sapeva / com'è che un uomo è uomo / di una donna vera / una donna che invece c'era / c'era". Trovo il tutto sublime anche quando un tema serio come quello della presenza-assenza di un uomo accanto a una donna è sapientemente stemperato da un "abracadabra la vita ha deciso / tra un Lalaland e un Tralalà", ove "Ogni sospiro un motivo ce l'ha"...
Lalaland è un film musicale, e lo stesso vale per Tralala, molto meno noto, che ho avuto la ventura di vedere un paio di volte al cinema a Parigi. In Italia credo non si sia nemmeno affacciato. Sono due musical, insomma, utili a descrivere l'universo della protagonista, una rappresentazione tra oroscopi e Tarocchi dove ci si aspetta che qualcuno a un certo punto si metta a cantare o faccia qualche passo di danza, una vita poco seria trascorsa non tra incudine e martello ma tra un uomo che non c'era più da subito e uno che deve sempre ancora arrivare. Il gioco tra passato e presente della canzone precedente qui si sospende nell'area dell'attesa, durante la quale la vita effettivamente scorre. E tra le magie delle fiabe e i sogni del musical non passa neanche poi male. Un brano che sottolinea quanto una donna sappia meritare molto più di quello che alla fine le capita di avere, circondata da uomini insufficienti, incapaci di esserci pure quando ci sono. La suggestione musicale del testo è avvalorata nell'arrangiamento da evocazioni di Kurt Weill eseguite però dalla chitarra distorta dei Black Sabbath e contrappuntate da un tema vocale femminile alla Ennio Morricone. Un miscuglio fortunatissimo, un equilibrismo che unisce il teatro di Brecht al reality di Ozzy Osborne, un guazzabuglio miracolosamente riuscito che ben rappresenta l'esistenza e lo spessore della protagonista.
Foto di Stefania Tramarin
La traccia numero 10, intitolata Pascoli Verdi, è come ormai consuetudine nei tuoi ultimi dischi, una traduzione in italiano di una canzone straniera. La scelta questa volta è caduta su Pastures of plenty di Woody Gutrie e, quello che originariamente era un pezzo country folk, qui è diventata una ballata rock più conforme all'intero spirito dell'album. Come è nata questa scelta e quali le eventuali difficoltà nell'adattamento se ci sono state?
Nel luglio 2012 a Modena Maurizio Bettelli, cantautore, operatore culturale e massimo esperto italiano di Guthrie, organizzò un Tributo a Woody Guthrie per il Centenario della nascita e mi invitò. Mi assegnò anche la canzone che avrei dovuto cantare, Pasturses of Plenty appunto, i pascoli dell'abbondanza, che per l'occasione tradussi in Pascoli verdi. Il primo imbarazzo all'epoca era quello di andare lì e cantare in inglese, cosa che avevo fatto negli anni 80 quando indossavo il costume del canadese O'Gar per contrabbandare della Italo Dance di cui scrivevo i testi in lingua straniera. Dopo aver smesso nel 1986, mi ero ripromesso di guardare in faccia il pubblico da lì in poi cantando solo in una lingua che potesse capire. Per quanto millantassero, gli italiani non hanno mai capito un'acca di inglese cantato, men che meno cantato da me. Dunque, mi parve naturale tradurre il brano per cantare quello che dice Guthrie a un pubblico che potesse afferrarlo. Prima sentii la sua versione, poi ascoltai un bootleg in cui Bob Dylan maltrattava il brano abbastanza da rendere facile impossessarmene. Forgiai su Dylan la traduzione cantata. Per questo sul disco dichiaro che l'ho tradotta "per colpa di Maurizio Bettelli": non mi avesse invitato non mi sarei mai cimentato in un'impresa tanto azzardata perché, se il testo è parecchio fedele com'è mia abitudine, la musica è proprio liberamente interpretata. Il tutto ovviamente si confà senza problemi allo spirito dei folksinger di allora che si passavano le canzoni e le riarrangiavano da uno Stato all'altro facendone qualcosa di proprio. In questo caso il chitarrista Franzosi ci ha messo pure del suo, creando un'intro alla Hendrix non distorto che conferisce una particolare tensione alla ballata. Il testo è tra i più letterari di Guthrie, tratta della tematica delle migrazioni americane in seguito alle tempeste di polvere di cui John Steinbeck narrò nel romanzo Furore. C'è epopea da vendere, insomma.
Eccoci così arrivati al brano che chiude il disco Quello che accadrà, dedicato a Vittorio De Scalzi, con quei versi toccanti del ritornello "Was ist loss mit dir / la clessidra vuota / was ist loss mit dir / la sua sabbia idiota / nudo il buio sembra quasi blu / c'era un'ombra forse tu" sorretti da una struggente melodia, cui alla fine si aggiunge il verso "Quello che accadrà sarà un po' niente" che chiude la traccia con la musica improvvisamente interrotta. Mi dici qualcosa del rapporto che ti univa a Vittorio, che credo andasse oltre l'attività strettamente professionale?
Con Vittorio De Scalzi era facile essere amici, tale era la squisitezza della sua persona. Ci si divertiva e si giocava, il suo particolare calore umano non veniva mai meno nella comunicazione, di una qualità eccellente. Insieme abbiamo lavorato a Gli occhi del mondo, dalle poesie di Riccardo Mannerini, su suggerimento di Enrico de Angelis che mi aveva proposto come sostituto di De André in quello che avrebbe dovuto essere il seguito ideale di Senza orario e senza bandiera, ma il lavoro era andato oltre quella collaborazione, diventando subito complicità. In compagnia di Marco Spiccio, Max Manfredi, Cristiano Angelini e la moglie Mara abbiamo passato bellissime giornate e serate genovesi tra canzoni e prosecco. Quello lo portavo io. Lui mi ha aiutato a rifinire le canzoni del mio spettacolo teatrale sulla Costituzione nel 2009, di cui siamo coautori, e io per lui ho scritto i testi di un intero concept album sul Graal, di cui solo una canzone finora è stata pubblicata. Funziona così tra autori e musicisti: l'amicizia è fatta di ciò che si fa insieme, quello che si è creato in combutta continua a tenerci uniti per sempre, a prescindere dalle sorti seguite poi da ciascuno. È stato un privilegio lavorare con lui significa: è stato un privilegio essere stati amici. E un grande piacere. Per questo gli ho dedicato l'ultima canzone del disco. Ora che lui manca fisicamente in questo mondo sarà difficile che ci accada qualcosa ancora. Tutto qui. La falla spaziotemporale si è richiusa, per il momento.