di Fabio Antonelli
Il 13 ottobre 2023, in pieno autunno,
è stato pubblicato il nuovo disco di Davide Van De Sfroos intitolato “Manoglia”
(BMG/MyNina, 2023). Un disco volutamente acustico con undici tracce inedite che
hanno preso vita negli anni e sono rimaste gelosamente custodite da Davide
probabilmente in un cassetto, o in una tasca come fossero amuleti, in attesa
fosse maturo il tempo per venire alla luce e dare vita ad una rinascita, un nuovo
cammino. Ecco cosa mi ha confidato in una lunga e piacevolissima chiacchierata.
Partirei dalla copertina dell’album che, un po’ come avviene per il package di un profumo o l’etichetta di un vino, rappresenta il biglietto da visita di un album discografico. In questo caso un disegno con un albero che ha penne di uccelli al posto dei rami e, al centro dove partono i rami o, meglio, le penne, una maschera che a poco a poco forse sparirà… Com’è nata e perché hai scelto Manoglia come titolo dell’intero lavoro? Può ritenersi in assoluto il tuo lavoro più intimo, in cui ti metti con grande coraggio più a nudo?
Innanzitutto, la penso come te. Le
copertine degli album sono il primo invito all’ascolto. Nella storia dei miei dischi
comperati, che sono stati veramente tanti, ci sono stati veramente moltissimi
LP che sono finiti a casa proprio a scatola chiusa, solo per la bellezza della
copertina. Quando vidi il disco di J.J. Cale, con l’immagine del pacchetto
delle Gitanes, mi dissi “non può non essere un bel disco” e, infatti, è un
disco stupendo. Poi, purtroppo, non sempre funziona così bene. In questo disco
acustico il mio desiderio era quello di far intravedere una certa psichedelia,
una psichedelia del periodo anni 60 e 70 e, originariamente, lo volevo ultra-colorato,
se vogliamo dire anche un po’ in stile San Francisco. Però Michele Cerone, che
abita vicino a Roma e che mi è stato proposto come grafico, aveva in serbo
anche altre suggestioni, ovvero quella psichedelia più legata a Sgt.
Pepper's e ad altri mondi. Quando ha ascoltato alcune tracce del disco e
gli ho parlato di un disco che si sarebbe intitolato Manoglia, ha modificato
un'immagine che aveva trovato su un vecchio erbario e mi sembrava veramente già
un totem, con la maschera sotto, con tutto il resto della copertina libero.
L’unica cosa che gli ho detto “se mi metti le piume al posto delle foglie, abbiamo
la copertina” e così è stato. Ecco come è nata. Poi all'interno tutto si apre e
tutto diventa anche molto in stile psichedelia anni 70, però la copertina,
proprio perché è così semplice, diventa molto attrattiva e in un negozio di
dischi, comunque, la noti. Per quanto riguarda il titolo Manoglia è il
titolo di una canzone che era nata proprio sotto la grande magnolia, qui del
paese, quando era finito il momento del lockdown pesante e io mi sono ritrovato
con migliaia di foglie lì sotto, che nessuno ovviamente aveva ripulito ed erano
proprio i simboli di tutti i miei ricordi dell'infanzia, di tutte le cose che
avvenivano in quel luogo quando era un po’ il centro del paese. Da lì poi è
nato il disco che è completamente arboreo, naturalistico, in cui ci sono ali di
falco, il becco del merlo, in cui c'è tutta una ritualità tipica del
camminatore per le piccole strade di paese, di montagna, che raccoglie visioni
e le trasforma poi in canzoni. Si tratta di un disco nato da un taccuino
privato e quindi, se vogliamo, è molto intimo ed ecco perché l'ho voluto
lasciare il più acustico possibile.
Il disco si apre con La ballata del
mascheraio, forse la canzone musicalmente più vicina al Davide che
conosciamo. Una canzone che, se ascoltata con superficialità potrebbe sembrare
la classica ballata folk che anche un ragazzino capirebbe senza difficoltà, poi
però se la si ascolta bene emergono strati sottostanti, versi che fanno
riflettere come “perché una maschera se mustra / intaant che sùta la nascuund…”
o i bei versi finali “Per fa’ una maschera de bestia / pröeva a vardàss in del
prufuund / Per fa’una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa a un ómm /
Per fa’ una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa all’amuur…. Mi aiuti
a decifrarla un po’ senza scomodare troppo la psicanalisi?
No, no, vabbè. È chiaro che è una
canzone che può essere applicata alla vita di tutti i giorni, che prende in
prestito la figura ancestrale della maschera che c'è sempre stata nella nostra
cultura, fin da quando eravamo primitivi, poi però prende in prestito il
demiurgo, il mascheraio, per arrivare a fare una metafora su tutto quello che
noi di fatto siamo, queste maschere involontarie, che ci troviamo ad indossare
quotidianamente, perché è un dato di fatto che noi cambiamo anche
atteggiamento, non perché siamo falsi, ma cambiamo atteggiamento e cambiamo
modo di porci a seconda di chi incontriamo. È molto differente il nostro
atteggiamento con l'edicolante da quello con un bambino di quattro anni, quando
arriva un ospite di un certo tipo oppure arriva una persona che magari ti sta
scocciando, ecco, cambiano tutte le nostre modalità di maschera. Come hai detto tu, questa canzone forse nasce
come ballata, molto semplice, proprio perché deve arrivare a tutti, ma come
tutte le canzoni apparentemente semplici, nasconde una parabola, una metafora,
come Il pensare che per fare una maschera che ride lavorerai in un certo modo,
mentre per quella triste, cioè quella arrabbiata, non deve sembrarti per forza
quello che appare, perché sotto, probabilmente c'è una persona che ha sofferto
e che usa questa maschera aggressiva per esorcizzare la paura o per
proteggersi. Oppure perché non si fida più. Poi, alla fine, giustamente quando la
canzone dice che per realizzare una maschera da donna devi pensare a una donna
che pensa un uomo, è semplicemente perché la donna nella storia ha sempre
dovuto combattere, relazionarsi con la figura dell'uomo che molte volte la
dominava, la scoraggiava e, in qualche modo, la faceva passare in secondo
piano, per non dire delle volte che doveva addirittura subirla la presenza
maschile. Ancora oggi, purtroppo questa realtà non si è risolta. Quindi una
donna che pensa un uomo non è semplicemente una donna che pensa all'innamorato,
ma è la donna che deve continuare a rendersi conto che c'è anche una polarità
maschile con la quale lei deve fronteggiarsi quotidianamente. Nella seconda
frase, invece, la donna che pensa all’amore, l’amore che può essere l'amore per
un uomo, per una donna, per un animale, per un padre, un figlio, per qualunque
cosa. La donna che pensa all'amore è la maschera forse più bella e più ricca
per disegnare quello che è il profilo femminile. È quindi una canzone molto
simbolica.
Forsi,
bellissima canzone manouche, sembra essere la canzone di chi si trova a fare i
conti con il proprio passato, “E questa cràpa pièna de véent, questu quadernu
che gùla via / l’è una furesta senza sentée, per fa’ fiadà ancamò la puesiia /
Se sun vestii de aal de muscòn e de paròll che ho rubaa all’usteriia / ho
racataa ogni tocch de rutàmm e adèss la rüggin me fa cumpagniia ché” ma che, ad
un certo punto, accetta di essere così com’è “E FORSI…forsi passerà una naav /
E FORSI…me resteroo ché… / Senza valiisa e senza bigliètt / senza piöe
dumandàss el perché”. Quante volte ti sei sentito fuori sintonia con il mondo
circostante?
Tantissime e questa canzone parla
proprio anche della decisione di reagire, è una canzone ribelle. Tanto più che
gioca, anche a partire dalla musica, con un tempo che non è il nostro. Non dico
che è una canzone di nostalgia, ma è una canzone che si sente libera e non si
vergogna di tante cose belle che ha vissuto in un passato nel quale uno si
sentiva molto a suo agio. Abbiamo preso una musica manouche, protojazz, proprio
per essere fuori dal tempo, come in un lungometraggio alla Buster Keaton, una
roba del genere. Questa canzone è anche il rifiuto di salire sulla nave che
tutti ti obbligano a dover popolare, perché oggi c'è questa velocità, perché
oggi c'è questa tendenza e tu, invece, che sei stato abituato ad andare a prendere
queste piccole cose, le ali di mosconi, le canzoni rubate all'osteria, tu che
lascerai aperto il portone, lascerai passare tutta la processione, poi però
chiuderai le finestre per trattenere fortemente la le tue canzoni, per non
farle sfuggire e la tua poetica che è l'unica cosa che tu continui a ad
inseguire. Una canzone, quindi, che si rifiuta di appartenere ad alcuni tempi
che stiamo conoscendo, che ci stanno un po’ comprimendo e deprimendo.
Nonostante abbia quasi sessant'anni non sono mai stato uno che screditava le
cose nuove, mi sono appassionato sempre anche delle musiche, delle canzoni che
ascoltano i miei figli. Mi piace vedere quando c'è arte, quando c'è
credibilità, talento, quando c'è buona musica e ce n'è tantissima. Io non mi
nascondo dietro a un disco di Dylan o dei Pink Floyd, né sto lì a dire che una
volta era tutto bello e adesso tutto merda, anzi, io sono un grande ricercatore
di tutti quelli che sono i nuovi Dylan, i nuovi geni, nuovi, grandi artisti.
Questo è un esempio, un disco che
Paolo Conte stesso, aveva citato e recensito benissimo con una frase. Tutte queste
figure, però, bisogna avere anche il coraggio, la forza e la pazienza di
andarle ad ascoltare, sennò, altrimenti, rimaniamo lì, con tutto il nostro
bagaglio del passato e diventiamo dei bacchettoni ammuffiti che non ascoltano
più niente. La canzone Forsi, comunque, è una canzone di ribellione.
Passiamo a Crisalide (Le ali del
falco) che si apre con il magico pianoforte di Maurizio Fasoli fino al dispiegarsi
di una dolce melodia, è indubbiamente una canzone che guarda verso l’alto, la
definirei una canzone d’aria. Se penso ai versi “Ma me dumanderóo i aal del
falco per un viàgg, per un viàgg / taant per regurdàss de vèss staa in voolt
püssée de inscé, püssée de inscé / e se guleróo via salüdum cun la mànn / e pöe
dii mè sacòcc vedaréet burlà föe tütt” mi sembra di capire che sia stata
scritta dopo un periodo down, dico male? La crisalide è vista come segno di
rinascita, di trasformazione?
Quella canzone, prima di diventare
canzone, è stata una sorta di appunto che io mi sono scritto sul quaderno, in
un momento in cui non mi trovavo bene, con i piedi nel fango, nelle sabbie
mobili che mi risucchiavano. In quel momento io camminavo verso il santuario
della Madonna del Soccorso di Ossuccio, quindi mi stavo innalzando, più salivo
e più guardavo le farfalle, però sognavo addirittura le ali di un falco che in
quel momento è passato, per poter essere un po’ più in alto, per poter fare una
specie di meditazione da un altro punto di vista, una cosa più elevata, che mi
permettesse di avere un punto di vista differente. E allora devo dire che
quella lì era una cosa che stavo scrivendo proprio a me, come dire, per
incoraggiarmi. Maurizio Fasoli è stato eccezionale. Io ho fatto togliere tutto
il resto, chitarre e tutto il resto, perché doveva proprio essere un pezzo aereo,
volatile, un pezzo d'aria.
Invece di parlare della canzone che dà
il titolo al disco, se sei d’accordo, vorrei parlare di El Giuvanon (Il becco
del merlo) perché nasce dalla stessa melodia di Crisalide, sebbene suoni molto
diversa. La definirei una canzone di terra, qui non c’è il desiderio di volare
in alto ma di scavare in profondità, dentro sé stessi, “Ma me dumanderóo el
bècch del merlu, per fà un böecc, per fa un böecc / per truvà quii ròpp che’l
téemp el m’ha scundüü sùta i radiis, sùta i radiis… / e quando troverò la cassa
del tesoro, vi chiamerò con me e dopo l’aprirò…”. Una curiosità, El Giuvanon è
frutto della tua fantasia o è realmente esistito?
El Giuvanon (Il becco del Merlo) è,
invece, un brano profondamente legato alla terra ed è uno scavare nelle radici,
con la figura del Giuvanon, proprio perché questo grande contadino è stato uno
degli ultimi cowboys della nostra sponda del lago, cui era fortemente legato, fisicamente
sempre più ricurvo su sé stesso, un uomo che era di una forza e di una statura
di un certo tipo, che si è modificato con la vecchiaia seguendo proprio la
terra. Queste due canzoni, dunque, sono diventate due facce del vivere, aria e
terra.
Trovi sia stato più arduo volare verso
l’alto o cercare dentro sé?
Non c'è una classifica, sono due
viaggi che prima o poi uno deve fare e che costantemente ti chiamano, perché ci
sono dei momenti in cui ti devi per forza elevare un po’, specialmente quando
intorno a te tutto sta diventando palude, dall'altra parte però non puoi vivere
appoggiato a una nuvola, perché tu sei un uomo della terra e perché la terra ti
appartiene e tu appartieni a lei e dentro di te ci sono tutti quei simboli,
tutti quei ricordi e tutti quei viaggi che uno deve ancora fare. Per cui quando
tu chiedi in prestito il becco al merlo, il merlo è quello che è sempre giù nel
prato, che scava, che scava per trovare i tesori che ti sono sfuggiti, quelli
che hai dimenticato. Come mai eri così contento da bambino, anche solo per una
pietra colorata, una biglia o un fumetto. Come mai adesso non va bene più
niente? Come mai non ti accontenti più? Qual è il l'anello magico che hai
perduto? È molto difficile, perché devi proprio scavare in profondità.
Riprendiamo a seguire l’ordine delle
tracce e affrontiamo la title-track, che credo sia stata scritta dopo il duro
periodo di lockdown durante la pandemia, almeno così mi sembra dai versi “Ho
fümaa la nustalgiia, ché luntànn de tücc / Ho fümaa la nustalgiia e adèss me
resta el mùcc”. I versi “Tel gìret e rigìret, te vöeret stravacàll / l’è el
solito büceer ma rièset mea a finìll” mi sembrano descrivere un segno di
rottura rispetto al prima, è così? Quanto è stato duro per te restare lontano
da tutti durante quel periodo e che cicatrice ti ha lasciato?
No, è un pezzo modulabile, quindi la
tua impressione può avere molto senso. Questo bicchiere che poi è il tuo
bicchiere, quello nel quale ci sono tutte le tue cose, i tuoi ricordi, tu ogni
tanto lo vorresti svuotare, lo vorresti bere tutto e dire “Basta! Adesso questo
bicchiere di ricordi è finito”, però non riesci a svuotarlo, perché come
abbiamo detto prima non puoi vivere nel passato, non puoi far finta che non ci
sia stato. Il passato passa solo fino a un certo punto. Tu ce l'hai dentro,
quello è il tuo bicchiere, sempre, può finire, può cambiare il contenuto, puoi
riempirlo, puoi finirlo, però il tuo bicchiere è un po’ macchiato, macchiato
dalle cose che hai pensato e un po’ sbeccato, da quello che non hai fatto, da
quelle cose che sono i tuoi rimorsi, ciò che non è stato. È il tuo bicchiere e
non puoi farci niente, è il contenitore nel quale qualsiasi liquido tu voglia andare
a mettere, dovrai poi farci i conti. In merito al lockdown, dal punto di vista
della sofferenza che c'era in quei momenti e delle perdite anche qui in paese,
è stato drammatico perché era come una fucilazione settimanale, quindi questo è
stato un aspetto che ci ha segnato e in un tempo in cui credevamo tutti, di essere
diventati registi della nostra esistenza, molto supponenti e arroganti in
quanto tecnologici, il dolore ci ha ricordato, invece, una fragilità devastante
per un qualcosa di invisibile e un qualcosa di incomprensibile all'inizio. Dal
punto di vista, invece, della clausura, io devo dire che qui è avvenuto
qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto, sembrava di essere su una nave
famigliare, immersa in un posto bellissimo che era diventato all'esterno un
paradiso, con il lago fermo come uno specchio, un cielo nitido, animali che si
erano rimpossessati del territorio e la vegetazione che la faceva da padrona.
Questo vivere tutti insieme un tempo così lungo ci ha regalato una resistenza
incredibile, perché noi, io, mia moglie e i miei tre figli, eravamo proprio
tutti i giorni a contatto diretto su di una nave, in una lunga crociera. Il
problema era che, se guardavi fuori dalla finestra di casa, vedevi il paradiso,
se accendevi l'altra finestra che era quella della televisione, vedevi
l'inferno… Da un certo punto di vista è stato splendido, il vivere tutti
insieme, magari leggendo libri, giocando, guardando film, riappropriandoci di
un ritmo di vita che avevamo perduto, non avrei però voluto viverlo a quel
prezzo. Però quando l'ho vissuto, sarei stato un'ipocrita se avessi detto che
stavo male. Anche quando abbiamo preso tutti e cinque insieme il Covid, che era
già la variante inglese, stavamo chiusi in casa e guardavamo Sanremo. Non
stavamo particolarmente male, era un'influenza come un'altra e grazie a Dio non
ci ha lasciato segni. Poi sì, è vero che un po’ di strascichi psicologici queste
esperienze le lasciano, perché poi rimani un po’ indebolito da questa cosa. C'è
voluto un po’ per tornare alla normalità, però niente di drammatico e quindi, in
definitiva, l'abbiamo vissuta come dei veri e propri naufraghi ma su una nave
che era ben salda.
Hai detto esattamente. È la canzone
che parla dell'inseguire la canzone che non c'è ancora, come il fotografo che
cerca la foto che non ha ancora scattato, il pittore che vuol dipingere il
ritratto che non ha ancora dipinto. In fondo sei sempre alla ricerca di
qualcosa che non c'è, sennò altrimenti sarebbe tutto finito. La canzone che non
c'è è quella che tutti inseguiamo, la preda che non hai ancora preso, il pesce
più grosso che non hai ancora catturato nelle tue reti. Ecco, il pescatore non
andrebbe mai a pescare se non pensasse di prendere il pesce più grande e poi,
anche se quello pescato fosse gigantesco, ne vorrebbe prendere un altro con
altre caratteristiche…
Shandemé è un crogiuolo
di strumenti anche insoliti come duduk, ney, baÄŸlama, suonati da Andrea
Cusmano, una melodia orientale, un ritornello “Scià’n’de mé Regina Del Tütt,
tègnum per la mànn… / Scià’n’de mé Regina Del Tütt, tègnum per la mànn…” che si
fa mantra. Una preghiera, un’esperienza spirituale. Quanto è importante per te
la spiritualità e quanto la natura è elemento portante della tua spiritualità?
Questa canzone penso che, come mantra,
è rimasta negli archivi veramente per decenni e poi gli ho dato una struttura,
gli ho dato un testo. Ho voluto proprio che ci fossero degli strumenti non
riconducibili a noi, a questa nostra terra. Proprio come queste cose un po’ spirituali,
doveva avere assolutamente un suono distante, etnico, lontano, che sapesse di
viaggi incredibili e tante altre cose. È stata una di quelle cose che abbiamo
potuto fare grazie alla collezione di strumenti di Andrea Cusmano e grazie alla
sua capacità di poterli anche suonare. In merito alla tua domanda sulla spiritualità,
io penso che anche nei momenti in cui sono apparentemente distaccato o poco
spirituale, in realtà sto lavorando sempre alla ricerca di spiritualità, come
un camminatore, come un viaggiatore. Ancora oggi, tutte le volte che ho tempo,
mi trovo a viaggiare con determinate musiche nelle cuffie, salendo verso monti
o verso rive, scendendo santuari, vecchie chiese, vecchi templi. Non è tanto la
“religione” ad attrarmi, anche se ho studiato svariate religioni, anche dal
punto di vista antropologico e devo dire che mi affascinano tutte e tutte
contengono un buon tentativo di cercare di crescere spiritualmente, però, è
proprio la spiritualità, invece, quella cosa che cerco, indipendente da quanto
uno sia un belivero, un credente oppure no È però un viaggio che tu devi
costantemente fare. Se io non avessi questa impronta probabilmente sarei già
disperso. Sarei perduto, sarei sotto un ponte fatto solo di dubbio, invece,
tutte le volte che c'è un'apertura, tutte le volte che c'è uno spiraglio per
cercare di volare un po’ più in alto, ci provo. Questa cosa è fondamentale,
anche questo mio continuo indagare su riti, miti, credenze, leggende. Gli
spiriti li vedo o li percepisco ovunque, ma non i fantasmi con il lenzuolo, proprio
l'idea di geist, l'idea di spirito delle cose, anche un po’ shintoista se
vogliamo, vecchi oggetti, ambienti, vecchie case nelle quali sono accadute
cose. È come se tutto fosse lì, anche nella canzone Manoglia lo dice, anche
lì non c'era più nessuno, c'erano solo gatti, però era tutto popolato da
fantasmi, che erano importantissimi perché c'erano stati e perché avevano
caratterizzato il mio passato, la mia infanzia, il mio essere cresciuto in un
paese del genere, quindi, vedi che custodisco tutto inzuppato della stessa
materia, fatta di natura, spirito e alla fine dei conti uomo.
Zia Nora è
un'allegra nostalgia. Mentre ti sto parlando ho qui una sua foto e la
percepisco dentro di me. È una canzone che io stupidamente tenevo soltanto per
me, la cantavo qualche volta a mia mamma perché era sua zia, sorella di sua
madre. Questa zia Nora che non aveva mai avuto marito, che era rimasta sempre
quella, uno spirito anche un po’ libero, se vogliamo, aveva lavorato in giro
per il mondo, era andata, viaggiato e mi ha e mi ha trasmesso, nelle lunghe
passeggiate, nelle lunghe giornate in casa sua tutte quelle possibilità del
curvare la realtà con la forza della fantasia, oppure ripescando vecchi miti
vecchi, vecchie abitudini, credenze, cose che potrebbero essere scambiate anche
semplicemente per superstizioni, ma che erano travestite più da rito magico e
queste cose si sono depositate pesantemente sul mio fondo e sono sempre rimaste
lì presenti. Probabilmente zia Nora è stata un'iniziatrice di quella latitudine
un po’ sciamanico creativa, che mi permetteva di co-creare un mondo fatto anche
di cose che mi somigliavano molto da dentro. Laddove non mi piaceva o non mi
bastava una cosa, io lì la battezzavo, la facevo diventare altro. L'essere poi
cresciuto in mezzo a boschi, giardini, montagne, acque, terre, sassi e valli, mi
ha permesso di dare un nome alle entità, a vederle sotto forma di qualcosa che
veniva proprio dal mio profondo. Intingevo davvero il pennello dentro la
natura. Un albero, un semplice platano era diventato per me un un'entità di un
certo tipo con la quale dialogare, guardando se stesse bene, se stesse male,
vivendo a contatto non solo con le persone, ma anche cose visibili e invisibili
della natura.
Quel verso finale “mia zia ritornerà”
mi pare però pieno di fiducia. È così?
È il fatto che ritorna nei giorni in
cui magari puoi avere un problema, i suoi tentacoli spirituali non smetteranno
di sostenerti perché lei c'è stata e fortemente è ancora ancorata al tuo
ricordo, così come lo è mio padre, i nonni o altra gente. In questo caso la
canzone è dedicata a lei e come nel caso del Giuvanon, anche lei fa parte di un
qualcosa che non può essere trascurato.
“E anca incöö…e anca incöö…ghè una
strana canzón / scundüüda nel fiöemm / E ghè un föej de fuschiia che incarta la
löena / e un cùlp de campana sempru püssee luntana…” mi sembrano descrivere
perfettamente quella strana canzone che si intitola Ankainkoo, un titolo
che sembra già un miracolo, una canzone che alterna due parti recitate tra loro
diversissime, al ritornello. La prima narra dell’affannarsi quasi senza senso
delle persone dal momento che si alzano a quando vanno a letto, abbandonandosi
al sonno. La seconda narra di un viaggio in un mondo di boschi, funghi, grilli,
salamandre, immerso nella natura, in un sogno profondo, la vita ideale. Com’è
nata questa bellissima e intensa canzone?
Bravo. Questa canzone è stata scritta
perché tutte le mattine e ancora oggi lo faccio per mia figlia quella più
piccola che ha sedici anni, portavo tutti alla mattina presto alle 06:30 a
prendere la corriera giù in paese, quindi, era il momento in cui vedevi tutte
queste persone intabarrate nel buio, alla ricerca della luce, del bar, del
panificio. Qualcuno stava già fumando la prima sigaretta, il primo caffè e tutti
sembravano palombari appena usciti dal sonno e pronti a dover affrontare una
cosa oscura, strana, che era la giornata. Però la prima parte della canzone
sembra quasi uno sforzo per arrivare a sera, come un'arrampicata durante la
giornata per poi riportare a casa tutto quello che è successo e rinfilarsi in
questo mistero del sonno. La seconda, invece, ti fa vedere come uno potrebbe
vivere la giornata nel momento in cui trasforma, co-crea, come dicevo prima. Perché
ci sono anche quelli, invece, che la giornata non gli basta timbrare, timbrare,
timbrare e portare a casa e fare tutte quelle che sono le mansioni solite. C’è
anche colui che guarda oltre il divino stupore, il divino stupore tipico di
quelli che sono coloro che hanno lo sguardo più aperto verso il miracolo che ci
circonda. E allora ecco grilli, ecco salamandre, ecco tutte queste cose. E alla
fine la canzone lo dice, ecco che sul fondo tutto quello che c'è, questo fiume,
è per chi domani ha ancora voglia di ripartire. Che cos'è il più grande dono
che tu puoi avere? È quello di andare a letto, contento di riposare, il meritato
riposo, si spera sempre di dormire un po’ di ore serenamente, però con idea che
domani tu sei pronto per andare. Quando non hai voglia di alzarti al mattino è
l'inizio della depressione, l'inizio dell'ansia. Io li ho provati questi
malesseri e quindi ho dovuto combattere e tutte le volte, l'unico modo per
proteggersi, per venirne fuori era, con l'aiuto della poetica e con l'aiuto
della visione, guardare al di là di tutto quello che è il cemento che ti chiude
dentro, l'abitudine a dover obbedire a determinati ritmi che diventano per te
sempre più incredibili, Il non riconoscere tutto quello che avviene. Se uno si
basa soltanto sul telegiornale, su un giornale, letto anche distrattamente,
tutti gli input che gli arrivano sono tossici, sono velenosi, perché non ci
sono notizie urlate poi così belle. Però se tu chiudi il giornale e guardi
fuori, anche se abiti in un luogo non naturale, non bello come il lago di Como,
puoi vedere comunque dei piccoli miracoli avvenire, il tuo gatto, un fiore che
sta spaccando il cemento, un piccione che arriva in un certo modo, una persona
che ha attraversato tutta una fila di anni e la vedi ancora che sta prendendo
con una certa fierezza il suo autobus con la sua borsetta della spesa, ci sono
tante piccole cose che ti incoraggiano, se le guardi. Certo, se apri il
giornale, da una guerra passi a un'altra guerra, da una strage in famiglia,
passi a un'altra strage in famiglia. Un mondo che si sta dissanguando anche per
colpa nostra, soprattutto per colpa nostra, governi che non funzionano mai bene,
perché poi comunque noi viviamo sempre appoggiati su due piatti di bilancia, no?
Qualunque cosa si voglia guardare, non saremo mai tutti da una parte del piatto
e questo forse è anche un bilanciamento che serve. Anche politicamente, non
saranno mai tutti a destra, non saranno mai tutti a sinistra. Calcisticamente
non saranno mai tutti dell'Inter, mai tutti del Milan, altrimenti finirebbe il
senso del campionato. Non saranno mai tutti credenti, non saranno mai tutti
atei. Vedi che è sempre tutto bipolare? Tutto si divide almeno in due parti.
Qualcuno è per la natura, qualcuno non ne vuol sapere. Qualcuno vive ancora per
la compagnia, il mangiare, il bere, il sociale, qualcuno per l'isolamento per
cui siamo proprio divisi e questa cosa qui probabilmente è anche la grande
bilancia che ci permette di non di non cappottare. Poi oggi c'è anche il
bastian contrario per partito preso, perché dire che una cosa è semplicemente
bella e accontentarsi di ciò che ci sta arrivando, sembra quasi qualcosa di
scontato e allora bisogna trovare subito il veleno, bisogna trovare subito il
complotto dietro.
A frequentare i social, poi, emerge
solo questo.
Ma i social mi stanno veramente
amareggiando ogni giorno di più. A parte le fake news urlate su tutti i nostri
colleghi dello spettacolo, sembra veramente un mattatoio mediatico solo per
farti cliccare, per farti aprire e per vedere poi una fila di cose che non
dicono niente, piene di pubblicità. Però anche come la gente interagisce. Io
credo che i social, che dovevano servire per unire le persone, per far
ritrovare le persone, sono diventate invece delle piattaforme per duelli di scorpioni
da tastiera. Forse qualche piattaforma è ancora abbastanza libera da questo, ma
altre sono diventate addirittura infrequentabili perché poi sono anche degli obitori
dove, purtroppo, più amici hai e più vedi notizie di persone che vengono a
mancare, anniversari continui e quindi non c'è più il bello di trovarsi, di condividere
una cosa. Io credo che non ci sia niente di male se uno fotografa la
pastasciutta e la vuol far vedere ai suoi trenta amici “quest'oggi un bel
piatto di pasta” e tutti gli dicono “Ah buon appetito!”. È una gran cazzata, però
può far piacere, può far compagnia. Se però uno nella pastasciutta, mette
dentro un po’ di carne, allora ecco che arrivano subito anche i vegani, i
vegetariani o quelli che ti scrivono “Che schifo mangi i cadaveri” e allora
entra quello che scrive “merde, io mangio quello che voglio” e diventa subito
guerra per una cosa stupida. Se tu scrivi “Buongiorno” ti dicono “Buongiorno un
cazzo. Oggi ho già litigato all'assemblea condominiale”, quindi non va più bene
niente e lo sappiamo, è un mondo difficile. Allora lì si capisce la canzone Forsi
per chi ha voglia di svincolarsi da tutto questo.
È la storia di tutte quelle persone
che ho conosciuto che, pur avendo avuto un'infanzia magari dura, hanno fatto in
modo di usare tutte le loro forze che avevano in serbo per poter far sì che ad
altri non accadesse la stessa cosa. Qualche volta erano anche medici,
psicologi, qualche volta erano semplicemente persone, operai dell'anima o
persone ben disposte nei confronti dell'aiuto a chi, magari, non aveva neanche
il coraggio di chiederlo. Quelle persone che ti trasmettono forza, una serenità,
una possibilità, quelle che ti salvano anche un po’ la giornata, i riparatori
di un destino. Ho visto gente distogliere persone che erano sulla brutta strada
benché loro venissero da strade ancora più brutte, per convincendole che quella
non era assolutamente la via da seguire, che quella non era assolutamente la
cosa da fare. I meccanici sono stati tanti, io ne ho conosciuti, qualche volta
probabilmente lo sono stato anch'io…
Indubbiamente, anche attraverso le tue
canzoni, i tuoi racconti, le tue poesie, no?
Ecco, io magari non me ne sono reso
conto… C’è un film bellissimo ambientato nel deserto sudamericano, si chiama El
Cristo siego, Il Cristo cieco, è un film dove questo ragazzino che
ha avuto delle visioni mistiche da bambino, sa che un suo amico ha avuto un
problema ad una gamba e non può più lavorare e lui decide di attraversare a
piedi nudi il deserto, lui si sente quasi santo, attraversa il deserto e
durante questo viaggio accadono tante cose. E lui senza rendersi conto solo con
quel viaggio lì, solo incontrando le persone, ha già dato in giro speranze,
cose, situazioni, ma lui ha in mente solo di guarire il suo amico. Andrà da
lui, imporrà le mani, non riuscirà a guarirlo. Torna indietro incazzato e
deluso ed è convinto di non essere niente, di non essere santo e, invece, si
rende conto che sulla strada di ritorno c'è tanta gente che già parla di un
nuovo Cristo che è andato in giro, ha fatto miracoli, ha fatto star bene le
persone e lui si rende conto che ha fatto tutto senza rendersene conto. Ecco, a
volte noi siamo meccanici inconsapevoli, crediamo di non valer niente, di non
essere niente, andiamo in cerca di qualcosa di esaltante da fare per poter fare
qualcosa di buono e, invece, lo stiamo già facendo proprio nelle piccole cose,
ma non ce ne rendiamo conto. Ecco, El Mekanik è proprio una canzone che
poi ha avuto dei suoni psichedelici tali che mi hanno convinto a metterlo
nell'album ed è anche una delle più insolite, ma anche una delle più efficaci
dal punto di vista forse della sua diversità. Proprio perché si parla di un
meccanico che deve entrare negli ingranaggi mi piacevano questi suoni tipici
anche della musica un po’ psichedelica, un po’ progressive, che cambia, e anche
lì vedi che poi alla fine dici ascolto i grilli e loro non smettono mai di trafiggere
il buio, non smettono mai di continuare a mandarti un messaggio e allora il
meccanico è come uno di questi grilli che non smette mai, facendo quello che fa
con il suo transito. Del resto, continua a portare in giro qualcosa che a
questo mondo sempre di più serve, il capire dove c’è il male, spostare la gente
da lì e cercare di rimpastarla. Quanta gente ha spostato dalla droga pur
essendo stata drogata magari o in un ambiente pieno di droga. Ecco, pensiamo,
pensiamo al famoso film Taxi Driver. Questo pazzo, questo Travis che arriva a
casa dal Vietnam, non si trova, è un disadattato, è uno psicosociale, non
riesce ad avere una vita normale e finisce per salvare una giovane prostituta
da un ambiente pazzesco e distruttivo, mettendo quasi a repentaglio la sua
stessa vita. Anche lui è un Cristo cieco. E tante figure come queste.
Mi viene in mente anche Gran Torino.
Gran Torino,
sicuramente, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo. Un pazzo come
McMurphy entra dentro in una in un contenitore di pazzi e fa capire che così
pazzi loro non sono, sono vittime di un sistema che li sta schiacciando. E lui
invece, pur venendo poi annichilito, l'indiano che scappa alla fine è come se
portasse avanti il suo nome e la sua vittoria e questa è una speranza nel
guardare che c'è gente che vola più alto. Quindi adesso noi abbiamo scomodato
la storia del cinema, però queste canzoni sono fatte di poco, ma sono profonde
che ti possono fare entra nel tanto. Il disco è lieve ma ti porta tante
briciole.
Ogni tuo disco si chiude sempre con
una canzone dedicata al vento, qui troviamo Foglie al vento, una sorta
di invocazione a quattro foglie diverse: castagno, salice, sambuco e noce. Una
canzone che ad un certo punto si trasforma, attraverso la ripetizione di nomi
di alberi, in una specie di mantra su un tappeto di musica ambient. Tradizione
rispettata ma con un’apertura, dal punto di vista musicale, verso suoni più
internazionali. Un po’ come tutto il disco, non credi?
Questa è stata una grande trovata di
Alessandro Gioia. Doveva essere semplicemente la parte due della Preghiera
delle quattro foglie, queste erano quattro altre foglie, sempre nate nel
bosco e via dicendo. In questo caso però, cosa è successo? È successo che il
disco quando arriva sul punto di finire non finisce ed è come se non finisse
mai, perché con questa apertura giustamente ambient, che è una musica che io
ascolto tantissimo, ha cominciato a creare un'apertura, è come una sigla finale
per cui l’ascoltatore non ha la fine di un disco classico, ma un mantra sonico
che va… Dobbiamo ringraziare Alessandro Gioia che ha lavorato su tantissimi ai
miei dischi del passato. Alessandro ci ha detto “Adesso mettetevi lì e suonate
liberamente degli accordi strani di chitarra, un po’ di violino, aloni e,
rivolgendosi a me, ha “recitami queste parole di questi nomi di pianta” e
dentro tutto questo ha cominciato a muoversi il tutto e sembrava di vederle
proprio volare via queste foglie nel vento ed era il finale che uno poteva
sognare per un disco del genere.
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