In una di queste sere di
quarantena trascorse sul web, mi è capitato di imbattermi in un breve ma
folgorante live Facebook di Francesca Romana Perrotta, tenuto dalla cantautrice
salentina per "ECO DI DONNA Evolution", la prima Rassegna di Musica
d'Autrice made in Rimini, con la Direzione Artistica di Chiara Raggi. Sono
rimasto colpito sia da un inedito che, seppure eseguito in maniera casalinga
alla tastiera, credo abbia notevoli chance una volta vestito ed arrangiato, sia
per la sua interpretazione accorata “Bella ciao” a chiusura della diretta. Per
questo ho voluto contattarla e scambiare qualche chiacchiera su questo strano
periodo che ci accomuna tutti.
Durante questa lunga
quarantena, di cui sembra sempre più difficile vederne la fine, tra i vari
addetti al mondo della alla musica ci sono state reazioni molto differenti, c'è
chi non se l'è sentita di cantare e suonare perché afflitto da questa tragedia,
chi da subito ha reagito organizzando live attraverso i social, chi per scelta
non ha voluto fare nulla attraverso i social in attesa di tempi migliori, tu
come hai reagito? Come hai vissuto questo primo periodo di forzata clausura?
All'inizio della quarantena ero quasi felice di poter stare a casa. Ho
pensato che avrei finalmente potuto scrivere in pace, senza farlo nei ritagli
di tempo. Poi il silenzio mi è entrato dentro e non avevo note, non avevo
parole... per un mese e più. Dopodiché sono arrivate delle proposte di suonare
in diretta, dei piccoli live su Facebook, per i fans. Mi son sentita un po' in
imbarazzo... strano per me suonare senza i miei musicisti!!! Una volta
iniziato, però, ho visto che mi stavano ascoltando un sacco di persone,
emozionate e felici di potermi riascoltare.Per me è stato puro ossigeno... Mi sono rigenerata. Da quel primo live
ho ripreso a scrivere, ne ho fatto un altro e ho capito che non mi sento di
fermarmi. Farò musica, comunque, in qualche modo.
È proprio grazie all'ultimo
tuo live sul profilo Facebook di Eco di donna, che ho avuto modo di ascoltare
un tuo inedito, eseguito da te alla tastiera, un pezzo molto intenso, di quelli
che ti entrano dentro sin dal primo ascolto. Quando e come è nato?
L' idea di questo brano, dal titolo Dentro
un bar, è nata l'estate scorsa... tra letture su mare, marinai, il mio
mondo salentino e persone profondamente legate al mare... un bar, all'incrocio
di due oceani.Che gente può
frequentarlo un luogo così?... cosa sta accadendo una notte, durante una
tempesta... in questo bar dall' aria felliniana? Sta accadendo qualcosa di
speciale: c' è un uomo, seduto al bancone che beve rum e tequila.È lì da tempo immemore, immerso in una
dimensione spaziotemporale indefinita... Lui aspetta. Aspetta il momento in cui
Lei tornerà, e quel momento è arrivato. Lui lo sa, ma resta immobile, non si
volta indietro, anche se sa che Lei sta entrando in quel preciso istante... Lei
sta entrando, lo vede. Anche Lei sa che Lui è assolutamente consapevole della
sua presenza.Lei respira profondamente,
sa che nel momento in cui Lui si girerà, non potrà evitare ciò che deve
accadere, da sempre.Sa che cadrà ancora
una volta tra le sue braccia... CHI SONO QUESTI DUE PERSONAGGI? Pensate ad una
Penelope odierna...un Ulisse contemporaneo... si aspettano da sempre...ma
questa volta Lei va direttamente da Lui, a cercarlo nel suo mondo. Una Penelope
non più immobile, quindi. E questa volta è Lui che immobile in quel bar, la
aspetta da tempo immemore... sapendo che prima o poi Lei arriverà.
Hai citato Penelope e,
spesso, nelle tue canzoni ti sei ispirata a personaggi femminili del passato,
penso a Salomè e al bellissimo video che
hai realizzato, ma anche a Giovanna la
pazza. Ma non solo femminili, penso a "Paolo" che adoro, ispirata
al V Canto dell’Inferno di Dante, anche se Paolo,
in fondo, parla di Francesca... Non credo sia uno sfuggire il presente, ma
piuttosto il leggerlo attraverso le esperienze del passato. È così?
Sì, uso storie passate, di donne principalmente, per spiegare che purtroppo
alcune dinamiche che ruotano attorno alla vita delle donne, sono sempre le
stesse. Nonostante l'evoluzione, le leggi, le rivoluzioni ed i diritti
ottenuti... Nel quotidiano, ci sono storie che si ripetono.Nei secoli dei secoli... in giro per il
mondo. Sì, Paolo parla di Francesca
da Rimini.Anzi. Nel brano è proprio
Francesca che parla a lui...in una preghiera disperata dall'Inferno dantesco.
E sempre al centro di tutto
c'è ancora la donna di Il grido, il
brano che ti ha permesso nel 2016 di vincere il premio "Migliore
testo" al Musicultura, anche qui una storia che purtroppo si ripete...
Sì, ne Il Grido la storia si
ripete, questa volta in modo più sottile, intangibilema non per questo meno doloroso... e non ho
remore nel dire che si tratta, purtroppo, di una storia autobiografica. Questo
a dimostrazione che tutte le donne, anche chi come me lotta da sempre per
difendere la dignità ed il rispetto del mio sesso, possono ritrovarsi in
situazioni di sofferenza.
Questa tua affermazione mi
offre lo spunto per chiederti come hai vissuto, come donna, questa lunga
quarantena. Te lo chiedo perché ho come l'impressione che anche in questa
occasione a soffrirne maggiormente siano comunque le donne, sia durante la
prima fase, sia durante la seconda, dove per chi è tornata a lavorare si è trovata
sulle proprie spalle tutta la famiglia, con un vuoto delle istituzioni. O è una
mia impressione?
Io sono mamma e insegnante... quindi impegnata a 360 gradi durante la
pandemia.Difficile badare ai compiti e
alla didattica online sia mia sia di una bambina delle elementari!! Spiegare
ogni giorno che non si può uscire, né vedere gli amici, né andare a danza, etc.
Un equilibrio precario ogni giorno tra apparecchi tecnologici e il bisogno di
aria, movimento, decompressione... e poi la musica, l'assenza dai palchi, la
lontananza dai miei musicisti, le sale prove vuote... Molto sulle mie spalle, tanto...
a volte troppo. Ma inevitabile.Una
presa di coscienza e di responsabilità che faranno di questa nuova generazione
forse qualcosa di meglio della nostra. Questi bambini stanno vivendo
un'esperienza difficilissima che li forgerà, li abituerà al sacrificio e credo
che questo sia un elemento necessario per diventare dei bravi adulti.Forse a noi questo è mancato ed è per questa
ragione che siamo un po' più fragili.Tutto ciò per dire che sto pensando anche ad un risvolto positivo di
questa situazione anomala e opprimente.
Tra i risvolti positivi di
questa strana situazione c'è forse anche qualcosa che riguardi il tuo futuro
dal punto di vista musicale? Nuovi progetti o nuove ispirazioni?
Sto pensando al mio nuovo album da tempo... sembra che questa volta abbia
idee più varie... e in questo periodo di "fermo" ho capito che è
giusto fare solo ciò che mi sento. Se sarà un album meno omogeneo non me ne
preoccupo, sarà vario... e sicuramente sincerovero. La lunga quarantena mi ha fatto capire che conta solo ciò che è
vero.
Trovo molto condivisibile
quest'ultima tua riflessione, vorrei chiudere con questa domanda: alla luce di
questa dura esperienza che ha coinvolto tutti, c'è qualcosa nel tuo passato che
vorresti cancellare? Ma soprattutto c'è nel tuo futuro qualcuno che ammiri
particolarmente e con cui vorresti magari collaborare?
Cancellerei molte cose, soprattutto le situazioni troppo difficili e
dolorose in cui mi sono infilata senza che ne valesse la pena, infierendo alla
fine, su me stessa. Nel mio futuro vorrei solo scrivere belle canzoni sia sola
che ben accompagnata. Ultimamente ho collaborato con Simone Cristicchi nella
reinterpretazione di Ritornerai di
Lauzi. Ecco... lui sarebbe un bel compagno artistico.
Rodolfo Giovanni Marra, noto
come Rudy Marra, originario di Galatina, è stato sin dai suoi esordi
discografici nel lontano 1986 con “Telefonami/Prima o poi me la paghi”, un
cantautore originale e fuori dagli schemi. In quasi trentacinque anni di
attività artistica ha all’attivo cinque album, forse pochi, ma mai banali, in
cui sicuramente non ha mai voluto rifare sé stesso e nel quale non mai avuto
paura di dire la propria su tutto e tutti. Tra questi album poi, delle opere
letterarie altrettanto interessanti. Proprio in questi giorni di forzata
clausura mi è balzato poi all’occhio un suo post intitolato “Salvate il soldato
musica!”. Da qui il desiderio di scambiare quattro chiacchiere con lui.
Direi di partire, come
d’accordo, da questa situazione anomala, da questa infinita quarantena
impostaci dalle istituzioni. Tra gli artisti c'è chi ha deciso di reagire con
dirette Facebook, live virtuali, chi con aperitivi e cantate dai balconi e chi,
invece, non ha più voluto cantare o, perché addolorato, o per protesta,
ritenendosi dimenticato da questo stato. In mezzo ai due estremi una lunga
serie di sfaccettature. Tu come ti poni, quale è stata la tua reazione?
Crocodile rock, sarebbe il pezzo giusto per questa
situazione. Insopportabili i piagnistei degli artisti dimenticati dalle
Istituzioni. Fino a ieri dove eravate? Qui mi riferisco soprattutto a quelli
che contano, agli "Dei del microfono", insomma quelli che riempiono
teatri, palasport, Stadi. La loro potenza mediatica e "contrattuale"
li avrebbe dovuti portare già da tempo a fare brutto muso ai politicanti di
turno per richiedere garanzie, assistenza, albo professionale, previdenza e
quant'altro! E invece, il più delle volte, di riffa o di raffa, con i
governanti e i loro derivati (gruppi economici, banche, giornali, tv, radio,
multinazionali discografiche...) i suddetti Dei microfonati avevano di che
spartire e quindi silenziosamente accondiscendenti. Gli altri, i canterini dei
club, delle date sottocosto, dei ricattati da "quanta gente mi
porti?" possono fare poco, anzi niente per essere onesti, se non far finta
di avere uno spirito di corporazione mai esistito e così approfittare della
situazione per avere il pretesto di mostrarsi e farsi sentire in qualche
performance video musicale, nella maggior parte dei casi di scarsa qualità e
gusto. Il silenzio è impossibile, è una finta presa di posizione alternativa,
se tu non suoni ci sarà qualcun altro disposto a farlo, senza contare tutti i
canali dove la musica non puoi fermarla. Per quel che riguarda i balconi è un
discorso ancora più ampio, si toccano situazioni sociali e addirittura
antropologiche, come il fare gruppo per paura di essere soli, associarsi per
solo interesse davanti alla fiera malefica, alla bestia feroce... Va da sé che
tutto ciò non ha nulla a che fare con la musica, una situazione spinta dai
media e probabilmente da chi ha interesse a tenere compatta la popolazione in
un momento di disgregazione, letale per chi gestisce il potere, facendo leva
sui sentimenti e in particolare la paura! A me personalmente fanno cagare (se
si può dire se no trova tu un sinonimo) tutti i "canti" di massa, che
siano Volare, Bella ciao, Il cielo è sempre
più blu oppure 'O sole mio ... Io
non mi sono neanche posto il problema di che fare in questa situazione, ho
sempre fatto quello che mi andava di fare, se ho voglia di suonare e cantare lo
faccio, se mi va di stare in silenzio metto in mute, senza dover dar conto a
nessuno. Potrei chiudere la risposta col verso di una mia canzone mai uscita su
un disco ufficiale che però è parte di un bootleg live registrazione di un tour
veramente underground del 2011 in cui cantavo "Si fa presto, si fa presto
a farsi fottere!".
Direi che la tua conclusione
non fa una piega. Hai citato un bootleg di un tour underground del 2011. So che
ti sei sempre mosso per sentieri alternativi, spesso impervi, ma credo anche
ricchi di soddisfazioni. Gli anni trascorsi dal tuo ultimo disco ufficiale
"Sono un genio ma non lo dimostro" sono ormai tanti. È una strada che
non vuoi più percorrere o, invece, qualcosa bolle in pentola?
Dopo l'uscita di Sono un genio ma non
lo dimostro (Alabianca/Warner 2007) e un paio di anni di live per
promuoverlo, la mia strada musicale ha preso una direzione inaspettata anche
per me e, se vogliamo, in un certo senso incredibile. Ad un certo punto mi sono
accorto che non ne potevo più della musica che mi circondava, la mia e quella
degli altri del panorama italiano e spesso anche internazionale, non solo da un
punto di vista tecnico musicale, ma anche proprio concettualmente. Sinceramente
non sopportavo neanche tutto il contorno della musica nostrana, radio,
giornalisti, musicologi, festival e premi d'autore, tradizione cantautorale
vecchia, finto rock travestito da alternativa e tutta una serie di cose per me
insopportabili, come paragoni, riferimenti costanti al testo poetico e meno
poetico, accuse di non avere come altri una linea musicale ben individuabile,
come dire che non facevo sempre la stessa canzone rigirata a mo’ di frittata,
insomma, per auto citarmi, non ero mai stato "né pop, né rock, né
jazz...". Cancellare tutto a parole è facile, in pratica è cosa
complicata. Così sono partito da quello che mi pareva più naturale facendo
musica, cioè sentire suoni diversi, magari utilizzare strumenti non usuali, non
convenzionali. Deciso che la cornamusa era troppo difficile da imparare in
breve tempo e che di elettroniche sofisticate capisco zero, mi sembrò più che
naturale rivolgermi agli strumenti a corda che da sempre suono.Una specie di tabula rasa della musica
moderna mi ha portato a ricercare nel mondo primordiale, una indagine di suoni
primitivi, in terre africane, in popolazioni non gravate da architetture armoniche
e melodiche di cultura occidentale, ritmo e vibrazioni per stringere, suoni
viscerali. Le corde di budello animale, le percussioni, il suono profondo di
corni e di casse toraciche con emissioni basse baritonali, un mondo magico,
psichedelico, rotolante "rock", l'origine di tutto alla fine, del
blues e quindi di tutti i generi che poi si sono succeduti, tutto partiva da
lì. Così smontai prima le due corde più sottili della mia chitarra, poi anche
la terza corda (il sol) e cominciai a suonare come un misto di chitarra e
basso.... Vado più in fretta che posso; cominciai a creare, grazie ad un amico
liutaio, uno strumento elettrico a 3 corde che chiamai bassarra (ora sono
arrivato ad un basso a due corde) con l'uso dello slide. Non solo il suono ora
era diverso, ma cambiava proprio il concetto di fare musica, suonavo bi-corde,
potevo accordare in maniera diversa per creare armonizzazioni e via dicendo. In
questa maniera non aveva senso continuare a pensare alla canzone così come
avevo fatto fino a quel momento, quando suoni ritmico, quasi percussivo, non
puoi più permetterti di non esserlo anche con le parole, anzi con i suoni che
emetti e non avere le corde sottili ti impedisce di fare melodia intesa come i
soli, accenti vari e a tutto questo devi sopperire con la bocca e quindi anche
con quello che dici. Lo so che forse non è di facile comprensione ai non
addetti e forse è anche complicato da sentire la differenza, ma è un mondo
totalmente diverso. Non me ne fregava più nulla delle parole, anzi le parole
erano pesi superflui, ostacoli alla musica, questo non vuol dire che i concetti
non erano forti come e più di prima, solo che cominciavo a superare il birignao
retorico e stantio della canzone d'autore italiana. Da lì è stato tutto un crescendo
fino a un episodio un po’ magico. Chiamai un amico e musicista che già aveva
giocato con me, un trombonista, e gli spiegai che avevo voglia di mettere su
una band con queste caratteristiche per fare un genere alternativo, con suoni
ipnotici, cupi, ma ritmico, con vibrazioni ed energia, mi pareva che una
chitarra a tre corde un trombone e una batteria fossero l'ideale. Da grande
jazzista, ma anche da sperimentatore accettò volentieri e con un batterista
cominciammo a provare e nacquero Rudy Marra & the M.o.b. (Member's of band)
e fu lì che successe la magia. Un giorno Simone (Simone Pederzoli trombone ndr)
durante alcune prove mi nominò una band che in qualche modo aveva un percorso
simile a quello che stavamo facendo, si trattava dei Morphine, band cult
americana degli anni '90, un alternative rock proprio da loro definito low
rock. Io, sinceramente, non li conoscevo o forse avevo sentito qualcosa di
passaggio, quindi andai a ricercare nella rete. Sconvolgimento totale, mi
sembrava di vedere e sentire, in un certo senso, il mio sogno, i miei pensieri
musicali, concretizzarsi, diventare reali, fattivi. Non conoscevo la storia del
leader bassista (a due corde!) Mark Sandman e scoprire che era scomparso nel
1999 proprio in un tour in Italia mi prese ancora di più. In breve cercai il
contatto dell'altro carismatico fondatore della band, il sax baritono Dana
Colley e sarebbe troppo lungo raccontarlo ora, ma alla fine, nell'estate 2011,
da Boston lui si unì a noi in Italia per una collaborazione musicale e direi
spirituale che da quel momento mi ha preso totalmente. Lo so che è lunga la
storia, ma non potevo spiegare altrimenti come poi, qualche anno dopo, siamo
andati a finire in uno studio di registrazione di Roma, il Diapason, il cui
sound engineer Simone Satta ha voluto diventare il produttore del progetto di
Rudy Marra & the M.o.b. feat Dana Colley che dopo due anni e passa di
registrazioni è pronto e caldo. Il problema è ora come, con chi, quando uscire,
vista la situazione di decomposizione cadaverica della discografia italica.
C'era una bozza di idea di uscita per il 1° maggio, ma come sai tutto è saltato
per pandemia. Posso solo anticipare che si tratta di un concept album di 16
tracce dal titolo Morfina, un viaggio
nel bisogno umano di trovare rimedi efficaci per i nostri dolori, fisici e
dell’anima, senza correre il rischio di diventare dipendenti da qualcuno o
qualcosa, insomma niente di stupefacente, pur essendo un disco assolutamente
stupefacente! Musicalmente la vecchia strada musicale è per me superata,
d'altronde se si vanno a sentire attentamente i miei dischi precedenti non era
affatto una strada precisa, mi ha sempre annoiato rifare le stesse cose, con
stessi schemi fissi, non amo neanche nella vita normale essere catalogato e
schedato. Certo capisco, da tante dimostrazioni di affetto che ricevo, che quel
mio passato è incancellabile, ed è giusto che sia così anche solo per i
grandissimi musicisti che hanno lavorato e hanno collaborato con me nei miei lavori,
per questo, oltre al nuovo disco, ho deciso di fare qualcosa per accontentare
chi è ancorato al mio passato, però l'ho fatto scrivendo un recital dove ci
saranno alcune di quelle vecchie canzoni, un attore sul palco e forse io farò
da colonna sonora dal vivo. Anche in questo caso doveva concretizzarsi il tutto
questa estate con qualche giro di prova, poi sappiamo il guaio successo...
Aspettiamo fiduciosi... il titolo del recital? Ridi Rudy che se non ridi ti rodi che mi pare giusto per il
momento.
Una storia fantastica direi,
da farci un documentario, aspetterò fiducioso. Ma la tua attività letteraria,
invece, rimarrà un episodio unico il tuo romanzo L'utente potrebbe avere il terminale spento? Perché credo che tu di
cose da dire ne abbia parecchie, magari non gradite a tanti, ma sempre
originali e contro mano, no?
Intanto ti/vi faccio sapere che i romanzi sono già 2, nel 2015 è uscito per
Zona ed. "Le facce" un romanzo, meglio un racconto breve, che parla
di incomunicabilità, con i suoi vari risvolti. In cassetto ho già pronto altro
materiale letterario, ma, come per i dischi, anche nell'editoria finché non sei
nel giro che conta è meglio aspettare il momento opportuno, per poterti almeno
gestire da solo una promozione che sia un minimo degna, almeno farlo sapere ad
una ristretta cerchia di amici, conoscenti, magari fare avere il librobrevi manu a quelli che vengono a sentirti
suonare, insomma non è un caso che anche tu non sapessi della mia seconda
pubblicazione (suppongo sia ancora in vendita in rete). Aggiungo solo che il
disco praticamente ultimato di cui ti ho accennato prima, "Morfina",
ha molto a che vedere con le pagine scritte, non a caso il titolo ha vari
riferimenti, un po’ gioca con la partecipazione di Dana Colley dei
Morphine,ovviamente il tema trattato,
cioè, come ripeto, il tentativo vano di trovare rimedi istantanei al nostro mal
di vivere, così come ci potrebbero illudere le droghe e, infine, anche, forse
soprattutto, perché è un richiamo a Morfina,
un racconto di Michail Bulgakov e, proprio come in quello, ogni canzone che
compone l'album è presentata da un breve scritto, come fossero appunti
giornalieri di un diario personale tenuto nell'arco di un anno intero, un anno
in cui il protagonista lotta con il suo male, i suoi ricordi, la ricerca di una
felicità risolutiva, un cadere e rialzarsi continuo, fino alla morte, al suo
stesso funerale a cui partecipa serenamente come se tutto il percorso doloroso
non fosse stato altro che paura di quell'evento finale, il paradosso base della
nostra sofferenza umana, quello di nascere solo per morire. Però il diario
racconta anche che la vita non è una linea retta, un punto A che arriva a un
punto B finale, ma un cerchio che magicamente ricomincia, senza soluzione di
continuità. Come vedi non so neanche io se ho fatto un disco di canzoni oppure
un libro che suona.
Credo che non abbia alcuna
importanza etichettare ciò che si produce, il voler poi incasellare un artista
è, in fondo, il mal celato tentativo di toglierli libertà. In tutto questo lungo
percorso che, proprio perché fuori da ogni logica di mercato e lontano anche
dalla cosiddetta musica indipendente, sembrerebbe vederti isolato da tutto e da
tutti, in realtà ci sono state collaborazioni musicali con altri artisti, penso
a Tosca, a Cristiano De André, Giusy Ferreri, Paolo Belli. C'è qualcuno nel
panorama italiano con cui vorresti, invece, collaborare all'interno di un tuo
progetto discografico? Un po' come avvenuto con Dana Colley?
La risposta è semplicissima, Eugenio Finardi, il pezzo è già pronto, è il
rifacimento, anzi uno stravolgimento di un suo classico, anche questo farebbe
parte del nuovo progetto, il contatto c'è già positivamente stato, ma
ovviamente finché non si concretizza discograficamente non posso coinvolgerlo
più di tanto.
Mi piacerebbe concludere questa
chiacchierata con uno sguardo al futuro, non tanto del mondo discografico che,
forse è già morto e sepolto, però sentiti libero di dire la tua sul suo stato
di salute, ma soprattutto su quello di Rudy Marra artista a tutto tondo. Mi
sembra che di carne al fuoco ce ne sia parecchia, come vedi la tua fase 3?
Parto immediatamente dal fatto che ti ho fatto sapere di miei progetti
discografici, letterari, teatrali quando ancora nulla è sicuro, magari nessuno
sarà interessato a pubblicarli o a farli andare in scena, cosa che qualche anno
fa non avrei mai fatto nemmeno sotto tortura, almeno fino a quando non fossi
stato sicuro di date, uscite con tanto di firme e controfirme contrattuali,
questo proprio perché è saltato tutto, ormai ci sono praticamente solo
autoproduzioni svincolate da qualsiasi contatto con il mercato, perché il
mercato non esiste più o, quanto meno, si è ridotto a gestione di
"personaggi televisivi" che hanno scadenze annuali, quei pochi (o
molti, a secondo dei punti di vista) che galleggiano nelle major, parlo dei
partecipanti ai Talent, quelli che fanno Sanremo nell’anno in corso, vecchi
leoni nelle riserve di programmi tv Rai e super big prima dell'ennesimo tour
estivo nelle arene, Stadi etc. Poi c'è tutto un sottobosco di cosiddette etichette
indipendenti che sfornano artisti a ripetizione, con lo stampino e con un nome
strano,replica della replica della
replica dei De Gregori, De Andrè, Rino Gaetano (ovviamente, per dati di fatto,
replica del peggio), fino al fenomeno rap / trap con le sue varie accezioni, un
elenco di nomi inutili che vanno ad ingrossare il panorama già troppo saturo.
Nulla contro nessuno di questi generi, né contro alcuno di questi artisti,
ricordo sempre che quelli della mia generazione di tendenza rock “schifavano” a
prescindere la “musica da discoteca”, poi negli anni ci siamo accorti che
dentro quella marmellata c’erano anche cose fortissime, The Chic, Earth Wind
& Fire, Kool & the Gang… il problema sta nella testa di questo sistema
marcio, di quelli che sono a capo, direttori artistici, manager, impresari che
per incapacità o per esigenze di semplice fatturato imposto hanno stravolto il
mondo musica portandola da dimensione prettamente artistica a dimensione
“ufficio di collocamento per lavori alternativi” e accordi economici con gruppi
editoriali extra-musicali. La mia fase 3, come per tutti, dipende purtroppo da
questa situazione anomala: gli spazi nella discografia sono ristretti, anzi
stitici, risicati i modi per promuovere un progetto, relegati per lo più alla
rete e a circuiti digitali che hanno imbastardito l’educazione musicale, si
tratta per lo più di vendere immagine, video da cliccare, insomma tutto è
delegato alla capacità mediatica, a essere parte attiva dei mass-media, che poi
vuol dire essere massa, ossia carne tritata, poltiglia da consumare. Resterebbe
il circuito live, naturalmente club, associazioni culturali, qualche illuminato
gestore di eventi e festival, ma, anche qui, ancora prima del Covid-19, la
situazione era già disastrata, sempre più legata alle esigenze degli oberati
conduttori, incassi, vendite delle bibite e dei panini e, quindi, spesso
diretta e guidata dalla precedente esposizione mediatica, il cane che si morde
la coda insomma. Bisogna essere chiari, il modo di fruire della musica, un po’
per tutto quello appena detto, ma anche per altro, è cambiato radicalmente: di
questi artisti che hanno milioni di click in rete i loro fan conoscono a
memoria la canzone, conoscono bene il look, gli argomenti che tratta, e basta.
Chi ha suonato la chitarra nel suo disco? E la batteria? Ma c’è una batteria
vera in quel disco? E la chitarra che sembra una chitarra è una chitarra
davvero? Ma c’è qualcuno che suona ancora un qualsiasi strumento in questi
dischi? Una volta non era così, la musica non era solo una canzone da sentire,
era una storia da vivere, si viveva anche quello che accadeva dietro il
proscenio, il sudore del batterista sui tamburi, le evoluzioni del chitarrista,
bassista, pianista, chi era il produttore, la casa discografica etc. E si conoscevano
le vite dietro quel prodotto, il sangue, compreso i vizi e le droghe usate.
L’mp3 e la digitalizzazione hanno omologato la musica, tutto suona uguale, più
o meno, questa compressione audio serve ai grandi gruppi (Apple, Windows…) a
mettere infinite quantità di materiale nei loro dispositivi lanciati sul
mercato (pc, smartphone, ipod…), quantità non qualità! Le radio devono suonare
musica che abbia bit e bassi adatti agli impianti di ricezione. La musica si
dice è diventata più democratica, tutti possono fare in casa un disco, un video
clip e sbatterlo in rete e sperare nella buona stella, nel colpo di fortuna e
lavorare per costruirselo. Si sa, il potere al popolo, la demo crazia, è sempre
stato un inganno organizzato da pochi, dai tempi delle Polis ateniesi,
basterebbe leggere La Repubblica di
Platone e arrivare alla Fattoria degli
animali di Orwell.Io non ho mai
pensato di fare musica per lavoro, a dire il vero ho perso tante occasioni
perché non mi è mai andato molto di essere costretto per forza ad andare in
giro a cantare, ho sempre fatto dischi o libri e sono andato a promuoverli da
solo quando avevo voglia di dire la mia, di dire ad altri come vedevo il mondo
in quel preciso momento. Questo è quello che continuo a fare, se e quando
usciranno per il pubblico i miei nuovi progetti sarà mia premura cercare di
farlo sapere a più persone possibili, nonostante gli ostacoli mediatici
suddetti e, come sempre, chi già mi segue mi ritroverà, qualcuno che non mi
conosceva mi conoscerà e a chi non interesso continuerà a non sapere della mia
esistenza, almeno per il momento, perché la musica, digitalizzazione o non
digitalizzazione, incapacità dei discografici o meno, a volte è talmente magica
che arriva da sola dove le pare. L’unica cosa che sinceramente mi auguro è la
possibilità di tornare a suonare in giro insieme ad altri musicisti compagni
d’avventura, perché col tempo mi è venuta voglia di salire sui palchi, grandi o
piccoli che possano essere, davanti a tanta o poca gente non è un problema che
mi assilla più di tanto. Come dal tema trattato nel mio ultimo lavoro ancora
inedito, io non voglio dipendere e non m’interessa che altri dipendano da me.
Quasi un anno fa, di questi tempi, uscì un disco che mi colpì molto da
subito, si trattava di “Blusanza” del chitarrista e cantautore abruzzese Nicola
Pomponi, in arte Setak. Un titolo originale, un dialetto, quello abruzzese o
meglio di Penne, poco utilizzato nell’ambito della canzone d’autore e undici
tracce che per la qualità dei pezzi sarebbero potuti benissimo essere undici
singoli. Un disco d’esordio di grande maturità. È passato ormai un anno, lo
ascolto ancora con piacere e, grazie anche a questa quarantena, ho pensato bene
di andare a disturbarlo per una chiacchierata.
Questa emergenza coronavirus, la conseguente quarantena impostaci, per
molti è stata anche motivo di riflessione sulla propria vita, sulla propria
attività. Tu, personalmente, sei reduce dal tuo primo disco Blusanza, se
dovessi fare un primo bilancio di questo esordio discografico che conclusioni
trarresti?
Si, devo ammettere che la quarantena è stata anche una preziosa
occasione per riflettere. Riguardo al disco sono davvero felice di come sia
stato accolto. Essendo un progetto con un percorso tutto suo, mi dispiace che
si sia fermato tutto perché stavano succedendo cose importanti proprio in
questo periodo. Non ci resta che prendere il buono da questa situazione (e di
cose buone ce ne sono molte) ed avere molta pazienza.
Ecco, credo valga la pena di parlare un po' di questo tuo primo disco
che appena ho avuto tra le mani mi ha colpito sia per il titolo quel Blusanza
che è un neologismo che unisce il blues alla transumanza, sia per la copertina
che ti ritrae trattenuto desiderato da mani il cui colore tradisce origini
diverse. Mi piacerebbe che mi spiegassi queste scelte comunicative.
Sì, l’idea era quella di trovare un nome che riuscisse a riassumere il
concetto del disco che è nato dall’esigenza di sintetizzare tutte le mie
esperienze musicali e umane, il rapporto con la mia terra e con il mio
dialetto, tutta la musica con cui sono venuto a contatto. Blusanza, ovvero
blues e transumanza, sentimento e appartenenza, è una miscela di influenze
musicali (il blues, imprescindibile per la mia formazione che ho mischiato ad
altre realtà musicali di varie parti del mondo). Su tutto questo ho innestato
il dialetto della mia terra adeguandolo espressivamente a una mia personale
esigenza di intimismo. Per quanto riguarda la copertina c’è da dire
innanzitutto che è stata un’esperienza fortissima. Volevo qualcosa che
traducesse in un’immagine il concetto di esperienza. Ho immaginato a delle mani
su di me che rappresentassero la storia, i luoghi, le esperienze della mia
vita. Poi ci sono io con l’espressione di uno che accetta con serenità tutto
questo. È stata scattata a Lione dal mio amico fotografo Jacopo Butticè il
quale, dopo avergli comunicato l’idea, si è occupato di trovare persone di
diverse etnie ed età. Io ovviamente non conoscevo queste persone e volevo che
fossi toccato e anche infastidito. Dopo i primi momenti di timidezza e
imbarazzo, mi hanno letteralmente torturato. Si era creata una situazione
surreale, non potevamo comunicare verbalmente per via della lingua ma c’era
un’energia bellissima, giornata memorabile.
Dire che per via della lingua non potevate comunicare e scegliere di
usare il dialetto per il tuo primo disco potrebbero sembrare una
contraddizione. Il dialetto in campo musicale è per te un ostacolo alla
diffusione del proprio mondo musicale o, al contrario, un arricchimento, il
creare un legame stretto, inscindibile, con le proprie radici?
Si è vero, ho scritto che non potevamo comunicare verbalmente ma ho
anche scritto che si era creata un’energia bellissima, memorabile. Questo è
esattamente quello che vorrei succedesse con la mia musica. Io credo che il
dialetto, almeno nel mio caso, non sia un elemento determinante ma
semplicemente un pezzo del puzzle. Nelle mie canzoni parlo al mondo, racconto
di cose in cui potrebbero rivedersi tutte le persone di qualsiasi parte del
mondo e come mezzo di espressione ho usato la mia lingua d’origine,
l’abruzzese.
Ricordo bene che il disco è stato anticipato dal singolo Alé Alessa’
con un video bellissimo, direi surreale, in cui tu sei su un ascensore e ad
ogni piano si aggiungono strani personaggi, ognuno reclama spazio, ma ad un
certo punto da delle borse porta strumenti vengono estratti come per magia
chitarre, banjo, tamburelli e la musica sembra mettere tutti d'accordo in un
clima festoso. È un po' quel messaggio di cui si vuol fare portavoce il disco
stesso?
Si, prima dell’uscita del disco sono stati pubblicati tre pezzi e Alé
Alessa’, in effetti, è stato l’ultimo. In realtà non ho mai pensato a
questo e non ho questa presunzione però se a qualcuno dovesse trasmettere
questa sensazione, ben venga!
Magari per qualcuno lo è stato, come accade nel video. Anche durante
questa lunga emergenza ho notato che la musica per tanti è stata di aiuto. Le
dirette Facebook, il cantare sui balconi ne sono degli esempi eclatanti. Non
dico che un disco possa salvare la vita, ma un buon disco come il tuo può
sicuramente renderla più piacevole. Se dovessi scegliere una canzone del disco
cui non rinunciare per alcun motivo al mondo, quale sarebbe? E per quale
motivo?
Cattiveria pura! ☺ Questo tipo
di domande mi stendono, troppo difficile. Sarebbe come chiedere a un padre
quale figlio salvare. Se mi chiedessero di salvare una canzone del disco in
cambio della vita sceglierei molto probabilmente Dumane ha ‘ggià ‘rrivate.
In quel pezzo c’è tutto.
Bellezza pura, in questa risposta c'è davvero tutto l'amore paterno per
la propria creatura. Restiamo ancora al disco e precisamente al nuovo singolo
appena pubblicato in questi giorni, ossia Pane e 'ccicorje, il cui tema
è decisamente in tema con la separazione imposta in questa lunga quarantena. È
nato con il contributo dei tuoi ammiratori se non sbaglio, mi racconti genesi
del brano e del video appena realizzato?
Si rispondere non è stato facile perché questo non è uno di quei dischi
in cui ci sono due singoli e il resto messo lì per riempire il vuoto. Ogni
brano ha avuto una storia unica a cui ho dedicato tutto me stesso. Prima di
parlare del nuovo disco (evento ovviamente rimandato) volevo porre l’attenzione
su quei brani del disco che non hanno avuto la visibilità degli altri. Il primo
è appunto Pane e ‘ccicorje (che casualmente tratta di un tema molto in
sintonia col momento che stiamo vivendo) di cui avremmo dovuto girare il video
proprio nei giorni dell’emergenza. A quel punto abbiamo chiesto aiuto ad amici,
fan ed a tutti quelli a cui avrebbe fatto piacere partecipare. A mio avviso ne
è uscito un lavoro davvero bello, mi sono emozionato la prima volta che l’ho
visto.
Che sia proprio come dici tu, lo dimostra il fatto che nel gioco al
massacro tu, sebbene a malincuore, abbia scelto di salvare la canzone che
chiude il disco, segno che non si tratta di un riempitivo ma forse il brano che
più ti rappresenta. Personalmente adoro Zitta zitte, sarà forse perché
in quell'espressione sembra stare racchiuso un modo di pensare tipico degli
abruzzesi, quel sottrarsi dai riflettori anche quando invece meriterebbero di
essere illuminati dall'occhio di bue, un po' come quell’artista che ha scelto
di chiamarsi Setak. Sarà forse il nuovo singolo?
Si, dici bene. Zitta zitte forse è il pezzo che più di tutti
parla ai miei conterranei. Più che altro descrivo personaggi e situazioni molto
frequenti nei contesti di paese. Un altro aspetto che hai colto sono i modi di
dire come appunto “Zitta zitte” che caratterizzano il pezzo. Infatti quando
uscì la canzone molte persone mi hanno chiesto a quali personaggi reali mi fossi
ispirato e ovviamente questo rimarrà un segreto! Sicuramente sarà, se non il
prossimo, uno dei pezzi su cui metteremo l’accento nei prossimi giorni.
Riguardo al discorso sui riflettori devo ammettere che il progetto non aveva
questo come obiettivo primario ma un’eventuale maggiore attenzione mediatica
non la disdegnerei.
Per chiudere il discorso su Blusanza, ad inizio intervista hai
detto di essere rimasto molto dispiaciuto che questa emergenza coronavirus
abbia impedito lo svolgersi di alcuni eventi legati all'evoluzione del
progetto, cosa stava bollendo in pentola?
Beh, oltre ai diversi concerti che non vedevo l’ora di fare in posti
molto belli ci sarebbe stato l’evento più importante, ovvero l’uscita del
secondo album.
Forse è prematuro parlarne, ma hai anche fatto cenno ad un nuovo disco,
credo che guardare al futuro sia un'iniezione di fiducia per tutti. Mi dici
qualcosa di più sul prossimo progetto?
La prima cosa che mi verrebbe da dire è un po’ quella che dicono tutti
gli artisti prima dell’uscita di un loro lavoro. Sarà una bomba!
Autoincensamenti a parte devo dire che sono davvero contento e non vedo l’ora
di farlo uscire. Se dovessi trovare una diversità con il primo, questo è
decisamente più estroverso e le tematiche hanno un valore ancora più
universale. La cosa certa è che lo spirito è rimasto lo stesso del primo album.
Il 20 aprile è uscito “Canti
Rossi” il nuovo disco del cantautore e polistrumentista parmigiano Rocco
Rosignoli, un disco che sin dalla copertina e dal titolo non lascia dubbi sulle
tematiche e gli intenti dell’intero progetto che raccoglie ben quindici tracce,
di cui l’undicesima è “Gappisti”, un inedito scritto per l’occasione dallo
stesso Rosignoli. Il disco si dipana lungo un arco temporale di cento anni, con
una varietà di arrangiamenti a dir poco sorprendente. Credo sia il caso non
solo di ascoltarlo con attenzione, ma di addentrarcisi con il suo aiuto.
Proprio in questi tempi di
paure, di incertezze sull'avvenire, sei uscito con un disco "Canti
Rossi" che sin dalla copertina si schiera apertamente. Sono rossi i canti,
è rossa la copertina, che nella sua semplicità, con quel sole nascente mi ha
fatto tornare in mente quel sole posticcio che sorge nella scena finale di
Palombella Rossa, ha ancora senso questo sole dell'avvenire?
Per cominciare, devo dire che tutta la mia attività di musicista è quella
di un uomo apertamente schierato, e che non fa mistero di esserlo. I canti di
questo disco sono rossi, oppure rossoneri: io sono comunista, ma ho una forte
simpatia per i compagni libertari, che oltretutto possono vantare canti
meravigliosi e che gli invidio molto. Addirittura alcuni canti sono
patriottici, nonostante io sia un internazionalista! La tua domanda sul sole
dell'avvenire è piuttosto complessa. In primis: il buon Nanni Moretti non ha
mai avuto alcun ruolo effettivo nella mia personale formazione, salvo
strapparmi qualche rara risata. In secundis: come lo vogliamo intendere, questo
sole dell'avvenire? Come una destinazione necessaria verso la quale tutta la
storia tende inequivocabilmente? Se è così, la mia risposta è un categorico no:
se c'è una cosa che la storia può insegnarci, e in questo periodo è un
insegnamento quanto mai attuale, è che la sua prevedibilità è minima. Le cose
brutte accadono, e in genere sono diverse da quelle che ci aspettavamo. Ma c'è un grosso ma: l'emergenza coronavirus
ha posto sotto gli occhi di tutti una serie di contraddizioni intrinseche al
sistema in cui viviamo, ha inasprito disparità sociali che vedono contrapposte
una minoranza di ricchissimi e una maggioranza di poveri, la cui vita ha valore
solo in rapporto al guadagno che essi possono arrecare ai primi. Dei poveri non
ha importanza la salute: lo stop alle fabbriche è arrivato molto tardi, e ne ha
riguardato di fatto una minima parte. Il diktat era: non fermare la produzione.
Grazie agli operai, sappiamo bene che nella maggior parte dei luoghi di lavoro
le regole di sicurezza non sono state applicate, se non in una fase
estremamente avanzata del contagio. Inoltre, la decennale trasformazione degli
ospedali in aziende volte al profitto ci ha messo davanti al tracollo di un
sistema sanitario indebolito da decenni di tagli e privatizzazioni. E questo è
costato molte vite. Insomma, siamo testimoni di tempi veramente bui. Il voler
uscire da questa notte, verso un'alba in cui tutti gli uomini siano liberi e
uguali, e in cui davvero il libero sviluppo di ciascuno coincida con il libero
sviluppo di tutti e non con una lotta a chi si accaparra le briciole di
Marchionne, è un'idea quanto mai adeguata ai mali tempi che corrono.
In che misura, canzoni come
quelle che hai voluto inserire in questa raccolta, che come hai detto giustamente
tu, spaziano su un fronte ampio, anche a livello temporale, credi che possano
fare da cartina tornasole, da bussola in questi tempi, per non ricadere negli
stessi errori? Per operare scelte consapevoli?
Il vantaggio che ci può offrire un approccio in canzone all'argomento delle
lotte operaie, delle rivoluzioni mutilate, tradite, sequestrate, offre un
vantaggio. La musica, a differenza di molte altre forme d'arte, non richiede
conoscenze pregresse per emozionare: può essere fruita da chiunque. E chiunque
può scoprire che i suoi sentimenti sono simili a quelli che negli ultimi
duecento anni hanno spinto persone di ogni tipo a ribellarsi a un mondo
ingiusto, cercando di renderlo migliore. Ricadere negli errori di sempre fa
parte della natura umana, ma anche sbattersi per cambiare le cose quando le
moltitudini si rendono conto che non funzionano più. La consapevolezza è spesso
un lusso di pochi, e in genere quelli che la posseggono guidano scelte mirate
al loro tornaconto. Le canzoni non possono risolvere questa realtà, ma di certo
possono commuoverci, farci piangere, farci ridere, farci incazzare, e stimolare
la nostra coscienza a capire che troppa roba non va. Poi capire cosa, e come
risolverlo, è complesso. Richiede studio, discussione, azione.
Direi di non addentrarci
troppo su questo fronte, altrimenti il cercare di capire come e cosa cambiare
ci porterebbe lontano da quello che il punto di partenza, ossia questo bel
disco, perché è un bel disco in cui hai necessariamente dovuto operare delle
scelte, sia per quanto riguarda la selezione delle canzoni sia nella loro
reinterpretazione. Quanto ti ha stimolato il rendere tue e allo stesso tempo
fresche, attuali, canzoni così diverse per genesi e per inquadramento storico?
È stato il motore di tutta l'operazione. Prima della passione politica, a
guidare le mie scelte è sempre stata la passione musicale. Qui non siamo solo
davanti a una rassegna storica di canzoni politiche, ma davanti a dei veri e
propri capolavori della canzone – a cui spero, a mio modo, di aver reso giustizia.
Per dire: mi sono trovato a tradurre Bertolt Brecht e ad arrangiare Kurt Weill,
e anche se so sia tradurre che arrangiare, qui avevo la consapevolezza di star
maneggiando il materiale di due geni. Mi ha dato ansia, mi sono chiesto se non
fosse il caso di dedicarmi ad altri canti... ma poi quella canzone era troppo
importante per il mio percorso, e ho deciso di includerla. Ho fatto il massimo
per render giustizia, e trovo che alla fine la mia rielaborazione del loro Epitaffio 1919 per Rosa Luxemburg sia
efficace – rispettoso, ma personale. E poi ci sono le canzoni popolari, quelle
che conoscono tutti come Bella Ciao,
qui elaborata in chiave folk-rock minimale, e Fischia il vento; ma anche canti un po' meno noti, come Inno del Patriota di Cesare Bassani,
partigiano Sam. Un partigiano ebreo, uno che rischiava doppio dunque, che
combatté sui monti del nostro appennino e ci lasciò questo canto. Per me è
stato emozionante scoprirlo, perché per lavoro mi sono interessato molto alla
musica di matrice ebraica, e sono andato a scovare i canti partigiani dei
ghetti. Scoprire che un partigiano ebreo aveva scritto un canto a un'ora di
distanza da casa mia mi emozionò tantissimo. E poi canti della Guerra di
Spagna, ma anche degli anni '60. Tra tutti questi splendidi brani ha trovato
posto una mia canzone, Gappisti,
dedicata ai partigiani che, in piccoli Gruppi d'Assalto Patriottico (GAP),
agivano in città con modalità di guerriglia. Una tradizione poco cantata, in
cui ho pensato di portare umilmente il mio contributo, raccontando una storia
inventata, ma simile a tante che possono essere accadute in tutta Italia.
Credo che con questa tua
risposta abbia reso l'idea di tutto l'amore, la passione e anche la
responsabilità che c'è stata nell'affrontare un progetto così ambizioso che
avrebbe anche potuto ricevere critiche da chi magari ha vissuto in prima
persona le realtà di alcuni di questi canti. Il Patrocinio dell'ANPI credo sia
una garanzia in tal senso. Quanto però credi che un disco come questo possa
comunicare agli ascoltatori più giovani? Perché è un disco che indubbiamente ha
un valore che va al di là dell'aspetto musicale, non pensi?
Mah, in generale gli ascoltatori più giovani non lo considerano nemmeno
più, il formato disco. Sono nati e cresciuti in un'epoca che vede tutt'altre
modalità di fruizione della musica. È un fenomeno che ha lati positivi e
negativi, ma quello che è certo è che non ho mai pensato che l'ascoltatore di
questo disco fosse un sedicenne. Però, chissà, magari capiterà che Spotify gli
suggerisca la mia Bella ciao, perché
lui l'ha ascoltata spesso nella versione de “La casa di carta”. E magari scopre
che gli piace, anche questo modo diverso di interpretare quella stessa canzone.
La mia esperienza nelle scuole mi ha mostrato a più riprese che gli adolescenti
sono estremamente sensibili alla musica, anche a quella che non fa parte dei
loro ascolti: quest'anno ho fatto qualche ora di storia in una scuola di
formazione professionale, e i ragazzi della mia classe hanno pianto quando gli
ho cantato Gorizia. E l'anno scorso,
a una festa antifascista, un bravissimo rapper mio coetaneo, Dank, ha portato i
suoi giovani “allievi”, una piccola crew molto talentuosa. Hanno fatto le loro
belle esibizioni, poi ho cantato io. Alla fine del mio set Dank è venuto da me,
e mi ha detto che uno dei ragazzi era andato da lui a dirgli: “Oh, ma il tipo
con la chitarra spacca!” È forse il complimento più bello che abbia ricevuto,
perché è arrivato da un ragazzo, appassionato a una realtà musicale talmente
distante da quella in cui mi muovo io da renderla all'apparenza incompatibile.
Gli adolescenti non sono gli automi imbottiti di droga e internet che certa
stampa vuol farci credere, tutt'altro! Al netto di tutto questo, però, non
credo che compreranno mai un mio disco. Il mio lavoro si rivolge a un pubblico
un po' più grande, che più spesso parte dai venticinquenni, e arriva fino ai
rari centenari. Il suo valore ha certamente un aspetto slegato dall'aspetto
musicale, e credo che sia quello di essersi costruito da sé intorno a una
comunità. Una comunità che mi ha sentito cantare decine di volte queste
canzoni: alle manifestazioni, nei centri sociali, alle feste dell'ANPI, e che
ogni volta mi chiedeva se avessi un disco che le conteneva. E fino a ieri non
c'era. Non c'era testimonianza di questa parte così importante del mio lavoro,
che ha costruito una rete di persone meravigliose, vicine e lontane, unite
dalla volontà di mantenere accesa la miccia della memoria, e di non confondere
il passato con le sue versioni che ci vengono propinate di quando in quando.
Se mi permetti vorrei farti
un'ultima domanda, credo che queste canzoni siano belle anche in una versione
solo voce e chitarra, però nel disco hai utilizzato archi, c'è il contributo
del coro OltreCoro, la voce di Alice Avanzi, credi sarà possibile presentarlo
in questa veste in qualche ricorrenza di particolare rilevanza? Sempre che si
possa tornare all'attività live, che già questa sembra una chimera...
Grazie per questa domanda, che rende giustizia anche agli amici e compagni
presenti in questo album! OltreCoro è il coro popolare che dirigo a Parma, ed è
specializzato proprio in questo repertorio. È un coro polifonico, canta a
quattro voci. Non è composto da professionisti, ma da compagni di varia
estrazione, che ci tengono ad avere cura del patrimonio del canto popolare, di
lotta, di lavoro. A volte provvedo io a scrivere nuove armonizzazioni per i
canti che scegliamo, altre volte ci rifacciamo alla tradizione: alcuni di noi
sono talmente appassionati da partecipare ai raduni internazionali di cori con
un repertorio simile al nostro, che in giro per l'Europa sono tantissimi. Da
loro impariamo spesso nuovi canti oppure nuovi arrangiamenti. È una realtà
molto viva e molto solidale, oltre che divertente da frequentare! Purtroppo in
questo momento neppure noi possiamo riunirci, ma abbiamo continuato a cantare,
come tanti altri gruppi, filmandoci a casa, montando i filmati e mettendoli
online. È un modo per continuare a esistere in questo periodo, nel quale il
fulcro della nostra attività, ossia l'aggregazione, costituisce un pericolo per
noi e per gli altri. Gli archi invece sono stati la scelta di accompagnamento
che ho compiuto un paio d'anni fa, quando l'Istituto Ernesto De Martino ci
coinvolse nella realizzazione di una compilation dedicata alla Guerra Civile di
Spagna – intitolata “Spagna '36, un sogno che resiste”. Coinvolsi gli amici
Salvatore Iaia al violoncello, ed Elena Contò alla viola. Al violino mi misi
io. La canzone, La despedida, è
chiaramente una canzone di tradizione colta, e con l'accompagnamento di un trio
d'archi mi parve di darle una forma coerente con quello che era il mio modo di
sentirla e interpretarla. Questa canzone è uscita allora in quel disco, e oggi
è stata riedita nel mio Canti rossi,
con l'amichevole placet dell'Istituto De Martino, che ringrazio di cuore. Alice
Avanzi invece canta Alle donne, una
mia personale traduzione di A las mujeres,
sempre dal fantastico canzoniere della guerra di Spagna. Non ho voluto cantarla
io, perché sentire una voce maschile che pronuncia quelle parole mi dava una
sensazione sgradevole di paternalismo... e ho voluto affidarla ad Alice, che è
la mia compagna. Con lei collaboro spesso, sia in studio che dal vivo. Alice
ora è incinta, e lo era anche al momento dell'incisione. Quello che allora non
sapevamo è che quella che aspetta è una bimba. E tutto assume un senso diverso,
a riguardarlo con questa consapevolezza! Nessuno di noi sa quando la nostra
attività di musicisti potrà riprendere. Una presentazione online c'è già stata,
con la partecipazione di Brunella Manotti e di Aldo Montermini, i presidenti
della sezione cittadina e provinciale dell'ANPI di Parma. Certo, avremmo tutti
preferito poter fare una presentazione in grande stile nella Sala Riunioni
della sede ANPI, e sono certo che, non appena sarà possibile, accadrà. E
parteciperà anche OltreCoro, e tutti i compagni che hanno collaborato al disco.
La musica è migliore, quando la si può fare insieme.