sabato, maggio 02, 2020

Rocco Rosignoli: “Canti Rossi”, perché il rosso è il colore dell’amore


di Fabio Antonelli

Il 20 aprile è uscito “Canti Rossi” il nuovo disco del cantautore e polistrumentista parmigiano Rocco Rosignoli, un disco che sin dalla copertina e dal titolo non lascia dubbi sulle tematiche e gli intenti dell’intero progetto che raccoglie ben quindici tracce, di cui l’undicesima è “Gappisti”, un inedito scritto per l’occasione dallo stesso Rosignoli. Il disco si dipana lungo un arco temporale di cento anni, con una varietà di arrangiamenti a dir poco sorprendente. Credo sia il caso non solo di ascoltarlo con attenzione, ma di addentrarcisi con il suo aiuto.



Proprio in questi tempi di paure, di incertezze sull'avvenire, sei uscito con un disco "Canti Rossi" che sin dalla copertina si schiera apertamente. Sono rossi i canti, è rossa la copertina, che nella sua semplicità, con quel sole nascente mi ha fatto tornare in mente quel sole posticcio che sorge nella scena finale di Palombella Rossa, ha ancora senso questo sole dell'avvenire?

Per cominciare, devo dire che tutta la mia attività di musicista è quella di un uomo apertamente schierato, e che non fa mistero di esserlo. I canti di questo disco sono rossi, oppure rossoneri: io sono comunista, ma ho una forte simpatia per i compagni libertari, che oltretutto possono vantare canti meravigliosi e che gli invidio molto. Addirittura alcuni canti sono patriottici, nonostante io sia un internazionalista! La tua domanda sul sole dell'avvenire è piuttosto complessa. In primis: il buon Nanni Moretti non ha mai avuto alcun ruolo effettivo nella mia personale formazione, salvo strapparmi qualche rara risata. In secundis: come lo vogliamo intendere, questo sole dell'avvenire? Come una destinazione necessaria verso la quale tutta la storia tende inequivocabilmente? Se è così, la mia risposta è un categorico no: se c'è una cosa che la storia può insegnarci, e in questo periodo è un insegnamento quanto mai attuale, è che la sua prevedibilità è minima. Le cose brutte accadono, e in genere sono diverse da quelle che ci aspettavamo.  Ma c'è un grosso ma: l'emergenza coronavirus ha posto sotto gli occhi di tutti una serie di contraddizioni intrinseche al sistema in cui viviamo, ha inasprito disparità sociali che vedono contrapposte una minoranza di ricchissimi e una maggioranza di poveri, la cui vita ha valore solo in rapporto al guadagno che essi possono arrecare ai primi. Dei poveri non ha importanza la salute: lo stop alle fabbriche è arrivato molto tardi, e ne ha riguardato di fatto una minima parte. Il diktat era: non fermare la produzione. Grazie agli operai, sappiamo bene che nella maggior parte dei luoghi di lavoro le regole di sicurezza non sono state applicate, se non in una fase estremamente avanzata del contagio. Inoltre, la decennale trasformazione degli ospedali in aziende volte al profitto ci ha messo davanti al tracollo di un sistema sanitario indebolito da decenni di tagli e privatizzazioni. E questo è costato molte vite. Insomma, siamo testimoni di tempi veramente bui. Il voler uscire da questa notte, verso un'alba in cui tutti gli uomini siano liberi e uguali, e in cui davvero il libero sviluppo di ciascuno coincida con il libero sviluppo di tutti e non con una lotta a chi si accaparra le briciole di Marchionne, è un'idea quanto mai adeguata ai mali tempi che corrono.



In che misura, canzoni come quelle che hai voluto inserire in questa raccolta, che come hai detto giustamente tu, spaziano su un fronte ampio, anche a livello temporale, credi che possano fare da cartina tornasole, da bussola in questi tempi, per non ricadere negli stessi errori? Per operare scelte consapevoli?

Il vantaggio che ci può offrire un approccio in canzone all'argomento delle lotte operaie, delle rivoluzioni mutilate, tradite, sequestrate, offre un vantaggio. La musica, a differenza di molte altre forme d'arte, non richiede conoscenze pregresse per emozionare: può essere fruita da chiunque. E chiunque può scoprire che i suoi sentimenti sono simili a quelli che negli ultimi duecento anni hanno spinto persone di ogni tipo a ribellarsi a un mondo ingiusto, cercando di renderlo migliore. Ricadere negli errori di sempre fa parte della natura umana, ma anche sbattersi per cambiare le cose quando le moltitudini si rendono conto che non funzionano più. La consapevolezza è spesso un lusso di pochi, e in genere quelli che la posseggono guidano scelte mirate al loro tornaconto. Le canzoni non possono risolvere questa realtà, ma di certo possono commuoverci, farci piangere, farci ridere, farci incazzare, e stimolare la nostra coscienza a capire che troppa roba non va. Poi capire cosa, e come risolverlo, è complesso. Richiede studio, discussione, azione.



Direi di non addentrarci troppo su questo fronte, altrimenti il cercare di capire come e cosa cambiare ci porterebbe lontano da quello che il punto di partenza, ossia questo bel disco, perché è un bel disco in cui hai necessariamente dovuto operare delle scelte, sia per quanto riguarda la selezione delle canzoni sia nella loro reinterpretazione. Quanto ti ha stimolato il rendere tue e allo stesso tempo fresche, attuali, canzoni così diverse per genesi e per inquadramento storico?

È stato il motore di tutta l'operazione. Prima della passione politica, a guidare le mie scelte è sempre stata la passione musicale. Qui non siamo solo davanti a una rassegna storica di canzoni politiche, ma davanti a dei veri e propri capolavori della canzone – a cui spero, a mio modo, di aver reso giustizia. Per dire: mi sono trovato a tradurre Bertolt Brecht e ad arrangiare Kurt Weill, e anche se so sia tradurre che arrangiare, qui avevo la consapevolezza di star maneggiando il materiale di due geni. Mi ha dato ansia, mi sono chiesto se non fosse il caso di dedicarmi ad altri canti... ma poi quella canzone era troppo importante per il mio percorso, e ho deciso di includerla. Ho fatto il massimo per render giustizia, e trovo che alla fine la mia rielaborazione del loro Epitaffio 1919 per Rosa Luxemburg sia efficace – rispettoso, ma personale. E poi ci sono le canzoni popolari, quelle che conoscono tutti come Bella Ciao, qui elaborata in chiave folk-rock minimale, e Fischia il vento; ma anche canti un po' meno noti, come Inno del Patriota di Cesare Bassani, partigiano Sam. Un partigiano ebreo, uno che rischiava doppio dunque, che combatté sui monti del nostro appennino e ci lasciò questo canto. Per me è stato emozionante scoprirlo, perché per lavoro mi sono interessato molto alla musica di matrice ebraica, e sono andato a scovare i canti partigiani dei ghetti. Scoprire che un partigiano ebreo aveva scritto un canto a un'ora di distanza da casa mia mi emozionò tantissimo. E poi canti della Guerra di Spagna, ma anche degli anni '60. Tra tutti questi splendidi brani ha trovato posto una mia canzone, Gappisti, dedicata ai partigiani che, in piccoli Gruppi d'Assalto Patriottico (GAP), agivano in città con modalità di guerriglia. Una tradizione poco cantata, in cui ho pensato di portare umilmente il mio contributo, raccontando una storia inventata, ma simile a tante che possono essere accadute in tutta Italia.



Credo che con questa tua risposta abbia reso l'idea di tutto l'amore, la passione e anche la responsabilità che c'è stata nell'affrontare un progetto così ambizioso che avrebbe anche potuto ricevere critiche da chi magari ha vissuto in prima persona le realtà di alcuni di questi canti. Il Patrocinio dell'ANPI credo sia una garanzia in tal senso. Quanto però credi che un disco come questo possa comunicare agli ascoltatori più giovani? Perché è un disco che indubbiamente ha un valore che va al di là dell'aspetto musicale, non pensi?

Mah, in generale gli ascoltatori più giovani non lo considerano nemmeno più, il formato disco. Sono nati e cresciuti in un'epoca che vede tutt'altre modalità di fruizione della musica. È un fenomeno che ha lati positivi e negativi, ma quello che è certo è che non ho mai pensato che l'ascoltatore di questo disco fosse un sedicenne. Però, chissà, magari capiterà che Spotify gli suggerisca la mia Bella ciao, perché lui l'ha ascoltata spesso nella versione de “La casa di carta”. E magari scopre che gli piace, anche questo modo diverso di interpretare quella stessa canzone. La mia esperienza nelle scuole mi ha mostrato a più riprese che gli adolescenti sono estremamente sensibili alla musica, anche a quella che non fa parte dei loro ascolti: quest'anno ho fatto qualche ora di storia in una scuola di formazione professionale, e i ragazzi della mia classe hanno pianto quando gli ho cantato Gorizia. E l'anno scorso, a una festa antifascista, un bravissimo rapper mio coetaneo, Dank, ha portato i suoi giovani “allievi”, una piccola crew molto talentuosa. Hanno fatto le loro belle esibizioni, poi ho cantato io. Alla fine del mio set Dank è venuto da me, e mi ha detto che uno dei ragazzi era andato da lui a dirgli: “Oh, ma il tipo con la chitarra spacca!” È forse il complimento più bello che abbia ricevuto, perché è arrivato da un ragazzo, appassionato a una realtà musicale talmente distante da quella in cui mi muovo io da renderla all'apparenza incompatibile. Gli adolescenti non sono gli automi imbottiti di droga e internet che certa stampa vuol farci credere, tutt'altro! Al netto di tutto questo, però, non credo che compreranno mai un mio disco. Il mio lavoro si rivolge a un pubblico un po' più grande, che più spesso parte dai venticinquenni, e arriva fino ai rari centenari. Il suo valore ha certamente un aspetto slegato dall'aspetto musicale, e credo che sia quello di essersi costruito da sé intorno a una comunità. Una comunità che mi ha sentito cantare decine di volte queste canzoni: alle manifestazioni, nei centri sociali, alle feste dell'ANPI, e che ogni volta mi chiedeva se avessi un disco che le conteneva. E fino a ieri non c'era. Non c'era testimonianza di questa parte così importante del mio lavoro, che ha costruito una rete di persone meravigliose, vicine e lontane, unite dalla volontà di mantenere accesa la miccia della memoria, e di non confondere il passato con le sue versioni che ci vengono propinate di quando in quando.




Se mi permetti vorrei farti un'ultima domanda, credo che queste canzoni siano belle anche in una versione solo voce e chitarra, però nel disco hai utilizzato archi, c'è il contributo del coro OltreCoro, la voce di Alice Avanzi, credi sarà possibile presentarlo in questa veste in qualche ricorrenza di particolare rilevanza? Sempre che si possa tornare all'attività live, che già questa sembra una chimera...

Grazie per questa domanda, che rende giustizia anche agli amici e compagni presenti in questo album! OltreCoro è il coro popolare che dirigo a Parma, ed è specializzato proprio in questo repertorio. È un coro polifonico, canta a quattro voci. Non è composto da professionisti, ma da compagni di varia estrazione, che ci tengono ad avere cura del patrimonio del canto popolare, di lotta, di lavoro. A volte provvedo io a scrivere nuove armonizzazioni per i canti che scegliamo, altre volte ci rifacciamo alla tradizione: alcuni di noi sono talmente appassionati da partecipare ai raduni internazionali di cori con un repertorio simile al nostro, che in giro per l'Europa sono tantissimi. Da loro impariamo spesso nuovi canti oppure nuovi arrangiamenti. È una realtà molto viva e molto solidale, oltre che divertente da frequentare! Purtroppo in questo momento neppure noi possiamo riunirci, ma abbiamo continuato a cantare, come tanti altri gruppi, filmandoci a casa, montando i filmati e mettendoli online. È un modo per continuare a esistere in questo periodo, nel quale il fulcro della nostra attività, ossia l'aggregazione, costituisce un pericolo per noi e per gli altri. Gli archi invece sono stati la scelta di accompagnamento che ho compiuto un paio d'anni fa, quando l'Istituto Ernesto De Martino ci coinvolse nella realizzazione di una compilation dedicata alla Guerra Civile di Spagna – intitolata “Spagna '36, un sogno che resiste”. Coinvolsi gli amici Salvatore Iaia al violoncello, ed Elena Contò alla viola. Al violino mi misi io. La canzone, La despedida, è chiaramente una canzone di tradizione colta, e con l'accompagnamento di un trio d'archi mi parve di darle una forma coerente con quello che era il mio modo di sentirla e interpretarla. Questa canzone è uscita allora in quel disco, e oggi è stata riedita nel mio Canti rossi, con l'amichevole placet dell'Istituto De Martino, che ringrazio di cuore. Alice Avanzi invece canta Alle donne, una mia personale traduzione di A las mujeres, sempre dal fantastico canzoniere della guerra di Spagna. Non ho voluto cantarla io, perché sentire una voce maschile che pronuncia quelle parole mi dava una sensazione sgradevole di paternalismo... e ho voluto affidarla ad Alice, che è la mia compagna. Con lei collaboro spesso, sia in studio che dal vivo. Alice ora è incinta, e lo era anche al momento dell'incisione. Quello che allora non sapevamo è che quella che aspetta è una bimba. E tutto assume un senso diverso, a riguardarlo con questa consapevolezza! Nessuno di noi sa quando la nostra attività di musicisti potrà riprendere. Una presentazione online c'è già stata, con la partecipazione di Brunella Manotti e di Aldo Montermini, i presidenti della sezione cittadina e provinciale dell'ANPI di Parma. Certo, avremmo tutti preferito poter fare una presentazione in grande stile nella Sala Riunioni della sede ANPI, e sono certo che, non appena sarà possibile, accadrà. E parteciperà anche OltreCoro, e tutti i compagni che hanno collaborato al disco. La musica è migliore, quando la si può fare insieme.

Foto di Cristiano Antonino.







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