lunedì, luglio 07, 2025

Ivan Francesco Ballerini: La guerra è finita, una danza continua tra realtà e immaginazione, dove la speranza è l’unico rimedio al dolore

di Fabio Antonelli

Ivan Francesco Ballerini è l’esempio di come non ci sia un limite di età per cominciare ad inseguire un proprio sogno. Del 1967 come il sottoscritto, nel 2019, forse stanco di cantare canzoni di altri, decide di scriversi in proprio le canzoni e pubblica un signor album, “Cavallo Pazzo” (RadiciMusic Records, 2019) dedicato al leggendario nativo americano della tribù degli Oglala Lakota ma, in realtà, un espediente letterario per realizzare canzoni senza tempo, che parlano dell’essenza della vita. Sono passati solo sei anni ed ecco che, sorretto da una vena creativa inarrestabile, ha appena pubblicato il suo quarto album “La guerra è finita” (RadiciMusic Records, 2025).

Presentando "Linea d'ombra"
Il 26 giugno scorso è stato pubblicato su YouTube il video di La guerra è finita, canzone che è anche la title-track del tuo nuovo album pubblicato con RadiciMusic Records ad inizio anno. Lo splendido video opera del regista Nedo Baglioni sovrappone sapientemente immagini ti te che canti accompagnandoti con la tua chitarra e di Lisa Buralli, la cui voce delicata ma allo stesso tempo intensa ed evocativa ti accompagna immersi in una natura incontaminata, a immagini dolorose di guerra. Il testo della canzone è pieno di poesia ed è sia un viaggio nei ricordi, sia un’immaginaria lettera d'amore scritta da un uomo al fronte alla propria amata. Mi racconti la genesi di questa canzone che credo sia stata poi quella che ha fatto poi nascere l'intero lavoro discografico, o almeno così mi sono immaginato?

Volevo scrivere una canzone che parlasse di un soldato qualunque che partito per il fronte scrive lettere e canzoni alla donna del cuore. Poi mentre scrivevo mi sono reso conto che quel soldato ero io. Mi sono rivenuti alla mente i giorni del mio servizio militare, effettuato nella città di Savona, in un lontano 1989. Furono giorni di grande tristezza, per la lontananza da casa, dalla mia fidanzata… e a peggiorare la situazione c’era il fatto che la mia caserma era vicinissima al mare, quasi lo potevi toccare con un dito… ma non ci potevi andare. Tuttavia, pur parlando di un soldato partito per il fronte, ho voluto dare un’impronta poetica, che parlasse d’amore, tinteggiando il tutto di malinconia, che gli anni che passano portano sempre con sé. Il video l’ho affidato alle mani esperte di Nedo Baglioni, che in questo caso, ha superato sé stesso con una regia degna dei grandi registi del cinema d’autore. Gli arrangiamenti, invece, li ho affidati alle mani di Alberto Checcacci, che credo non sia stata da meno… Nedo, Alberto, e la meravigliosa Lisa Buralli, sono grandissimi professionisti, e amici cari. Impossibile fare a meno di loro.


La guerra è finita è, come detto prima, anche il titolo del tuo nuovo album uscito a febbraio. Vorrei soffermarmi, se tu fossi d'accordo, sia sul titolo scelto sia sulla copertina del disco, una magnifica foto che ti ritrae seduto su una staccionata, pensieroso, credo in cima ad una collina toscana con, tra le gambe, la tua amata chitarra e dietro un cielo molto nuvoloso, quasi minaccioso, come è un po' il futuro di questo mondo attuale, come forse lo è sempre stato, ma in un momento storico in cui si fa molta fatica a guardare avanti non dico con fiducia ma, almeno, con speranza. Com'è stata pensata e realizzata?

Il titolo dell’album è strettamente legato al brano La guerra è finita e poi, ovviamente, agli argomenti trattati. La tua sensibilità ti ha permesso di capire nel suo intimo il valore e la scelta di quella foto. Ho voluto parlare di guerra senza mai, tuttavia, cadere nella lacrima facile, ma sfiorando l’argomento guerra e parlando, invece, di amore e di speranza. La foto della copertina è stata scattata il giorno in cui abbiamo girato il video di La guerra è finita. Ci troviamo all’Anciolina, bellissima località montana dell’immenso Pratomagno. Abbiamo girato a luglio del 2023, ma arrivati in loco faceva un gran freddo, tanto che a un certo punto ho chiesto a Nedo di chiudere tutto e tornare a casa. In quel frangente Nedo, come suo solito fare, oltre che a girare il video ha scattato alcune foto. Quella che tu dici, mi sembrava perfetta per presentare l’album, in tutta la sua immensità.


Vorrei sottolineare anche la cura e l'artigianalità del confezionamento del disco, la scelta di carta artistica italiana, l'assemblaggio realizzato a mano. Credo che in un mondo musicale sempre più orientato allo streaming, all'usa e getta, questa scelta radicale contro corrente sia un lodevole valore aggiunto. Come ti poni dinanzi a queste nuove tendenze?

La RadiciMusic Records da questo punto di vista è imbattibile. Ricordo ancora con una grande emozione il momento in cui Aldo Coppola Neri, titolare della Radici, mi portò in visione i primi CD di Cavallo Pazzo. Quel virato seppia, la qualità di quei materiali… ne rimasi folgorato. Purtroppo, oggi queste scelte non contano più, vista la velocità in cui tutto si muove. Tu fai un video che ha il valore di un film, curato nei minimi dettagli, lo lanci, e dopo tre minuti è già stato fagocitato e gettato nel dimenticatoio. Questo non invoglia certo a fare le cose per bene. Ma io, in fin dei conti, ho fatto questi dischi per me e per gioco, per divertimento. Purtroppo, è anche vero che questi lavori hanno colto l’interesse di un gruppo veramente ristretto di persone. Questo è un peccato, perché ho potuto sperimentare, che un concerto fatto con i brani che ho prodotto sino ad oggi, è veramente bello, degno di essere affiancato ai nomi più noti della musica d’autore. Ma mai disperare, perché una delle cose che ci differenzia dal mondo animale e vegetale è una cosa che solo noi abbiamo: si chiama SPERANZA.

Torniamo alle tracce, partendo precisamente dalla prima, Il mondo aspetta te (Ouverture) che, con estrema delicatezza quasi ci si trovasse in uno stato di estasi musicale, apre idealmente il disco fino a ritornare in forma di canzone completa nella omonima traccia finale, all'interno di una struttura circolare cara anche a tanti registi cinematografici. Personalmente credo siano molti i punti di contatto tra questo disco e il cinema inteso come rappresentazione della realtà attraverso gli occhi della poesia. È in fondo una canzone di speranza, nonostante tutto ciò che ci circonda e pensare che, ci hai tenuto giustamente a sottolinearlo nelle note al disco, queste canzoni sono state scritte prima degli sconvolgenti conflitti che affliggono questo nostro povero mondo. La speranza è davvero forse l'unica nostra vera "arma" di salvezza?

Domanda cruciale direi. Se uno si mette a leggere la poesia Valentino del grande Giovanni Pascoli e ne comprende il significato profondo, riesce a trovare la chiave di lettura anche di questo disco. Valentino nasce povero, non possiede nulla, nessun bene materiale, la pelle dei suoi piedini è nuda ma, nel suo cuore è accesa una cosa che nessuno può spengere, si chiama speranza. Se si perde quella, allora sì che si perde il senso della vita. Così, scrivendo questi nove brani, La guerra è finitaTra bombe e distruzioneSulle pietre del mondoIl mondo aspetta te, non ho mai perso di vista questo concetto. Speranza in un futuro migliore, dove non esista la più la povertà, non esistano i soprusi, dove gli uomini collaborino tra loro, per cercare di avere un percorso sereno della vita. È questo che il disco vorrebbe auspicare ma, se ci pensi bene, anche in Cavallo Pazzo toccai gli stessi argomenti, gli stessi concetti: cambiano le storie, cambiano i personaggi, ma il senso profondo resta quello.

Il tuo citare la poesia Valentino di Giovanni Pascoli mi porta a fare uno skip virtuale nell'immaginario lettore CD per saltare a Linea d'ombra, il riferimento letterario qui è l'esemplare romanzo breve di Joseph Conrad, bellissimo pretesto per parlare dell'ineluttabile trascorrere del tempo, dell'impietoso raffronto tra vecchiaia e giovinezza, viaggiando nello spazio-tempo pur restando immobili "inchiodati per terra mentre il resto del corpo vola". Una splendida canzone giocata su più livelli... Mi sembra ormai di aver capito che Conrad sia tra i tuoi autori letterari più amati o sbaglio?

Ho iniziato a leggere i racconti di Conrad spinto da mio fratello Antonio, che tra l’altro è uno scrittore e saggista. La lettura di Linea d’ombra non è adatta ai neofiti. Si tratta di un racconto piuttosto duro da digerire e poi i libri tradotti in altre lingue perdono sempre qualcosa nella traduzione. Alla fine, però il racconto è meraviglioso e non potevo perdere l’occasione per non fare, del racconto una canzone. Ho stravolto un po' le cose… e alla fine ho voluto che la protagonista fosse una donna, con tutte le difficoltà che la vita le pone davanti… e ancora oggi sono sempre tante. Basti pensare al fatto sconcertante che viene uccisa una donna ogni 24 ore… nemmeno nel medioevo succedeva questo. Quindi per salvare se e la sua anima, deve viaggiare, se non può farlo fisicamente, almeno con la fantasia… Anche lei sperando in un futuro migliore. Trovo che una canzone che trae ispirazione da un racconto della grande letteratura mondiale dovrebbe avere la carta per poter accedere e superare MUSICULTURA. Se non altro per il lavoro che ci sta dietro.  Un libro va prima letto e digerito, poi si deve trovare il motivo per trasformarlo in canzone. Questo dovrebbe muovere in chi ascolta la curiosità di andare a leggere il libro originale e dovrebbe essere premiante da un punto di vista culturale. Invece MUSICULTURA ha respinto al mittente tutte le mie proposte, scrivendo che sono belle e ricercate nel testo, ma non sono evidentemente all’altezza. E questo mi pone davanti tanti, troppi interrogativi. Cambierei il nome MUSICULTURA in rassegna musicale contemporanea… così da evitare pericolosi malintesi.


Evito di farmi tirar dentro in questo discorso proprio a ridosso della votazione finale delle Targhe Tenco in cui sono coinvolto personalmente e tiro dritto o, meglio, torno indietro alla traccia numero tre, ossia Tra le dita. Dolcissima canzone con splendide aperture melodiche, mi sembra parli di un amore genitoriale, di un distacco tanto inevitabile quanto ciclico, c'è ancora una volta lo scorrere inarrestabile del tempo e il desiderio di vivere appieno certi magici istanti. È così o ho preso una cantonata?

La canzone è stata arrangiata da Giancarlo Capo che a mio avviso ha saputo dargli la veste perfetta. Alla batteria Luca Trolli, turnista di Renato Zero… tanta roba. Credo che sia sbagliato dare una chiave di lettura univoca ad un racconto, sia che si tratti di prosa, di letteratura o di canzone. Ognuno deve essere libero di sentire ciò che vuole. Il tuo punto di vista è molto bello, per cui potrebbe essere proprio così.

Forse hai ragione, è proprio questo il bello delle canzoni e, a tal proposito, cito spesso questi versi "Le canzoni sono come le conchiglie, ognuno ci sente il mare che preferisce" tratte da Piano piano, una canzone di Beppe Donadio. Ascoltando la successiva Tra bombe e distruzione, dal titolo mi sarei aspettato una canzone che narrasse, quasi come una cronaca, di qualche guerra di cui la storia ne è piena e, invece, questa canzone mi ha evocato immagini in bianco e nero, quasi fossero tratte da un album di fotografie di famiglia o da fotogrammi di vecchi Super 8, con una sola macchia di colore, suggerita dai versi "la tua gonna preferita, che di rosso si è macchiata / e hai nascosto col cappotto per non essere osservata". C'è ancora il tempo che scorre, il crescere troppo in fretta e tutta l'incertezza della vita, come suggeriscono i versi finali "e non sapere se lo rivedrai, sorridente così". Trovo sia particolarmente bella perché spiazzante e, assolutamente, lontana da ogni retorica, non credi?

La prima cosa che mi viene da dire è grazie per questo bellissimo complimento. Hai colto la vera essenza del brano…  la parte profonda. Il tempo che passa, lo tratto spesso, ricordi Fabio, Il canto di mia figlia? Uno dei brani a cui sono più legato di Cavallo Pazzo. Quando Primo Levi nei suoi racconti parla della sua esperienza nei campi di concentramento, lo fa sempre con una grandissima lucidità e, soprattutto, grandissima dignità. Lo reputo uno degli scrittori più potenti del ‘900. Mai cade nel patetico… eppure di cose orrende deve averne vedute davvero molte. Avessi scritto una cronistoria dei fatti che succedono oggi, non avrei fatto che evidenziare ciò che invece non voglio evidenziare. Ho parlato di una ragazza, anche qui la protagonista è una donna che, nonostante i rischi che corre, sceglie di non abbandonare gli studi. Sa che restare ignoranti sarebbe la peggiore delle condanne, più delle bombe, più della distruzione o della morte; quindi, sceglie tutti i giorni di rischiare, nonostante la sua vita sia nel pieno, in quella che dovrebbe essere l’età della spensieratezza e dell’amore. Il finale, credo, sia molto emozionante con le parole che tu hai citato… saluta suo fratello che parte per la guerra, e non sa se sa se lo rivedrà mai sorridente così. Poi c’è questo coro, come un coro degli alpini, che ci porta lontano, tra le montagne, liberi da vincoli o da catene, un coro pieno di speranza… anche qui l’arrangiamento è stato curato da Giancarlo Capo che ha saputo cogliere l’aspetto più intimo del brano.

Ivan Francesco Ballerini in concerto a Firenze

Sulle pietre del mondo sembra proprio una di quelle canzoni da cantare in autunno davanti ad un fuoco, proprio durante quella stagione di cui tu canti "in autunno riposo il mio corpo, mi ritiro in preghiera / e a chi non ha più lacrime, non ha più parole, col vento asciugo i suoi occhi... consolo il suo cuore". La canzone come quell'olio di cui canta Max Manfredi nella sua Il grido della fata "L’olio è luce, carezza, medicamento, è sapere e sapore antico sul pane, è l’ulivo che muove il suo sistro nel tempo, questo tempo balordo che frastorna cicale”, la canzone come medicamento a chi ne ha bisogno. Non so perché ma mi ha riportato alla mente, forse musicalmente, anche la delicata poesia di Townes Van Zandt. Tutti riferimenti alti. Meglio di tanta immondizia musicale...

Non so se merito queste tue parole così belle… ma grazie. Sulle pietre del mondo parla di un uomo in viaggio, libero, senza costrizioni… cosa a cui ho sempre anelato senza successo. Siamo talmente schiavi di modi di fare, di comportamenti che ripetiamo a volte senza senso, costretti da una società frenetica che ci vorrebbe sempre giovani e performanti. Invece siamo una società di vecchi, spesso malconci, che non si sente più adeguata ai canoni che ci vorrebbero imporre. Sulle pietre del mondo, invece, parla di un uomo libero, svincolato dalle costrizioni, libero di agire e di pensare. Viaggia sulle pietre del mondo a piedi scalzi, leggero come una foglia trasportata dal vento. Nel suo cammino cerca di consolare chi ne ha bisogno e di riflettere su quello che dovrebbe essere il significato della vita, che non è certo correre, produrre e consumare… per poi finire vecchi e sfiancati, quando va bene, in una casa di riposo. Invece il protagonista va lento, pondera le cose, quando è stanco si ritira in preghiera, una sorta di purificazione dell’anima, come gli animali quando vanno in letargo. Ecco, io ascolto musica, ne ascolto molta, ma purtroppo non trovo brani così. Per ascoltare brani che fanno riflettere sulla vera essenza delle cose, devo ripescare nel passato, e detto tra noi, le cose passate mi sono venute leggermente a noia. È questo che mi ha spinto a scrivere, la noia… che è il motore propulsore della creatività. Ma per annoiarsi bisogna smettere di correre, fermarsi. Ma per annoiarsi bisogna smettere di correre, fermarsi. Ma per annoiarsi bisogna smettere di correre, fermarsi. Da ripetere come un mantra.

A proposito di mantra... La guerra è finita è il titolo dell'album e bisognerebbe sempre tenerlo a mente, come un faro puntato sull'intero lavoro e, allora, forse, si apprezzerebbero meglio canzoni come la successiva Perché mai, una splendida canzone d'amore a due voci, la tua e quella di Lisa Buralli. Un amore fatto di aiuto reciproco "Mastico il tuo pane, perché denti più non hai, / e mentre piangi asciugo gli occhi tuoi", di ascolto "Mostrami il tuo cuore per capire tu chi sei, / e raccontami le cose che non so", di ricerca dell'altro "Tendi le tue mani per stringerle alle mie / guardami negli occhi leggendomi di poesie". Perché mai ... uno non dovrebbe desiderare di vivere un amore così?

Il brano in questione l’ho scritto per il matrimonio di Nedo e Janet. Nedo mi aveva chiesto se avessi voluto suonare al suo matrimonio, cosa che a me ha fatto un piacere immenso. In questa bellissima festa non potevo non coinvolgere Alberto… Ma non mi sono limitato a questo, per questa occasione ho scritto Perché mai una canzone d’amore, quello vero, che si basa sulla stima reciproca, e sul desiderio di percorrere la vita insieme. Dal mio punto di vista, suonare per il matrimonio di Nedo è stato un regalo che mi sono fatto, perché l’amicizia, quella dettata dai sentimenti e dalla stima reciproca, è una delle cose, insieme all’amore, più potenti del mondo.

Lisa Buralli e Ivan Francesco Ballerini

Ed eccoci arrivati a Vestire di parole, canzone che trovo meravigliosa per più motivi, perché musicalmente è struggente, perché è piena di poesia e perché mi sembra rappresenti perfettamente il tuo modo di essere cantautore, un artigiano, un cesellatore che attraverso il proprio lavoro certosino riesce a trasformare in bellezza, in piccoli gioielli, anche la sofferenza, il dolore, la morte. Può essere considerata la tua carta d'identità musicale? 

Un altro complimento, così a bruciapelo… grazie, grazie davvero di cuore. Vestire di parole nasce dalla lettura di uno dei racconti più belli e commoventi della letteratura mondiale: Ferro di primo Levi, che si trova nella raccolta intitolata Il sistema periodico. In questo racconto l’autore parla della sua amicizia con il montanaro Sandro Delmastro, un ragazzo di poche parole, che lo coinvolge in alcune imprese apparentemente insensate su percorsi di montagna. Sandro Delmastro vede la fine dei suoi giorni, ucciso da una raffica di mitra, esplosi da un bambino di quindici anni arruolato dai fascisti durante il periodo della Repubblica di Salò. Primo Levi chiude il racconto con queste parole: “è impossibile riuscire a vestire di parole un uomo come Sandro, che amava poco parlare. La sua vita era racchiusa nei suoi fatti”. Ho voluto traslare questo bellissimo racconto in una canzone d’amore, cercando di esprimere il forte dolore che si prova, perdendo una persona amata. Le parole sono uscite fuori da sole, seguendo il giro armonico che magicamente la mia chitarra mi aveva suggerito, un giro che ha una impronta jazz, sognante e malinconico. Riuscire a trattare argomenti, a volte anche pesanti, che la vita ci pone davanti, cercando sempre un linguaggio appropriato, cercando di non cadere mai nel patetico o nel banale… raccontando storie appartenute ad altri, che si mescolano con le tue storie, in una danza continua tra realtà e immaginazione. Questo per me significa fare il cantautore.

Un'ultima domanda. Hai iniziato la tua attività di cantautore in tempi piuttosto recenti, era il 2019 quando pubblicasti il tuo album d'esordio Cavallo Pazzo ed ora, con La guerra è finita, sei già arrivato al tuo quarto disco. Mi sembra che tu ci abbia decisamente preso gusto. In questa tua avventura musicale, in un periodo dove la canzone d'autore è sempre meno al centro dell'attenzione, ti senti più un irriducibile Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento o un Ulisse assetato di conoscenza, alla continua scoperta di nuovi mondi?

Scrivere, se si hanno cose da dire, è molto appagante. Tuttavia, produrre dischi, come ho fatto io, oggi non ha più alcun senso. Per un album come Racconti di mare, mi ci sono voluti circa 20/22 mila euro. Questo per dire che tipo di impegno economico, oltre che intellettuale, ci sta dietro l’uscita di un disco. Non so esattamente cosa farò adesso. Cercherò di proporre le cose che ho fatto sino ad oggi nelle rassegne che ci sono in giro (sono moltissime) e tutte a caccia di soldi. Tuttavia, non restano molte altre strade da percorrere. Locali che fanno musica non esistono più, o sono rarissimi, e non cercano certo nomi nuovi da poter proporre. Questa purtroppo è la fotografia della situazione per ciò che riguarda la musica in Italia. Sto lavorando sodo sullo studio della chitarra, quando ho qualche idea la butto giù, senza nessuna pretesa. E stiamo a vedere cosa ci prospetta il futuro… a volte non si sa mai.

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lunedì, febbraio 17, 2025

Stefano Tessadri - Qualcosa di buio si fa luminoso, da poesia non può che nascere poesia

di Fabio Antonelli

Il 10 febbraio del 2025, anno in cui ricorre il cinquantenario dalla morte di Pier Paolo Pasolini, il cantautore milanese Stefano Tessadri, a ben diciassette anni dal suo precedente album Passione e veleno (2008 Novunque/Universal) ha deciso di tornare sulla scena della canzone d’autore pubblicando “Qualcosa di buio si fa luminoso” (2025 AltRo Records), concept album dedicato interamente al poeta friulano.



Partirei, se sei d'accordo Stefano, com'è mia consuetudine, dalla copertina del tuo nuovo disco dedicato a Pier Paolo Pasolini proprio nel cinquantenario della sua morte, avvenuta il 2 novembre 1975. Prima di tutto questa stupenda fotografia in bianco e nero che ritrae, illuminata da una splendida luce di taglio, una macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 con accanto degli occhiali con lenti scure come quelli che usava Pasolini e un titolo Qualcosa di buio si fa luminoso, che credo si ispiri ai versi "Alle volte è dentro di noi qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia) / qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita: un pianto interno, una nostalgia / gonfia di asciutte, pure lacrime" della poesia Guinea di Pier Paolo. Un titolo che si potrebbe definire un progetto, il riportare in luce ciò che era rimasto per tanto tempo come messo in disparte. Può essere una giusta chiave di lettura? Che ne pensi?

La chiave di lettura è duplice, ciò che tu hai colto è senza dubbio presente nella mia volontà di voler cercare “con i miei piccoli mezzi” di riportare alla luce ciò che in questo paese è stato troppo spesso tenuto da parte. L’altra lettura, anch’essa presente nei miei intenti, è quella di voler descrivere un artista e un intellettuale che ha cercato di far luce “rendendo luminoso” ciò che è sempre stato tenuto volutamente nell’oscurità. Sono compiaciuto che tu abbia colto il riferimento alla poesia La Guinea.

Con Nino e i fiori, la canzone che dà inizio al disco ci caliamo, sia musicalmente sia per la poetica, nel mondo pasoliniano. La si può considerare una trasfigurazione lirica di quella notte che ci ha tolto per sempre un poeta che, come disse Moravia durante la sua intensa orazione funebre, "di poeti ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo"? Trovo meravigliosi i versi "Tutti dicon sia sbagliato / Sul viale un fiore ad ogni metro / Ad ogni metro un mio peccato / Questi fiori m'hanno ucciso" con quella chiosa finale "Perdona e guarda loro in viso / perché i fiori non sanno amare.”

Questa canzone vuole raccontare gli ultimi giorni e l’ultima notte della vita di Pasolini. A questo brano sono molto legato, soprattutto perché è l’unica canzone di cui non sono il solo autore ma che è stata scritta a quattro mani con mio figlio Vittorio “che ha curato insieme a me la produzione artistica dell’intero album ed ha suonato chitarre e mandole”. Siamo partiti da un suo testo che poi io ho rivisitato e da una mia musica che lui ha rivisitato, e da qui è nata Nino e i fiori.



Con la successiva Le cinque rose si prosegue questo viaggio nel mondo poetico di Pasolini, essendo il testo ispirato alla raccolta Poesia in forma di rosa. Personalmente trovo di una potenza inaudita i versi "Io vengo dal passato / vivo è solamente / chi ancora non è nato" che mi riporta alla mente quei versi, altrettanto forti, della morale finale "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa" del film La terra vista dalla lunaPoesia in forma di rosa è senza dubbio un romanzo autobiografico in versi, ma in fondo tutto il cinema di Pasolini è impregnato della sua poetica, del suo essere. Sei d'accordo?

Sono completamente d’accordo. Normalmente, il cinema ha una visione narrativa cioè la visione di uno scrittore, il cinema di Pasolini “per citare Carmelo Bene” è la confessione di un poeta, e il poeta sa essere cattivo e spietato e produce un “guasto” nel singolo e nella massa. Tu prima hai citato il mio verso “vivo è solamente chi ancora non è nato”, questo verso si riferisce sostanzialmente al pensiero che sostiene che la morte comincia nel momento in cui si nasce, come se la vita fosse una lunga agonia, cioè la vita stessa è la morte e nel momento in cui moriamo, non siamo noi che si muore, ma è la nostra morte a morire definitivamente e per sempre.

Il canto delle lavandaie del Vomero non è una canzone tua ma è una canzone popolare napoletana, molto malinconica, risalente addirittura al XIII secolo che fu utilizzata da Pasolini nel suo Decameron, una canzone con un testo molto semplice che nasconde però, molto probabilmente, una valenza politica, una forte protesta nei confronti di una mancata ridistribuzione delle terre (i fazzoletti di cui parla) da parte degli Aragonesi. Prima di tutto ti faccio i miei complimenti per come l'hai saputa interpretare, ma quanto credi sia ancora importante riproporre le canzoni popolari in un mondo che, musicalmente, è sempre più usa e getta?

Le canzoni popolari sono la nostra identità, raccontano di lavoro, di ingiustizie, di amore e di passioni e lo fanno in tutte quelle splendide lingue che sono i nostri dialetti. Dimenticarsi della canzone popolare è un po’ come dimenticare noi stessi e la nostra cultura.

In Tango della verità, credo tu abbia voluto mettere in luce quella che è stata l'attività di Pasolini scrittore, sempre in bilico tra la poesia di denuncia e la poesia d'amore, come fossero due facciate di un'unica medaglia e questo doppio binario lo sottolinei anche musicalmente perché questo tango, in realtà, è tango quando parli di politica ed è più beguine quando si accenna ai sentimenti. Trovo splendida l'immagine "ma le sue canzoni, in fondo nessuno, le voleva sentire" e credo fosse proprio questo il suo cruccio maggiore, il sentirsi solo e incompreso, che ne pensi?

Si, questo era senz’altro un suo stato d’animo che è rivelato in molti suoi scritti. Un’altra cosa che ho voluto sottolineare è proprio il fatto che "le sue canzoni, in fondo nessuno, le voleva sentire", perché sono sempre state “canzoni” scomode, tendevano a svelare quanto di terrificante stava avvenendo socialmente e antropologicamente al popolo italiano.



Con Ricetto si entra a piedi pari dentro Ragazzi di vita, il romanzo forse più conosciuto di Pasolini. Riccetto è il protagonista del romanzo e di questa splendida canzone vagamente sudamericana, di forte impatto. Il tema trattato è il sentimento di pietà che nell'evolversi della vicenda diminuirà con il crescere dell'imborghesimento del protagonista. Più borghesia meno purezza. È questa la chiave di lettura del romanzo e della tua canzone?

Per quanto riguarda il romanzo non posso rispondere, ma per quanto riguarda la canzone hai colto nel segno in maniera ineccepibile. La tematica della pietà era un tema ricorrente in Pasolini, lui riteneva che il sottoproletariato, nel momento in cui si imborghesiva, perdesse moltissimo di quella sua spontaneità e di quei codici non scritti che comunque lo tenevano distante dalla mediocrità di una vita grigia e borghese, riteneva anche che, il sentimento più importante che smarriva fosse proprio la pietà.

Con Fenesta ca lucive si torna alla canzone popolare. Composta nel 1500, fu riscritta nel 1800 da Vincenzo Bellini. Così almeno dicono per via della somiglianza con la melodia dell'Aria finale della Sonnambula. Ma sarebbe più logico pensare che sia stato il catanese a ispirarsi al canto popolare preesistente. Pasolini l'amava tantissimo tanto da inserirla in ben tre film Accattone, Decameron e I racconti di Canterbury. Per me la tua versione con quell'avvolgente clarinetto basso è meravigliosa, un po' come l’aver scelto l'insolita mandola tenore al posto del più classico mandolino in Canto delle lavandaie del Vomero. Come sono nate queste scelte?

Per quanto riguarda Fenesta ca lucive ho voluto sottolineare l’aspetto cupo e barocco del testo utilizzando il clarone basso, per gli intermezzi strumentali, io e Vittorio Tessadri, abbiamo deciso di adattare un tema di Nicolò Paganini. La scelta della mandola tenore nel Canto delle lavandaie del Vomero, è stato sostanzialmente una questione di timbrica, avendo io un registro canoro piuttosto basso, meglio si adatta alla mia voce una mandola invece di un mandolino.



Ed eccoci giunti a Salò, ultimo capitolo della vita di Pier Paolo ed anche del tuo disco, per lo meno di quanto scritto da te su Pasolini È sicuramente il pezzo più teatrale dell'intero disco, in esso hai saputo trattare con grande intelligenza i temi scabrosi dell'ultimo capolavoro cinematografico lasciatoci da Pasolini, che uscì nelle sale quando lui ormai era già morto. Musicalmente si apre con note musicali che mi ricordano la stessa atmosfera con cui si chiudeva il film, quando ad un certo punto uno dei due sacrificati trasformati in miliziani accende la radio e, cambiando stazione, si avvertono le note di Son tanto triste, in quel momento i due abbozzano dei passi di danza fino a quando arriva la domanda su come si chiami la sua ragazza, uno dei due risponde all’altro “Margherita”. Nella canzone emerge un grande senso di orrore senza fine "A questo orrore non c’è fine io lo so / Sarai ospite per sempre qui a Salò" addolcito solo da una musica in pieno stile "telefoni bianchi" ma, ad un certo punto, come nel finale del film sembra esserci una tenue luce finale, una possibile via di fuga, qui emerge una melodia nota, Bandiera Rossa... È stato difficile scrivere di Salò?

Ad essere sincero fino in fondo, probabilmente è stato il brano più immediato da scrivere. Ho immaginato quel clima, sapientemente arrangiato da Ludovico Cicchitelli e il testo è stato tra i più immediati, per quanto possa essere immediato un mio testo… non sono uno che si accontenta facilmente di ciò che scrive. Per quanto riguarda il discorso del finale strumentale di Bandiera rossa c’è una storia a riguardo: nella prima versione del film, nell’ultima scena doveva esserci un ballo improvvisato di tutta la troupe, compreso Pasolini, sulle note della canzone Pinguino innamorato, mentre delle bandiere rosse sventolavano in sovrimpressione. Purtroppo, vennero rubate le pizze del film e il finale originale andò perduto. Così si dovette optare per i due miliziani che danzano.



Il disco si chiude con Cosa sono le nuvole, la canzone resa famosa da Domenico Modugno che chiudeva l'omonimo episodio all'interno del film Capriccio all'italiana del 1968, una sorta di rivisitazione dell'Otello. Confrontarsi con un mostro sacro della canzone italiana come Modugno credo abbia poco senso, ha senso invece omaggiare con grande rispetto sia Pasolini (autore del testo) sia Modugno (autore della musica) e trovo tu lo abbia fatto egregiamente. Personalmente ho sempre amato tantissimo questa canzone rimanendone sempre commosso all'ascolto, compresa la tua versione. Com'è stato lavorare su questo pezzo?

A parte la doverosa deferenza che bisogna avere di fronte a questo incredibile connubio Modugno/Pasolini, è stata una vera goduria! Anche per quanto mi riguarda è un brano che ho sempre amato, tant’è che ho voluto, a grandi linee, mantenere l’arrangiamento originale. Questo brano è stato registrato solo da me e Vittorio Tessadri e ci siamo divisi così i compiti: io chitarra classica, contrabbasso e tastiere, mentre Vittorio guitalele e mandola tenore.

Un'ultima domanda. Credo che realizzare un concept album al giorno d'oggi sia un azzardo, incentrarlo sulla figura di Pier Paolo Pasolini, sebbene nel cinquantesimo della sua morte, ancor di più. Mi tornano in mente i tuoi versi "E intonava più in basso / Forse per farsi capire / Ma le sue canzoni, in fondo nessuno / Le voleva sentire", non ti sei mai sentito in questo stato d'animo nell'affrontare questo ambizioso progetto? Tra l'altro ho letto che ne nascerà anche un recital teatrale, quale sarà allora la strategia che metterai in campo per promuoverlo, in accordo con l'etichetta AltRo Records, con cui hai realizzato questa tua nuova avventura cantautorale a 17 anni dal tuo ultimo album Passione e veleno (2017)?

Affrontando questo progetto non mi sono posto l’obbiettivo di voler arrivare alla moltitudine, a 50 anni non ho più sogni di successo, mi basta cercare di fare le cose al meglio possibile ed esserne personalmente appagato. Stiamo lavorando ad un recital teatrale che dovrebbe andare in scena la prima metà di aprile, sto lavorando a questo progetto con il drammaturgo Diego Zanoni e l’attrice Sara Zanobbio e sono certo che ne verrà fuori una cosa molto interessante.

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martedì, novembre 26, 2024

Giangilberto Monti - Franco Califano il Prévert di Trastevere, una sorta di piccola resistenza umana

di Fabio Antonelli

Il 14 ottobre è uscito “Franco Califano – Il Prévert di Trastevere” (2024 Warner Music Italy), il nuovo disco di Giangilberto Monti in cui l’artista milanese reinterpreta 12 canzoni del Califfo. Si tratta in realtà di un radio-disco uscito in contemporanea con la prima messa in onda da parte della Radio Svizzera Italiana dell’omonimo originale radiofonico, scritto da Giangilberto Monti con Vito Vita, contenente un QR-code che permette l'ascolto del radiodramma musicale sulla app RSI PLAY.  Incuriosito dall’operazione ho subito contattato Giangilberto ed ecco cosa mi ha gentilmente raccontato.



Partirei, se tu fossi d’accordo, come piace fare solitamente a me, dalla copertina del disco per cercare di capire un po’ la scelta che vi sta dietro, capire cosa celi questa foto quasi in filigrana che, dietro il titolo Franco Califano – Il Prévert di Trastevere, ritrae Franco Califano con l’amico Frank Del Giudice.

Sì, quella è una foto tratta dall'archivio di Frank del Giudice, che è l'autore di Tutto il resto è noia ed è una foto che Frank ci ha gentilmente concesso e che abbiamo usato anche per il libro Franco Califano. Vita, successi, canzoni ed eccessi del «Prévert di Trastevere» uscito l’anno scorso. La stessa foto, la stessa immagine, l’abbiamo usata sia per il disco sia per la promozione del nuovo lavoro discografico e poi, naturalmente, dietro a quella foto c'è tutta una storia, legata al periodo in cui il Califfo conobbe Frank Del Giudice, dopo la prima disavventura giudiziaria, colui con il quale riprese a fare le serate.



Hai citato il tuo libro edito nel 2023, quindi l’intero progetto lo si potrebbe definire a tutti gli effetti un’opera multimediale, non è così?

In effetti è un ampio progetto che è iniziato con il libro Franco Califano. Vita, successi, canzoni ed eccessi del «Prévert di Trastevere», scritto con Vito Vita l'anno scorso. Poi è nato il desiderio di fare il radiodramma, poiché io collaboro da tempo con la Radio Svizzera Italiana e quindi in un certo senso mi piaceva raccontare la storia in un altro modo. Nel radiodramma non c'è però una riga del libro, libro e radiodramma sono due cose completamente diverse. Il radiodramma racconta dei passaggi umani, racconta soprattutto la grande amicizia che Califano aveva con Gianni Minà e poi tutto il resto, ci sono le sue canzoni. Quando la Radio Svizzera Italiana ha deciso di inserire le canzoni nella colonna sonora, mi ha chiesto se non avessi pensato magari di registrare qualche canzone di Califano interpretata da me, a quel punto, ci è venuto in mente di realizzare un vero e proprio omaggio musicale a Califano. La Radio Svizzera Italiana ha inserito nella colonna sonora parte di questo omaggio e poi, a quel punto, abbiamo immaginato di fare un prodotto che unisse tutto. Il radio-disco è esattamente questo, cioè un CD che contiene le canzoni che io ho registrato, le versioni integrali e un QR Code che rimanda all'ascolto del radiodramma. C’è stato così un accordo preso con la Warner da una parte che ha pubblicato il radio-disco e la Radio Svizzera Italiana per il radiodramma. Non è stato proprio facilissimo, però devo dire che entrambe le parti sono state molto cortesi nell'accettare questa cooperazione. In fondo sono diversi anni che lavoro più in Svizzera che in Italia, anzi più in Svizzera e in Francia che in Italia. In realtà anche in Italia cerco di fare le cose che mi piacciono, però non sempre riesco a realizzarle nel mio paese.

A questo proposito, il prossimo 4 dicembre sarai a Lugano negli studi della RSI, giusto?

Sì, loro mi hanno concesso uno special che in realtà sarà una trasmissione radiofonica che poi andrà anche in televisione. In questo spazio ovviamente ospiterò, oltre ai musicisti che hanno partecipato al disco, anche il mio coautore del progetto editoriale che è Vito Vita, con cui ho già realizzato in passato il libro Gli anni d'oro della canzone francese 1940-1970 sulla canzone francese e con cui mi piacerebbe continuare a lavorare anche in futuro su altri progetti.

E questo accostamento tra Franco Califano e Jaques Prévert?

Sì, grazie, interessante domanda. Questo accostamento dipende da come io ho cercato di vedere questo personaggio. Quando io ho pensato di scrivere il libro su Califano ho accettato tutto a patto che non si parlasse assolutamente di tutta la sua vicenda personale intesa come gossip, storie d'amore, vicende giudiziarie, che è poi quella che ha prevalso durante la sua esistenza e che ha deviato un po’ lo sguardo da quella che, in realtà, era la sua arte. Il personaggio Califano ha così travalicato la storia artistica, la sua poetica, la sua capacità di scrivere canzoni accoppiandole a poesia. Va tenuto in considerazione il fatto che lui, nella sua vita, ha iniziato con un percorso quasi pasoliniano, agli inizi non era che un ragazzo di borgata che per mantenersi faceva di tutto, persino l’attore di fotoromanzi. Solo più tardi è arrivato a scrivere canzoni, ma la sua storia artistica è stata molto complessa, è stato anche produttore, secondo me andava rivalutata questa parte della sua carriera. Dopodiché io lo so che in Italia Califano è sempre stato molto amato dalla destra e molto poco dalla sinistra ma, secondo me, questa è una stupidata.

Ecco perché questa bella copertina tutta rossa, per ricollocarlo un po’ più a sinistra.

Ma sì, a parte che io non mi ritengo schierato né da una parte né dall’altra. La mia è più una visione anarcoide.

Un po’ come quella di Califano forse.

Beh, in effetti Califano era molto amico di Piero Ciampi ed era poi amatissimo da Fabrizio De André che andava a sentirlo ai suoi concerti, Califano stesso in molte interviste ha difeso De Gregori quando in tanti lo ritenevano troppo ermetico. Sicuramente fu un grande personaggio per quello che è stato e per quello che ha lasciato, considerati anche i grandi nomi che hanno interpretato le sue canzoni. Io, ovviamente, nel mio omaggio ho cercato di dare una visione del tutto originale, non ho fatto delle cover. Con la mia voce, con la mia capacità diciamo di vedere le cose, ho cercato di portarlo su un terreno a me più congeniale, non so se ci se ci sono riuscito. La mia è una visione molto personale che poi, quando presento il progetto, cerco di raccontare. È ovvio che tutte le sue vicende personali, le disavventure giudiziarie, l'uso della cocaina, eccetera ci sono anche quelle, però poi bisogna anche vedere come certe faccende siano andate a finire, non dimentichiamo che in tutte e due le volte che è stato processato e prima ancora è andato in galera, è stato poi assolto, un po’ come successe nei loro processi a Walter Chiari, Lello Luttazzi o Enzo Tortora. Stiamo sicuramente parlando di un personaggio molto più complesso di quello che allora era oggetto di copertine da settimanale scandalistico.



Assolutamente. Tu hai citato il tuo lavoro discografico e, a tal proposito, io trovo l’omaggio a Califano un disco in pieno stile Giangilberto Monti, con sonorità molto francesi, com’è nel tuo stile.

Eh, sì. Io ho cercato di fare quello che so fare.

Credo che se le stesse canzoni di Califano che hai reinterpretato in questa occasione, fossero state inserite ad esempio nel disco dedicato ai tuoi amati francesi non avrebbero assolutamente sfigurato, perché non si discostano più di tanto da quel genere di canzone d’autore, non credi?

Si hai ragione, Tutto il resto è noia, ad esempio, lui la voleva fare in stile Jacques Brel, perché lui adorava i francesi ed era un grande ammiratore di Brassens e di Brel, ma la sua casa discografica non lo permise. Tutto ciò è piuttosto insolito rispetto alle immagini che noi abbiamo di lui, del suo personaggio. In realtà Califano aveva delle aspirazioni completamente diverse da quelle dei personaggi che poi lui stesso frequentava quotidianamente, aspirazioni poetiche. Se ci mettessimo a guardare la vita di poeti come Charles Baudelaire o Arthur Rimbaud capiremmo molto di più la vita di Califano.

Ah sì, sì, sì, senza dubbio, ma volevo chiederti se è stato difficile tirar fuori dodici titoli da inserire nel disco da una discografia così vasta come quella di Califano?

Sì, sì, molto molto difficile. Perché sono tante le canzoni che si potevano cantare. Non tutte ovviamente sono alla mia portata vocale, sono sincero. Altre le ho comunque riviste a mio modo. Mi premeva comunque cercare anche qualcosa che non fosse troppo conosciuto come, ad esempio, Poeta Saltimbanco. Ho inserito canzoni note e altre meno note. La canzone che io preferisco, intesa come riuscita su disco, è Un tempo piccolo che, tra l’altro, unisce il mondo vecchio e il mondo nuovo, perché Califano adesso è molto amato anche dai rapper romani, lo stanno riscoprendo, giustamente. E quindi è un po’ il suo bello, no? E il fatto che ci sia di mezzo il nuovo cantautorato romano è qualcosa di interessante. Io ovviamente faccio quello che riesco, quello che posso…



Lo fai benissimo. La promozione del disco avverrà attraverso dei veri e propri concerti prettamente musicali o sarà un misto tra racconti e canzoni?

Non lo so ancora. Per ora ho apprezzato molto questo spazio che mi ha dato la Radio Svizzera Italiana e, intanto, lo stiamo mandando in giro per l’Italia, vedremo cosa succederà. Certamente è un disco che va anche un po’ raccontato. Nei miei spettacoli uso molto la narrazione musicale, è un po’ la mia cifra artistica, non sono uno che fa concerti nudi e crudi, perché mi piace molto raccontare. Non ho molto a che fare con i miei colleghi, ben più titolati di me che fanno grandi concerti. Il mio mondo è fatto di piccoli teatri, di locali dove ci si ascolta. Non a caso ho avuto un lungo periodo anche nel primo Zelig dove ho imparato anche a rapportarmi allo spazio piccolo. Tieni presente che i miei inizi sono stati da cantautore di quell'epoca, epoca di grandi promozioni, televisioni, radio, concerti e io in quello ho cercato di dare il meglio che potevo e poi, chiaramente la mia ricerca artistica ha continuato, se no che arte sarebbe? Se uno non ricerca cosa sta lì a fare, non vorrei ripetermi 100.000 volte…

Secondo te, questo tuo nuovo disco è più dedicato a chi già conosce Califano o a chi ne è completamente digiuno, come magari quei tanti giovani che neppure sanno chi sia stato Califano?

È il tentativo di mostrare che, attraverso la musica, la forma canzone possa avere un'altezza poetica diversa da tutto quello che c'è adesso. Il mondo che c'è adesso non è certo il mio mondo, quello in cui ho mosso i primi passi. La poetica che c'è adesso nei testi che si possono ascoltare alla radio o in streaming, in Italia almeno, ma comunque in tante parti del mondo, è fatta di testi che riportano delle realtà in modo più diretto, comunque diverso. Esiste però un mondo poetico alto, si può raccontare l'amore in mille modi e Califano lo ha raccontato in modo degnissimo. Io penso che il linguaggio sia importante e quindi anche la scelta delle parole sia importante, il mio disco è in fondo una sorta di piccola resistenza umana, mettiamola così.

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domenica, marzo 24, 2024

Gerardo Pozzi – Ricordati di te, un invito a chi si sente o si è sentito emarginato, non visto, non voluto, non desiderato.

di Fabio Antonelli

Il 17 marzo ha visto la luce "Ricordati di te" (2024, autoproduzione) il quarto disco in tredici anni dal suo esordio con “Sconosciuti e imperfetti” (2011, autoproduzione) di Gerardo Pozzi, cantautore bergamasco da sempre molto schivo nel far conoscere le proprie creazioni musicali, spesso gelosamente custodite nel cassetto. Ne consegue che, quando finalmente si decide a pubblicare qualcosa, è perché davvero vale la pena mettersi tranquilli a sedere e ascoltare con attenzione le sue canzoni.

Partirei come mia consuetudine dalla copertina del tuo nuovo disco Ricordati di te. Non si tratta di una fotografia ma di un disegno, una semplice spirale su un fondo verde, verde come la speranza. La spirale è un antico simbolo universale di amore e crescita e, per chi ti conosce, credo non sia così tanto enigmatico ma la naturale rappresentazione del tuo modo di intendere l'esistenza, purché non si perda mai di vista se stessi, proprio come suggerisce il titolo, quasi un avviso per non perdersi. È così o è solo una mia farneticazione?

Come sempre mi vedi e mi percepisci in profondità. La spirale, simbolo di amore e di crescita come dici giustamente tu, è anche simbolo dell'infinito, della vita che era prima, è ora e sarà avanti, anche "oltre" secondo me. E in tutto questo mistero ci siamo noi, magnificamente imperfetti, a fare parte di questa cosa incredibile. Le canzoni le ho scritte durante il lock-down, e mi sono accorto solo dopo che molte parlavano d'amore, di vita e di morte, quasi che il mio corpo (o una parte di me) sapesse a cosa sarei andato incontro quasi tre anni dopo, affrontando il tumore. Non so mai cosa io voglia dire, con una canzone, perché raramente nasce da un ragionamento. Il più delle volte (se togli Sergej, che vuole esprimere un concetto e una riflessione precisa) è qualcosa di pancia, che esce da qualche parte di profondo che ciascuno di noi ha. Per questo mi capita di dare una locazione solo tempo dopo ad alcune cose che mi escono. Però sia il simbolo che il verde (speranza, sì, assolutamente!) è in strettissima unione con il non dimenticarci di noi stessi. Sento più forte che mai, in questi tempi, il distacco delle persone da loro stesse, la mancanza di auto-consapevolezza: questo può sfociare nel narcisismo più dissoluto ma anche nel suo contrario, nel dimenticarci della nostra dignità e lasciarci calpestare da persone o situazioni che invece non avrebbero, altrimenti, alcun potere. È un invito soprattutto a chi si sente o si è sentito emarginato, non visto, non voluto, non desiderato: ricordati di te, ricordati che esisti, che davvero sei importante per tante persone, anche per lo sconosciuto che saluti al supermercato. Senza il tuo saluto, magari la giornata di quello sconosciuto sarebbe stata peggiore. In questo, sono certo, siamo tutti legati.


Il disco si apre con Addapassà, un brano molto intimo, perché affronta il momento in cui ci si abbandona totalmente al sonno ristoratore, in cui la ragione perde il controllo diretto delle nostre emozioni, dove affiorano immagini a volte incomprensibili "Spiragli dalle finestre / facevano presagire / tre visite indiscrete / di demoni invidiosi senza ragione", forse frutto delle nostre paure. Personalmente, forse per la mia particolare situazione di salute, sogno spesso di essere in ospedale per un improvviso peggioramento, ma credo tu abbia ragione quando concludi con i versi "Scendo dal letto ogni giorno / la gioia cercala dentro e guardala fuori". Come diceva il grande Eduardo "adda passà a nuttata", da cui credo tu abbia tratto ispirazione per il titolo. Si può dire che questo brano rappresenti il punto di partenza di questo percorso di rinascita?

Parlare con te, Fabio, è un piacere enorme perché davvero mi sento, come ti dicevo, molto compreso. Sì, il titolo è preso dall'espressione "Adda passà 'a nuttata", per dire che se teniamo duro, se ci colleghiamo con la nostra tenacia, poi il nostro resistere ci ripaga di luce e stupore. Questa canzone è l'unica che è stata scritta non durante il periodo covid, ma moltissimi anni prima. Ero davvero molto giovane quando l'ho scritta, e neanche me la ricordavo, assolutamente. I miei "provini" all'epoca li registravo su un registratorino portatile che mi avevano regalato, con delle audiocassette, che oggi difficilmente si riescono ad ascoltare. Recentemente, strimpellando al pianoforte, chissà quale giro ha fatto la mia mente, la mia memoria, ma mi è ricomparsa in un lampo questa canzone, persino parte del testo (le prime due strofe). La musica mi è uscita dalle dita esattamente com'era quando l'avevo composta da ragazzo. Pensa tu, i giochi della memoria. È stato invece un bene che non ricordassi le parole delle due strofe successive, così ho potuto finire la canzone con quel che avevo davanti agli occhi e nel cuore: un piccolo dipinto di origine orientale, dove un Buddha colorato di verde medita, tenendosi il polso con una mano (certamente deve avere un significato, come tipico di ogni arte pittorica) e il cranio di plastica su cui ho studiato anatomia, con colori diversi per ogni osso che compone il cranio. Da qui sono ritornato alla sensazione di fatica del prendere sonno, a quel mistero che è la notte ed è il sogno, e poi la considerazione che comunque ogni giorno ci alziamo ed affrontiamo i nostri demoni. E che la gioia sì, certo, va cercata dentro di noi, ma un grandissimo aiuto (fondamentale direi) ci arriva anche e soprattutto dagli altri, dai rapporti umani, così come da un fiore o dallo scodinzolare affettuoso di un cane.

Affrontiamo dunque Sergej, la canzone apparentemente più leggera e scherzosa dell'intero disco, almeno nella costruzione musicale ma che, in realtà è tra le più profonde, proprio come quel mare che inghiotte tutto, cui accenni nel verso finale, quella domanda che non può lasciarci indifferenti "Ma chi che ha figlio in fondo al mare?". Sergej rappresenta ogni straniero denigrato e sfruttato nello stesso tempo e mette in luce tutta la nostra ipocrisia nell'affrontare il problema immigrazione. Io la trovo meravigliosa nella sua semplicità, nel metterci dinanzi le nostre meschinità. Com'è nata?

Sergej è nata per caso, ed è l'unica delle mie canzoni che ha avuto un parto molto lungo. Diversi anni fa, una cara amica aveva in affido un ragazzino della Bielorussia, che passava tutte le estati da lei. Era un bimbo vivace, e una volta, parlandomi di lui, nell'intercalare disse: "E' Sergej..." e aggiunse qualcosa che lo riguardava. Il modo in cui ha pronunciato “è Sergej” è stato come un fulmine: ho pensato subito "posso giocare col nome Sergej e col suono equivocante che può dare il pronunciarlo, scrivendo una canzone che parli di tutte le situazioni di discriminazione e di emarginazione ". Essendo però una cosa pensata e non di pancia, l'ho lasciata decantare per anni. A volte provavo qualcosa al piano ma non mi veniva nulla. Non volevo forzare la cosa ed ho aspettato che venisse lei. Giochicchiando col pianoforte, un giorno mi è venuto da iniziare con un omaggio alla canzone Johnny Bassotto cantata da Bruno Lauzi, e da lì ho proseguito citando tutti i luoghi comuni tipici che si usano contro le persone discriminate, chiunque esse siano. E in due minuti è nato questo pezzo. Mi piacerebbe fosse un faro per tutti quelli che si sono sentiti messi da parte, non visti, denigrati. Una delle più belle canzoni a riguardo credo resti Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano. Avevo paura che Sergej venisse mal interpretata, ma finora invece è stata molto compresa, e sono davvero contento di questo. Molto aiuta il non essere conosciuti, perché allo stato attuale, se un artista famoso cantasse canzoni del genere rischierebbe il linciaggio da "entrambi i lati" dell'estremismo. Oggi sembra che il non perdono ed il giudizio totalitario a prescindere siano le uniche forme di espressione, e questo mi rende davvero molto triste.


Con Anna Göldi, invece, affronti alla tua maniera un tema attualissimo come quello dei femminicidi partendo da un fatto storico risalente al 13 giugno 1782, giorno in cui Anna Göldi, ultima donna in Europa ad essere accusata di stregoneria, fu ghigliottinata a Glarona in Svizzera. La canzone si apre con questi versi "Sono passati quasi 226 anni dalla tua testa mozzata. / Dicono che gli Svizzeri sono precisi come gli orologi: mi sembra una cazzata" e si chiude con questa amarissima constatazione "Mi spiace dirtelo, e tanto più con una canzone pensata sul divano. / Ma la tua morte, le torture ignobili, la testa ruzzolata... / È stato tutto vano. È stato tutto invano". Cosa ci sta in mezzo, che è forse ancora peggio visto che siamo nel 2024? Lo lascio dire a te e alla tua sensibilità.

In mezzo c'è ancora tanto, tantissimo. Da qualche anno giro con uno spettacolo, fortemente voluto dalla mia amica Erica Boschiero (bravissima cantautrice) e costruito insieme al Coro Auser di Treviso (dell'Università della Terza Età) composto da sole donne. Lo spettacolo racconta la storia della posizione e del ruolo della donna, circa da inizio XX secolo sino ad oggi. La cosa pazzesca è che questo spettacolo si basa su documenti e fatti realmente accaduti, e quelli che narrano gli anni '60 sono stati vissuti direttamente da molte delle coriste. Non so dare una spiegazione e non ho alcuna risposta, in merito alla questione della violenza contro le donne, solo una profondissima e inquieta amarezza. Se però ci si concentra anche sulle religioni, che mostrano la storia della cultura di un popolo e/o di una zona del mondo, non ce n'è una che non abbia un'impronta patriarcale (come si usa dire oggi). Forse invidia? Timore? Perché questa necessità "maschile" di sottomettere la donna? Attenzione però: di una certa parte maschile, voglio specificarlo, di qualcuno che ha avuto ed ha potere decisionale. Non è un costrutto di ogni uomo. Le generalizzazioni mi fanno sempre paura. La violenza è umana, non ha genere né confini geografici. Ma quella contro le donne è palese, da sempre. La storia di Anna Göldi ci insegna che dietro un assassinio di questo tipo c'è sempre qualcuno di potente che deve nascondere qualcosa. Nel caso di Anna, il suo ultimo "datore di lavoro", che nonostante sposato e con figlie (di cui proprio Anna si occupava) si era invaghito di lei e non voleva che questa cosa trapelasse, durante il falso processo insistette sino ad ottenere un documento in cui lui specificava (a che pro?) che mai e poi mai aveva avuto una relazione con Anna. E la cosa che più mi ha sorpreso, della vita e della morte di Anna Göldi, è la sua riabilitazione sommessa solo dopo ben 226 anni dal suo omicidio. Oggi sembra che i femminicidi siano in aumento, ma è soltanto perché c'è finalmente in atto una sorta di ribellione (dico finalmente, ma purtroppo le conseguenze sono quelle che sappiamo). Ai tempi delle mie nonne, i mariti picchiavano le mogli, le mettevano incinta con dieci, undici figli, stavano sempre fuori casa, andavano con altre donne, rientravano ubriachi e venivano serviti e riveriti dalle loro mogli-schiave. Nessuna si ribellava, e ai mariti non "conveniva" ucciderle. È una terribile espressione, lo so, ma è così. Oggi, se l'oggetto di "tua proprietà" (perché è questo che si crede) si ribella, se il giocattolo non vuole più funzionare con te, lo rompi o lo butti. Non so da dove arrivi tutto questo, ma è un fatto che esiste. Ribadisco: la violenza c'è in tutti. Io stesso ho subìto uno stalking violento molti anni fa, da parte di una donna squilibrata. Ma questi sono casi singoli, psichiatrie personali. La liceità di avere la proprietà su un altro essere umano, e nel caso specifico sulla donna che accompagna la nostra vita, è invece inammissibile, per me. Spero che la società, la politica, la sociologia e la psicologia possano migliorare le cose, in un futuro che però non sia troppo tardivo.


La successiva Caso mai trovo sia meravigliosa, sin dal suo incipit. Sembra svilupparsi su tre piani, il passato con i ricordi "Il senatùr voleva fare il cantante", il presente con tristi visioni come "Il senatùr si è dato ormai alla macchia, con il suo tripode allontana le zanzare / Mi sembra un vecchio raccoglitore di cotone / Con la chitarra che suona all'imbrunire / La sedia a dondolo che dondola per tutti / Come bilancia, soppesa le stature" ed uno sguardo allucinato verso il futuro "Se un giorno tutto sarà poi mai finito / ci troveremo tutti quanti nelle piazze / come fratelli a sventolar bandiere. / I più spavaldi ne avranno a due colori: / un lato rosse e l'altro lato nere". Anche nel caso di una eventuale rinascita non mancheranno mai i furbi... In che momento è stata scritta e cosa vorresti aggiungere per una migliore interpretazione?

Casomai è un esempio di come (mal)funziona la mia mente… Sono tutte impressioni, sensazioni, immagini che sono confluite in un’unica canzone, che comunque è politica, di base. Era il tempo del covid, e dall'iniziale situazione del "siete i nostri eroi!" riferito al personale medico e paramedico, si stava iniziando a passare al "ci volete ammazzare tutti!". Non era ancora ben chiaro il passaggio, ma lo era per me. A volte capita che, se osservi attentamente la società ed i tempi, il futuro ti si presenti molto chiaro, e così purtroppo è andata. Come nel finale della canzone, prevedevo che la nostra memoria corta (di cui Ennio Flaiano ben ci istruiva) ci avrebbe fatto scordare tutte le bassezze toccate in quel periodo, da qualsiasi lato estremistico fossero arrivate. Leggo ora questa canzone (come ti dicevo, scrivendo di pancia e di getto, certe cose mi si chiariscono solo tempo dopo) come una associazione di idee sui paradossi di noi esseri umani. La mia testa è partita col ricordo di quando il fondatore della Lega voleva fare il cantante, ma essendo stato scartato ha virato verso la politica, che a sua volta gli ha voltato le spalle non appena ammalato. Cosa c'è dietro tutto questo bisogno di arrivare, a prescindere da cosa siamo nella realtà, tanto che se non divento famoso in una cosa voglio diventarlo in qualsiasi altra? Che mancanze ci sono, in situazioni come queste? E come si fa a vivere in una realtà come quella della politica di chi ci governa, fatta di così tanta ipocrisia e distacco emozionale e relazionale? Poi i miei pensieri sono andati a chi aveva il terrore del covid, poi verso coloro che denigravano chi ne aveva paura, poi ho pensato al lato positivo del blocco di ogni lavoro: erano diminuiti/scomparsi anche certi delitti, certi regolamenti di conti, visto che i bar erano chiusi e nessun motociclista col casco e col mitra poteva ammazzare nessuno. Poi ho appunto immaginato che alla fine avremmo (come forse è giusto?) dimenticato tutto quanto, saremmo ancora scesi nelle piazze "amandoci" tutti quanti, e tra i tanti, molti avrebbero nascosto -come spesso- i due lati della politica, per poter salire in ogni caso sul carro del vincitore. È un po' una fotografia di certe caratteristiche di noi italiani. In fondo, critico o provoco solo se non comprendo gli atteggiamenti di chi amo. E le persone, nonostante ne abbia una paura infame, sono la cosa più preziosa nella mia vita. Con l'espressione "...politica di chi ci governa" intendo tutta la politica, non un partito o una posizione. Ho l'impressione (senza rischiare di diventare generalista) che molti di quelli che aspirano ad arrivare così in alto abbiano questo come obiettivo, non il bene degli italiani. Lo stesso vale per ogni ambito dove esista una gerarchia e si debba "scalare" per arrivare alla vetta. Questo scalare comporta quasi sempre lo schiacciare, l'eliminare chi ti era vicino sino a poco prima. Che personalità devi avere, per farti piacere un mondo così?

Passiamo a Sciabola. Musicalmente ha un andamento continuamente mutevole, come mutevole è il paesaggio per chi è abituato a muoversi in bicicletta, magari non con il passamontagna come il protagonista, ma "Di solito è così, col passamontagna, che la sera / vanno in giro i pazzi". Il testo narra di un incontro tra il "pazzo" in bicicletta e una donna che deve averlo sentito arrivare e per questo è uscita in strada, c'è un saluto quasi urlato da parte di lui e il "terrore" sul volto di lei. Il protagonista prosegue imperterrito "oltre il fosso / a bestemmiarmi addosso". Sembra di essere dentro un thriller. Quanto ti senti incompreso, considerato un pazzo e, perché hai intitolato questa canzone Sciabola?

Mi sono sentito molto incompreso, in passato, a causa della storia che ho avuto e dell'ambiente in cui sono cresciuto. Oggi meno, oggi cerco di volermi un poco di bene (me lo devo imporre però) e allora mi sento anche un po' meno incompreso. Artisticamente mi piacerebbe che questo fragile mondo che ho dentro arrivasse un po' di più, ma capisco che sia difficile, anche perché il mio modo di esprimermi non è che sia proprio orecchiabile o estetico... Rispetto alla canzone, è nata da un fatto grottesco che ho vissuto in prima persona, del quale sono fautore in tutto e per tutto. Devi sapere che nelle zone dove abito io, il saluto è più raro della moltiplicazione dei pani e dei pesci. A me hanno insegnato a salutare chiunque incontri, ancor più se sconosciuti, è un bel modo per augurare salute (salutare è proprio questo, etimologicamente parlando), ma nelle mie zone se saluti qualcuno che non ti conosce, quello o ti guarda con superiorità, o con preoccupazione, del tipo "Cosa vorrà questo, da me? Di certo vuole rubarmi qualcosa!". Quella sera in cui sono uscito in bici, conciato come non so cosa, e per il freddo avevo anche un passamontagna, ho incontrato l'unica persona che avrebbe anche risposto al mio saluto, ma immaginati questa signora anziana che esce di casa, si trova davanti uno in bici tutto imbacuccato, col passamontagna e in più (ti giuro!) che sta parlando da solo a voce alta. In realtà stavo ripetendo "Andare camminare lavorare" di Piero Ciampi, ma senza cantarla (per la signora sarebbe stato molto meno pauroso, credo); stavo ripetendo il testo a voce, ad alta voce per giunta, per darmi un ritmo nella pedalata, fa un po' tu... La signora si è ritrovata davanti uno come me, ed io (che ero in imbarazzo per stare parlando da solo ad alta voce col testo di Ciampi) l'ho salutata con ancora più enfasi, per mascherare il mio imbarazzo. La signora ha pure risposto al mio saluto (cosa, come ti dicevo, rara, qui) ma lo ha fatto con un volto terrorizzato, è come se avesse risposto "buonasera" con la voce, ma gli occhi chiedevano "pietà! non mi ammazzi!"... Poverina, l'unica persona gentile l'ho spaventata a morte. Non poteva che nascere una canzone, e così al mio rientro a casa è nata Sciabola, il cui titolo ricorda il momento veloce con cui è successo tutto. Per esteso, i momenti di invisibile incomprensione che abbiamo così spesso tra noi esseri umani...

Personalmente la successiva canzone Dov'è finito l'amore del mondo è di una bellezza lacerante, non c'è volta in cui io l'ascolti e riesca a non piangere, la triste melodia che affonda i colpi nel cuore si fonde con dei versi che da una parte sottolineano un incredibile desiderio di amore "Sono venuto a cercarti anche in chiesa, amore mio / Sono venuto anche in chiesa ma non mi ha aperto nessuno", dall'altra descrivono momenti di apparente assenza totale dell'amore "C'eran camini che fumavano di carne mai vissuta / e quest'aria assassina e muta noi la respiriamo ancora". Immagini tragiche che però non ci hanno insegnato nulla. Direi quasi rassegnati i versi finali "Se ti sei nascosto, Amore Mio, lo sai che ti ho capito?". Non voglio aggiungere altro, per me è poesia allo stato puro...

Ti ringrazio tanto, Fabio. Grazie per quel che mi scrivi e per come lo scrivi. C'è qualcosa che anima questo mondo, queste nostre vite. Che lo si chiami Dio, Energia o in qualunque altro modo. Io credo semplicemente sia l'Amore. E noi, nonostante tutte le discrepanze, i paradossi, le oscenità di cui siamo capaci, e forse anche per tutte queste cose, ci siamo dentro, in questa sorta di amore infinito che muove l'universo. Ne facciamo parte, ne siamo parte. È anche in noi. Se l'abbiamo perduto, è in noi che lo possiamo ritrovare. In noi e nei rapporti con gli altri esseri umani, con la natura, con gli animali e tutto ciò che fa parte di questo mistero. Una delle cose più belle che ho letto è che "Uno è Tutto e Tutto è Uno". Potessimo ricordarcelo più spesso...


Se l'Amore a volte sembra davvero difficile da riscontrare, il male no, quello lo si incrocia quasi quotidianamente, anche se a volte si maschera molto bene. Battiato cantava che "Il diavolo è mancino, e subdolo. E suona il violino". Tu, in Fangù, pur dicendo di voler credere al bene lo vedi nella gente che "si fa furba e sorridente / mentre con la terza mano lei ti sfila piano piano / tutto il cuore che ti invidia...". Per fortuna, però, la maturità ti ha portato a concludere la canzone così "Ora posso anche scordarti. / Io non voglio più vederti... E adesso posso!". Posso non coincide con riesco, quante volte capita di farsi fregare comunque dal male. In fondo, sin dal titolo, la canzone sembra essere più un'esortazione... È così?

Sì, è così. Ci si trova sommersi tra lo stupore di fin dove possano arrivare certe azioni della gente, ed il cercare a tutti i costi di voler comprenderne gli eventuali significati reconditi, che però spesso, semplicemente, non ci sono. Qualcuno definiva l'invidia una evidente manifestazione di inferiorità. Paolo Villaggio sosteneva che l'invidia era un sentimento umano, e per tanto appartenente a tutti, e su questo è impossibile non essere d'accordo. Ma ci sono invidie e invidie. Un conto è voler avere quella bella caratteristica di qualcuno che ammiri, un conto è volere che questa persona fallisca per poter gioire del suo dolore. Purtroppo, ci sono persone così irrisolte che si sentono vive solo quando vedono gli altri a terra. A mio avviso è sempre una questione di disturbi della personalità, ma ad ogni modo si manifestano con questa umana ferocia. A un certo punto però, l'attaccamento a quella persona o situazione o dolore può (e deve) anche andarsene. Dove, lo dice tra le righe il titolo della canzone...

Pienamente d'accordo. Eccoci arrivati ad Actarus, dolcissima canzone sospesa tra la nostalgia di un passato irrecuperabile "Actarus nel cielo si spiaccica sul muro / Nella stanza dei miei sogni non vola più nessuno / Ci sono solo fari e sirene sempre accese / che puntano negli occhi illusioni mai sospese" e il desiderio mai sopito di ricevere amore "Le cime delle cime han profili profanati / sono cinquant'anni e imploro ancora amore". Ë proprio vero che il passare degli anni non affievolisce mai il desiderio di amore e, chi è più sensibile di altri credo ne soffra maggiormente la mancanza, vero?

Vero. La fame e la sete di amore, di affetti, credo che non finisca mai. Se poi non ti sono arrivati quando ne avevi bisogno (quando eravamo bimbi, fragili e senza protezioni), allora questa fame e sete atavica ti accompagnerà finché vivi. E difficilmente qualcosa potrà colmarla. È un fatto che rasenta l'incomprensibile, ma fatto rimane. Una solitudine interiore difficilmente spiegabile. L'essere umano è una dicotomia tra il bisogno d'amore e la sua stessa paura. Di amare e di essere amato. E magari la vita vola alla velocità di uno starnuto e ti accorgi a cinquant'anni che questo bisogno è ancora vivo. Però se ti guardi intorno, non dico in te stesso (non tutti riescono) ma anche solo intorno, e ti permetti di accettarlo, di amore ce n'è davvero tanto. Nei gesti piccoli, in un sorriso, un saluto, una frase che diamo per scontata ma scontata non è: l'amore c'è. L'amore vive.

Siamo in dirittura d'arrivo, perché La vita va, intercalata dalla brevissima Ricordati di te (quasi un appunto, ma di vitale importanza), prima di una dolcissima ripresa del ritornello da parte delle tue figlie, rappresenta direi la chiusura del cerchio. La vedo quasi come una cantilena consolatoria, un antidoto da cantare nei momenti di debolezza in cui si rischia di ricadere nei soliti errori. "La vita va, è una candela / ci soffia sopra un vento di infelicità / La vita va, traballa sempre / ma lei è testarda, forse non si spegnerà" recita il ritornello, intercalato dalla constatazione di un male interiore che ti trascini da sempre, con la consapevolezza però, di voler finalmente cambiare e il disco, con la ripresa del ritornello da parte delle tue figlie, che rappresentano ovviamente il futuro, non poteva desiderare miglior finale, non credi?

È esattamente così. La vita corre veloce, fragile e zoppicante, ci porteremo per sempre dentro di noi le conseguenze di mancanze, di presenze, di ferite a freddo, senza anestetico. Eppure, così come siamo, esattamente così come siamo, possiamo chiudere con una certa parte della nostra storia (che non vuole dire che non abbia più effetti su di noi, ma che possiamo conviverci pienamente e con senso) e ricominciare. Nasciamo e rinasciamo in continuazione. E ogni volta è una speranza in più. E i bimbi, e tutti quelli che verranno dopo di noi, continueranno molto più e molto meglio di noi. Ho letto dell'esistenza di una tribù dove, quando uno compie un errore, viene messo al centro di un cerchio di persone, e a turno queste persone gli dicono tutte le bellezze che ha, tutte le ricchezze, i pregi, le caratteristiche positive e uniche. Che bellezza poterlo fare anche noi. Con gli altri ma anche e soprattutto con noi stessi (in questo caso gli altri sarebbero una conseguenza naturale). Perciò sì, guardiamo con amore a questi meravigliosi bimbi che sono il futuro e il presente. E ricordiamoci di noi!

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