di Fabio Antonelli
E’ da poco uscito il magnifico disco “La prima volta” di Filippo
Andreani (disco autoprodotto e distribuito da Mastermusic), dopo l’importante
esordio con “La Storia Sbagliata” (un concept album – tra storia e fantasia – sull’incredibile
vicenda del Capitano Neri e della staffetta Gianna, partigiani della 52esima
Brigata Garibaldi operante sul Lago di Como - Nodo Libri / I Suoni 2010) e il
successivo “Scritti con Pablo” (Lucente/Many/ Venus 2011), un po’ i suoi
scritti corsari per dirla alla Pasolini. E’ a tutti gli effetti, il suo terzo
lavoro ma, come suggerisce il titolo, per vari motivi si potrebbe quasi considerarlo
“la prima volta” di Filippo Andreani. Non voglio però anticipare nulla del
contenuto di questa intervista, leggetela, credo ne valga davvero la pena, così
come vale la pena cercare di portarsi a casa il suo disco, che di così belli e
toccanti non capita poi tanto spesso di ascoltarne.
Mi piace solitamente iniziare le interviste partendo dalla copertina
del disco, perché è un po' come fosse il biglietto da visita di un nuovo
progetto musicale. Com'è stata concepita e perché hai voluto intitolare il
disco "La prima volta"?
Perché è "la prima
volta" che, artisticamente parlando, riesco a essere davvero me stesso. Il
che non è affatto scontato. Almeno non lo è stato per me. A un certo punto mi
sono accorto che - per paura di mostrarmi per intero - ero finito ad assomigliare
a tutti tranne che a me stesso. Mi è costato molto ammettermelo ... ma è stato
bello "tornare a casa" e poi questo è stato un anno di tante prime
volte: non ultima, è stata la prima volta che qualcuno mi ha chiamato papà. La
copertina è stata disegnata da un amico tatuatore di Roma ed è ispirata a
"Il coraggio del pettirosso" di Maggiani. Quel coraggio che ho
ritrovato, per la prima volta dopo tanto tempo.
Copertina disco "La prima volta" |
Beh, direi che c'è un cambio di registro notevole rispetto ai tuoi
lavori precedenti, sinteticamente potrei dire che s'è persa un po' di quella
cantautoralità un po' ingessata e a tratti autoreferenziale che sa di stantio
per dare aria e ossigeno alla musicalità, sia attraverso sonorità più
elettriche sia attraverso un cantato più libero, non so se condividi questa mia
impressione.
Condivido in pieno, però non
rinnego niente di quello che ho fatto. Sai, troppe volte ci si sofferma sulla
forma ... parlo soprattutto della critica ... in molti hanno sottolineato i
difetti di cui parli riferendoti ai miei lavori passati, mentre nessuno o quasi
si è soffermato sulla sostanza. Cosi, le storie della Gianna e del Neri, quella
di Aldo Bianzino, di Licia Pinelli e di altri, sono rimaste dov'erano prima
(nel dimenticatoio), mentre tutti erano occupati a darmi dell'emulatore di un tale
di Genova. Questo non mi è piaciuto granché. Ma tant'è. In ogni caso, io stesso
ho voluto discostarmi da quel tipo di sonorità ... del resto ci sarà un motivo
se in casa ho una gigantografia di Strummer e non di De Andrè. La mia vita l'ho
spesa con i Clash nelle orecchie, non con “Anime Salve”.
In Italia, se tu noti, si finisce sempre per essere accostati
musicalmente o a De Andrè o a Paolo Conte così poi, come dici giustamente tu,
spesso si perdono di vista i contenuti e qui, in questo nuovo lavoro ci sono
davvero storie e personaggi raccontate con grandissimo senso poetico. Cito due
canzoni "Gigi Meroni" e "Numero nove", due gioielli per
scrittura, solo apparentemente dedicate al mondo del calcio ma lascio a te la
parola ...
Nascono in due momenti differenti
della mia vita. Comincio dal Borgo: l'ho conosciuto all'Ospedale, dove per
disgrazia era il compagno di stanza di mio papà, anche lui affetto da SLA. Poi
il papà se ne va su una nuvola e il Borgo resta. Lo ritrovo allo stadio
Sinigaglia. Io e altri amici della Curva eravamo in campo con lui, con le
nostre bandiere e i nostri sorrisi ingessati. Mica potevamo far vedere che
dentro piangevamo come bambini. Quando siamo arrivati sotto il nostro Settore,
Stefano ha guardato l'inferriata. Ero li, l'ho visto. In quel punto si era
appeso per la storica esultanza dopo il gol contro il Milan. Parlo degli anni
ottanta. Voleva risalirci. A quel punto vaffanculo alla decenza: mi sono messo
a piangere come un bambino. Poi sono tornato a casa e ho scritto quella canzone.
Per Gigi è stato diverso, meno traumatico senz'altro: la sua figura mi ha
affascinato sin da bambino. E poi ho conosciuto quest’amore incredibile per la
bionda del Luna Park, Cristiana. E poi c'è Como, Genova, Torino. Il lago, il
porto, la fabbrica delle auto. E poi c'è il Toro, che nella mia testa non è una
squadra di calcio: è una poesia, è il popolo che ride e che piange e, i
torinisti, a dir la verità, hanno sempre pianto tanto proprio quando stavano
per ridere. Da Mazzola a Meroni.
E' vero sono due canzoni diversissime fra loro ma altrettanto toccanti,
bellissime. Altrettanto emozionante e portatrice di lacrime credo sia
"Lettera da Litaliano", dedicata a Piero Ciampi. A lui tantissimi
hanno dedicato canzoni ma non credo proprio che tu l'abbia scritta per moda,
com'è nata?
Da “Adius”. Uno per scrivere “Adius”
non deve essere solo disperato, deve avere il cuore devastato, non nel senso di
incapace di amare, ma nel senso di definitivamente rassegnato a non essere
amato. Il che, credo, deve essere molto peggio.
Ne è nata una canzone d'amore struggente, un canto a quell'amore che
avrebbe potuto essere, ma non è mai stato. E' cosi?
Si, proprio cosi. E per
introdurla ho trovato una vecchia registrazione televisiva di Ciampi, nella
quale diceva un'altra cosa terribile: "Per capire cos'è la solitudine,
bisogna essere stati in due". Forse è banale ma quel verbo al passato
rivela un tormento vero, reale, inguaribile, senza alternativa.
Perché hai voluto aprire il disco con “Canzone per Delmo” e perché una
canzone dedicata ad Adelmo Cervi?
Quella canzone è stata il regalo
per i settanta anni di Adelmo. La sua storia la conosciamo tutti, in pochi
conoscono invece la luce che ha negli occhi: una luce triste, da bambino
abbandonato. Adelmo mi ha fin da subito ispirato tenerezza e quella è una
canzone che parla soprattutto di questo: della tenerezza mancata tra un padre e
il suo bimbo.
Foto di Antonio Spanò Greco |
Questa canzone ti vede duettare con il grande Marino Severini dei Gang,
ma non è assolutamente l’unica collaborazione in questo disco vero? Dirò un
altro nome tra i tanti, Sigaro della Banda Bassotti che ha prestato la sua voce
particolarissima in “E Roma è il mare”, un’altra canzone meravigliosa che nasce
sempre dai ricordi. Raccontami la genesi di questa canzone che, forse, non è solo
una canzone di ricordi ma un’esperienza di vita che prosegue giorno per giorno?
No?
Prosegue, si: per mia fortuna
continuo ad avere gli stessi cattivi maestri e le stesse cattive
frequentazioni. Roma, per uno che abita a Valmorea, è l’oceano. Io in quell’oceano
ci ho nuotato insieme ai Bassotti, agli All Reds, ai libri di Valerio Marchi,
alle storie brutte di Verbano e di Biagetti. Mi sento di appartenere a quella
parte di oceano. Quella parte profonda in cui ogni giorno nuotano gli amici
miei.
La memoria ha un peso notevolissimo in questo disco così come l’ha
avuto anche nei dischi precedenti. Mi viene in mente un’altra grande figura
d’uomo, prima ancora che di calcio, che appunto ricordi con versi di dolcissima
poesia, mi riferisco a Gianni Brera e alla canzone che gli hai dedicato “Che la
terra ti sia lieve”. Quanto credi che manchi oggi una figura come quella di
Gianni in termini di valori? Soprattutto a uno come te che, giusto per citare i
tuoi versi in “E Roma è il mare”, canti “Tra Mazzola e Rivera, avrei scelto
Vendrame”.
Guarda, l’ha spiegato bene Gianni
Mura, coniando l’espressione “senzabrera” per descrivere quelli che, come noi,
ne sentono la grande mancanza. Brera manca. È un dato di fatto per chiunque
viva lo sport come fatica e passione; ma anche per chiunque continui a
sostenere che la zuppa pavese – se fatta bene – vale un’aragosta. In
definitiva, manca a chiunque si ostini a innamorarsi della semplicità. Per
fortuna che ha un grande erede e che questo “figlio”, Gianni Mura, abbia preso
dal “padre” tutti i migliori pregi.
Un altro contributo molto originale viene da Steno dei Nabat che ti
accompagna in “Tito”, qui il protagonista dei ricordi sei tu stesso lungo il
corso degli anni, partendo da quando eri bambino e tua madre ti chiamava Tito
per finire con il guardare il futuro. Com’è questo bilancio dei tuoi primi
quasi quarant’anni, ma soprattutto come vedi il tuo futuro?
Passo molto tempo a pensare a me,
a quello che ho fatto, a quello che faccio e a come lo faccio. Il motivo è che
mi sono imposto di morire da galantuomo (ce la farò?) e che la galanteria va
costruita giorno per giorno, con attenzione. In “Tito” parlo a quel Filippo cui
sono solito rivolgermi guardandomi allo specchio. Quanto al futuro … il mio
coincide con l’età di mia figlia: è per lei che vivrò altri cento anni. È
banale e retorico, ma io sono banale e retorico quando parlo di lei. Mi ha
sfasciato il cuore.
Di ricordo in ricordo, c’è un altro personaggio magari sconosciuto ai
più ma che ti ha segnato, ne canti insieme a Rob dei Temporal Sluts nella dura
“Veloce”, ti va di parlarne?
Angelo Tagliabue all’anagrafe;
Speedy Angel nelle note dei dischi dei Potage. Una persona davvero perbene, un
semplice, uno vero. Un uomo entusiasta, soprattutto. “Veloce” è una lettera per
lui, che è andato via troppo presto. Speedy era … è un esempio del vecchio
adagio che loro stessi (i Potage) cantano in una loro canzone, “Vecchi Punk
Rockers”: non importa saper suonare, ciò che conta è avere qualcosa da dire. Un
atteggiamento che adoro e di cui io stesso faccio la mia bandiera.
Fotto di Enrico Levrini |
Il disco però non guarda solo a ciò che è stato, anzi si chiude con una
dolcissima e poetica canzone che ci parla soprattutto di futuro, di un’intera
vita da vivere davanti. Il titolo è una data che penso, ricorderai per sempre
nella tua vita, il giorno in cui è nata Annarella. Trovo adorabile questa tua
canzone a partire dalla citazione di una delle più belle canzoni di Pierangelo
Bertoli, non voglio aggiungere altro, vorrei che fossi tu a parlare di questa
canzone.
Grande Fabio che l’hai colta!
“Dal vero” è davvero una grande canzone. Quella canzone è stata scritta fuori
dalla sala parto, prima di entrare per accogliere la mia piccolina. Ero a
Varese (che per un comasco sfegatato come me equivale a una trasferta
importante) a giocare quel mio “derby da ospedale”, e in quel momento mi
sentivo accanto alla mia mamma (“che ha trovato un porto dopo la tempesta”),
mio papà (“che nuotava al largo e se l’è preso il mare”), mia moglie (“che se
dovessi reinventarla la farei dal vero”). Insomma, tutti lì ad aspettare che
Annarella arrivasse. Poi, alle 22.22 precise del 30.01.2014 eccola tra le mie braccia.
Uno a zero per noi, rete della piccola Andreani!
Vorrei chiudere con una riflessione, s’è detto più volte che questo
disco è un disco di ricordi, di pensieri legate a persone che hanno lasciato un
segno. Un disco che per altro sta davvero raccogliendo notevoli consensi di
critica. Quanto è importante non dimenticare?
Non credo sia importante, quanto
necessario. Gli alberi che non hanno radici cadono al primo vento. Per quanto
mi riguarda la Storia
è maestra di vita. Senza, non saprei in che direzione camminare.
Nel ringraziarti per la grande disponibilità dimostratami, perché so
dei tuoi molteplici impegni poiché purtroppo come tanti bravissimi artisti non
hai il privilegio di vivere della tua arte, vorrei solo chiudere con una
battuta. La prossima volta che ti attingerai a scrivere un nuovo disco non
farmi più pianger così perché se no ti addebiterò il costo dei fazzoletti di
carta.
Sono io che ti ringrazio del tuo
tempo. Quanto ai fazzoletti, non usarli: fai vedere a tutti, con orgoglio, che
hai pianto. Siamo circondati da uomini
che non lo fanno mai. Poveretti.
Links:
Video del singolo "CANZONE PER DELMO (feat. Marino Severini -
Gang)":