Cesare Basile: “Cesare
Basile”
Lanciato a bomba contro
l’ingiustizia!
di Fabio Antonelli
“Vinni a cantari e
cantaturi sugnu
annintuvatu pri tuttu
lu regnu
di quantu cantaturi
chi ci sunnu
tutti custritti 'nta
un pugnu li tegnu
quannu cantu cu tia
nun mi cunfunnu
suddu canti cu mia cci
ha' aviri 'mpegnu
cantami zoccu voi ca
t'arrispunnu
d'amuri, gilusia,
spartenza e sdegnu”
Così si apre, dopo una lunga
introduzione di chitarra acustica e una fase di transizione costituita da
ripetitive e ostinate percussioni intrecciate a ricami di violino, questo nuovo
album di Cesare Basile.
E’ chiaramente un’aperta
dichiarazione d’intenti cantata con voce tagliente e che non lascia spazio
all’immaginazione, s’intuisce da subito che sarà un viaggio tra lacrime e
sangue, tra amore e morte, tra padroni e sfruttati, ancora una volta saranno
proprio gli afflitti, i veri protagonisti di queste storie. Questi afflitti forse
non saranno beati come nel famoso discorso della montagna, ma ne usciranno a
testa alta, con lo sguardo fiero rivolto sempre verso la libertà.
Il disco, questa volta, non ha un
titolo evocativo ma s’intitola, per una volta, semplicemente “Cesare Basile”, ma non è certo una
scelta di ripiego o una mancanza di vena creativa ad aver portato l’artista
catanese a questa scelta, si tratta piuttosto il tentativo di rendere ancora
più tangibile la piena aderenza tra quanto è cantato e quanto è stato pensato
in fase di stesura da Cesare. E’ senza dubbio il “suo” disco per eccellenza, direi
il disco "siciliano" di Cesare Basile, non solo per il fatto di aver
utilizzato il suo dialetto per la maggior parte delle canzoni, ma perché queste
sue canzoni, anche quelle in italiano, sono pregne della sua Sicilia.
Cesare Basile è da un po’ che ha lasciato
Milano per seguire l’Arsenale, una
libera federazione di musicisti, di arti e di mestieri, che vede nel territorio
siciliano un luogo di rinascita febbrile di attività, di pensieri, di scambi
culturali tesi a rifuggire ogni tentazione di abbandonare questa terra arsa e impoverita
anche culturalmente, cercando invece di farla rinascere partendo proprio dalla
cultura intesa, una volta tanto, come risorsa e non come una voce di spesa.
E’ quindi tornato a Catania,
diventando protagonista con altri compagni di lotta, dell’occupazione e
riapertura di un cantiere che era in abbandono, con l’intento di riqualificare,
come luogo di produzione e formazione culturale, una parte dell’area dell’ex
Teatro Coppola.
Tutto ciò solo per cercare di
inquadrare quest’opera nel suo humus, perché direi che questo disco è come quei
vini di qualità che risentono al 100% del terroir da cui nascono.
Lo stile di Basile in questo
disco è sempre più scevro da contaminazioni e legami, direi anzi che ormai
segue le proprie orme infischiandosene altamente di mode e costumi.
Provate ad ascoltare “Parangelia”
e ve ne renderete immediatamente conto, la canzone è dedicata a Katerina Gogou, poetessa anarchica
greca morta suicida nel 1993 all’età di cinquantatre anni e protagonista nel
1980 del film “The order” (Parangelia) di Pavlos
Tassios in cui è ricostruita la vita di Nikos Koemtzis che nel febbraio del 1973 (appena uscito dal carcere
dopo aver scontato una pena per furto) si trovava in un locale a bere con il
fratello, quando quest'ultimo decise di farsi uno Zeibekiko (una danza dell’Asia
Minore che si balla in forma di assolo) come consuetudine, "ordinò"
la sua canzone preferita al gruppo di musicisti e si mise a ballare da solo in
mezzo al palco. Un tizio che sedeva a un altro tavolo all'improvviso si alzò e
(affronto!) cominciò a ballare insieme a lui, al che Nikos Koemtzis impazzì per
l'onta subita dal fratello e iniziò ad accoltellare gente: alla fine ne lascerà
a terra tre, più altri otto feriti. Le cose per il nostro eroe si misero subito
male, soprattutto quando venne fuori che quella era una comitiva di sbirri in
borghese, così Koemtzis fu condannato a un totale di tre esecuzioni e sette
ergastoli. Mi sono dilungato nel raccontare il contesto, perché rende
comprensibile la scelta di percussioni ossessive, chitarre distorte, la voce
roca e tagliente, versi affilati più della voce “Ora che il trucco / scorre piano / sul fondo del mio volto / con il
muco e il pianto / il sole dentro al brandy / dove non c'è il mare / guarda con
calma / le mie unghia / i miei capelli e gli anni / che son sporchi e lunghi /
e non m'importa un cazzo / anche se ho paura / ma io / io ballo ancora una
richiesta / io ho una richiesta da ballare”. Non vado oltre, ma penso di
essere riuscito a rendere l’idea dello spessore di questa canzone.
Non è però l’unica grande
canzone, pensate un po’ che la seconda traccia “Canzuni addinucchiata“, narra la storia di una donna costretta in
ginocchio per tutta la vita per lavorare, pregare, essere sfruttata e usata
sessualmente. Quando, in morte, viene messa nella bara, sarà persino diventata
incapace di starci distesa “Dintra o
tabbutu o scuru unn'aju abbentu / nunn'aju piaciri a stari stinnicchiata / è a
prima vota e ccu mill'ava diri / calatimi nta fossa addinucchiata”. Qui la musica
assomiglia a un blues di quelli che gli schiavi neri intonavano nei campi di
cotone, che però lentamente sembra crescere come un canto epico a testimoniare
un incontro con la morte a testa alta. Direi anche che la storia di sofferenza
di questa donna non è certo da meno di quegli schiavi, se poi è possibile “misurare”
la sofferenza.
“Nunzio e la libertà” è
un canto dolente che ci parla ancora una volta di lotta per la libertà e in cui
italiano e dialetto si alternano sapientemente e dove, forse, ancora una volta
è il dialetto ad avere un più forte stampo evocativo “Nun su' càusi li cammisi, / Li sbirrazzi tutti 'mpisi / Tutti 'mpisi
li sbirrazzi, / Li piccieri nun su tazzi. / 'E nutara cutiddati, / Li cutedda
nun su 'spati. / Nun su' spati li cutedda, / Lu panaru 'unn'è crivedda”.
Splendida, nel suo incedere lamentoso, è “Marilitta
carni”, una canzone che cerca di dare voce a quella carne bruciata dal
sole cocente e che non può neppure gridare il proprio dolore, sono proprio gli
immigrati di oggi provenienti dal nord dell'Africa che hanno sostituito i
lavoratori a giornata sfruttati da padroni e caporali, ma la storia non cambia
mai, così si chiude, infatti, il canto “Ah,
maliritta a carni / ca non ppo fari vuci / maliritta a carni”.
Le percussioni e le chitarre, fanno di “Minni Spartuti” un
canto quasi ipnotico, vi si racconta un’altra storia di amore, sottomissione e
morte che vede protagonista una donna del popolo, detta Minni Spartuti, che a
causa della bellezza e della perfetta divisione dei suoi seni è fatta uccidere
dal suo amante patrizio, per il quale la relazione era diventata ormai scomoda
e sconveniente. Questi gli ultimi mesti versi “Chianciti giuvini – e surdi e muti, / ora ch'è morta – Minni Spartuti”.
Ancora vagamente ipnotico inizialmente, ma poi più
asciutto e duro nel suo svolgersi, il brano successivo “L’orvu” ci racconta di
un cieco. Anticamente ai ciechi era affidato il racconto, il cuore delle parole,
ma il cieco di cui si racconta qui, non è un uomo nato cieco ma che s’è accecato
nel tentativo estremo di raggiungere il cuore delle parole “'N tempu mi fici orvu ppi cuntari / e a vuci ora è sbrizziata gnuni
gnuni / chiacchiri arricugghiemu e no paroli / ca di sti chiacchiri semu
patruni”.
“Caminanti” è una di quelle canzoni
meravigliose di cui bisognerebbe riportare tutto il testo, in cui una
delicatissima melodia, ordita da chitarra e pianoforte, è così bella e lucente da
rendersi indescrivibile a parole, allora proprio per solleticare la curiosità di
chi legge ne riporto solo l’incipit “Uno
a uno seguendosi / mai di troppo vicini / dall'asilo dei fili smagliati / per
le strade dei sani / come appunti smarriti / di altri capolavori / masticati
nell'afa d'Agosto”. Inizio notevole, no?
Non c’è tregua per l’ascoltatore, né per il suo cuore
trafitto dalle emozioni, come si fa a non lasciarsi trafiggere dal dolore di
cui è intrisa “Lettera di Woody Guthrie al giudice Thayer”, con quelle chitarre elettriche laceranti quanto quei
versi “Giudice giusto / il loro sangue / è andato fra la gente / lesto e
veloce / più del lampo / della scarica / più della mano che / firma la morte /
e si nasconde / nelle tue tasche / cercando le / chiavi di casa”. Ispirata
liberamente a “Old judge Thayer”, la
canzone in cui Woody
Guthrie si rivolge al giudice Webster Thayer che condannò alla sedia
elettrica Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, è senza dubbio uno
dei momenti più toccanti di questo disco.
E’ “Sotto i colpi di mezzi favori”
a chiudere il disco, ma non è certamente una di quelle canzoni messe lì a far
numero, anzi si inserisce perfettamente in quel continuo crescendo di valore
delle ultime tracce, ecco allora che versi come “A guardare dall'alto / non le vedi le schiene spezzate / sotto i colpi
di mezzi favori / i signori seduti al caffè / consumare il diritto di pochi / a
marchiare le carni / con un ferro di riconoscenza / e una stretta di mano”
restano scolpite nella mente, come quella domanda finale “non lo vedi
dall'alto”, che continua a interrogarci anche quando la musica scompare.
Perché quei versi non descrivono con estrema lucidità solo i mali della Sicilia
ma dell’intero nostro paese.
Che dire ancora?
Questo è uno di quei dischi che lasciano il segno,
Cesare Basile ha messo in campo, ancora una volta, tutto se stesso e qui forse
ancora più del solito, non a caso il disco s’intitola “Cesare Basile”, quasi ne
fosse la propria carta d’identità e continua a farlo alla sua maniera, restando
fortemente legato alle proprie origini, sempre accompagnato dai suoi amati
musicisti, senza mai guardare cosa fanno altri, quasi fosse un intrepido treno,
una locomotiva che corre “lanciata a
bomba contro l’ingiustizia!”, per usare le parole di un altro grande
cantautore.
Cesare Basile
Cesare Basile
Urtovox - 2013
Acquistabile nei migliori negozi di dischi o su web
Tracce
01. Introduzione e sfida
02. Parangelia
03. Canzuni addinucchiata
04. Nunzio e la libertà
05. Maliritta carni
06. Minni Spartuti
07. L’orvu
08. Caminanti
09. Lettera di Woody Guthrie al
giudice Thayer
10. Sotto i colpi di mezzi favori
Crediti
Cesare Basile:
voce, chitarra, banjo, ukulele
Massimo Ferrarotto:
percussioni
Luca Recchia:
basso
Rodrigo D'Erasmo:
violino
Enrico Gabrielli:
fiati
Andrea “Fish” Pesce:
pianoforte
Marcello Caudullo:
chitarra elettrica
Marco Iacampo:
voce
Testi e musiche di Cesare Basile
Tranne "Canzuni Addinucchiata" scritta con
Dina Basso
Registrato e missato a Zen Arcade - Catania da Guido
Andreani. Settembre 2012
Prodotto da Cesare Basile
Assistente di studio: Sebastiano D'Amico
Tecnico del suono: Guido Andreani
Masterizzato a Elettroformati - Milano da Alessandro
Gengi Di Guglielmo
Artwork e copertina
di Monica Saso “Orwell Comunicazione”
Cesare Basile su
MySpace: www.myspace.com/cesarebasile
Cesare Basile su Facebook:
www.facebook.com/cesare.basile.5
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