di Fabio Antonelli
Era il lontano 2007 quando
uscì “Sono un genio ma non lo dimostro” (2007 Alabianca/Warner), fino a due
mesi fa, l’ultimo disco in studio di Rudy Marra. Poi seguì nel 2011 il bootleg
live in Ca’ di Ferra dal titolo “C’è da bruciare tutto! - Rudy & the M.o.b.
feat Dana Colley (Morphine)” e, a seguire, due opre letterarie, nel 2015 il
romanzo “Le facce. Dal diario del dottor Frank Saltarino. Storie di ordinaria
incomunicabilità” (2015 ed. Zona) e nel 2022 l’interessante saggio “Rock, massa
e potere. Non tutte star son quelle che luccicano” (2022 ed. Zona). Eccoci,
dunque, a marzo 2023 quando, un po’ a sorpresa, esce un nuovo disco dal titolo
“Morfina - Rudy Marra & The M.O.B. Featuring Dana Colley” (2023 Viceversa
Records). Tutto questo per dire che Rudy Marra non è uno che pubblica album uno
dietro l’altro ma, quando lo fa, è perché ha qualcosa di importante da dire e
quel che dice non lascia mai indifferenti.
Vorrei iniziare dalla
copertina del tuo nuovo disco Morfina, la trovo molto affascinante e
seducente come può essere appunto la morfina, c’è un papavero da oppio avvolto
dalle evoluzioni del fumo, tanto da assomigliare alla testa di un mostro, un
qualcosa di onirico. Com'è nata l'idea della copertina e com'è stata
realizzata? Sul titolo, invece, vista la presenza sostanziosa di Dana Colley in
aggiunta ai MOB, credo che il riferimento sia da far risalire direttamente ai
Morphine, ma forse non è solo quello... Lascio a te la parola.
L'idea della copertina è
strettamente legata al concept dell'album. Il papavero da cui si ricava
l'oppio, e poi per lavorazione chimica la morfina, è simbolo della doppia
faccia di cui è costituita ogni medaglia, il bene e il male per dirla
generalizzando. È il farmakon nell'accezione classica greca, cioè, allo stesso
tempo, medicina e veleno, cura e maleficio, nel senso di fare male, male
facere. Nei primi del secolo scorso, con i cristalli di morfina si pensò di
aver trovato la panacea di tutti i mali, fino poi a scoprire drammaticamente
gli effetti opposti della dipendenza che portava fino alla morte. Il papavero
avvolto dal fumo rimanda poi al sogno, al mito di Morfeo. Nella mitologia greca
Morfeo era il dio dei sogni, sogni che come il papavero da oppio possono
portare alla felicità, ma solo per il breve periodo del sonno, il risveglio ci
rimette in faccia la dura realtà. Di sicuro difficile, per quanto possa, a
volte apparire tranquilla, serena, anche piacevole, prima o poi noi umani
dovremo fare i conti con la nostra fine fisica. È proprio questa la nostra
angoscia: siamo consapevoli di un tempo limitato, conosciamo solo un punto A di
inizio, la nascita, e un punto B di fine, la morte fisica. Il percorso in mezzo
è un continuo tentativo di trovare soluzioni effimere e mendaci per curare i
nostri dolori, effimere e mendaci proprio come la morfina. La realizzazione
grafica è opera di Roberta Apparuti che in realtà è una pittrice e quindi ha
lavorato con il digitale, ma con una sensibilità analogica, come avesse avuto
pennello e tela su cui dipingere l'immagine dando esattamente quella percezione
di sogno, ma anche di mefistico. Per quel che riguarda il titolo, era
inevitabile. La storia dell'album è legata da un filo, tutte le canzoni sono
state scritte come fossero le pagine di un diario, appunti giornalieri di un
particolare anno solare (2016/17) in cui mi trovo catapultato nei dubbi della
mia esistenza, nel mio malessere cosmico, come artista e come persona. Un
diario esattamente come quello di Morfina un libro di M. Bulgakov degli
inizi del '900, in cui la medicina scopriva appunto gli effetti contraddittori
di quella sostanza. La partecipazione del sax baritono di Dana Colley della
mitica band di Boston, i Morphine, mi ha, per così dire, costretto a quel
titolo.
E come un diario è anche il libretto del disco. Ignaro di quanto mi hai detto sulla genesi del disco, che hai fatto bene a precisare, mi sarei aspettato il classico libretto con i testi delle canzoni, invece, mi sono trovato in mano una sorta di breve diario, una raccolta di appunti, uno per ogni traccia del disco, con tanto di data. Ti faccio allora una domanda provocatoria, i testi non hanno più importanza a scapito dei momenti precisi da cui traggono vita le canzoni o il tuo è un nuovo modo di approcciare l'ascoltatore alla fruizione del disco?
Diciamo che questo è un disco
particolare, quello che si dice un concept album, a dirla in parole povere un
disco in cui tutte le canzoni si muovono legate tra di loro, mosse
singolarmente da tematiche diverse, ma con uno stesso input originario che le
fa diventare le diverse pagine di uno stesso libro. Quando ho cominciato a scrivere
le canzoni di questo album avevo l'esigenza di raccontare, a me stesso per
primo, che la mia vita stava cambiando, e non proprio in meglio, stava
prendendo quella deriva pericolosa della classica domanda cosmica: "Chi
sono? Da dove vengo?" ma soprattutto "Dove sto andando?". A
nessuna di queste domande sapevo dare una risposta sufficientemente esauriente.
La cosa ancora più dura era che la domanda era doppia, cioè rivolta all'uomo e
all'artista, che non sempre sono la stessa persona, a volte vi è uno
sdoppiamento di ruoli. Dove potevo trovare la felicità? Ma la potevo poi
trovare questa benedetta felicità? Mi sarebbe stato più facile scrivere un
libro, invece ho scelto la strada della musica e di un tipo di musica non
convenzionale, almeno non nella tradizione italiana, con suoni anche un po’
indigesti, scarni, ridotti all'osso, senza cianfrusaglie melodiche e acrobazie
pirotecniche di musicisti solisti. Groove! Ritmo! Pancia! In fondo dovevo
tornare alle origini per scoprire me e alle origini anche da un punto di vista
artistico. Le parole per me sono importanti se esprimono un concetto e se
suonano, la canzone è questa, musica con parole addosso che esaltino la musica
che già parla da sola, non parole con intorno un po’ di musica! Non reggo la
retorica cantautoriale e i birignao manichei dei finti intellettuali della
musica italiana (dimmi tu quanti ce ne sono che vanno oltre i diplomi della
scuola media superiore!). Tornando al disco, come dicevo, avrei potuto scrivere
un libro, ma ho scelto la forma musica per esprimermi e, così, ho trovato un
compromesso allegando un libretto interno al CD, che fosse una specie di diario
con date di giorno, mese e anno preciso, con dentro alcune sensazioni,
emozioni, alcuni pensieri, episodi, avvenimenti che accompagnavano la mia vita
in quel momento preciso. La formula, a dire il vero, non è stata tutta farina
del mio sacco, l'ho presa a prestito proprio dal libro di M. Bulgakov Morfina
che dipana la sua storia allucinante proprio attraverso le pagine di un diario
con tanto di date. Tutti dicono che la musica così come è stata finora sta
morendo, i modi di fruirla non sono più gli stessi, nessuno ha più tempo da
dedicare all'ascolto di un intero album, si passa velocemente, anche 30 sec,
massimo 2 min, da un brano all'altro nella playlist, dal pc o dallo smartphone,
non c'è più né pazienza, né attenzione per la qualità, quindi tutto va nel
tritacarne del nostro new general intellect, il digitale: quantità, non
qualità! Io, come adoro fare, ho voluto esagerare in senso contrario,
contromano sempre: non solo musica con 16 canzoni tutte insieme in un disco
(nessuno lo fa più!), ma anche un libretto interno che racconta quello che si
sente, che crea forme, proprio come Morfeo, il dio del sonno, che prendeva le
forme delle persone o delle cose sognate. Doppio lavoro per la mente, l'anima e
anche il corpo, per chi ancora lo volesse fare.
Forse, proprio perché così
coeso l'intero lavoro, ha poco senso entrare nel dettaglio dei singoli pezzi.
Però vorrei soffermarmi un attimo sui brani da cui hai tratto dei singoli e dei
bei videoclip. Partirei proprio dal primo ad essere uscito, Amore sexy,
un video particolarissimo per un brano quasi ipnotico. Davvero fuori dal
panorama musicale italiano di sempre. Com'è stato concepito e sviluppato?
Amore sexy è un blues
ipnotico, se vuoi psichedelico, forse uno dei primi brani che ho scritto per
questo album. Il tema, quello del sesso, è l'esempio più lampante di tutto il
filo logico che percorre il concept: la linea retta con cui concepiamo la
nostra vita, data da un inizio certo, la nostra nascita, chiamiamolo un punto
A, un percorso dato dalla stessa linea e un punto di fine, ahimè anch'esso
certo, la morte, il punto B. Se così è la nostra esistenza, non c'è possibilità
di essere felici, non vi è speranza visto che si nasce solo per morire. Il
sesso, parlo proprio dell'atto sessuale, sembra esattamente ripercorrere questo
schema: nasce l'amore, chiamala attrazione, istinto fisico o come ti pare, il
punto A, nell'atto proprio i preliminari, poi vi è il durante, l'atto sessuale
vero e proprio, infine la morte, che guarda caso coincide con l'attimo dopo l'orgasmo,
come dire dopo la felicità estrema la ricaduta, in tutti i sensi! Tutto
sembrerebbe scontato e senza via d'uscita quindi. Se non fosse che, a pensarci
bene, noi abbiamo delimitato la nostra vita con due punti arbitrari, un punto A
d'inizio e un punto B di fine, ma senza avere alcuna certezza di quello che c'è
prima di A e altrettanto dopo B. Se poi aggiungiamo, per sillogismo
aristotelico, che una linea retta, per definizione, è formata da infiniti
punti, risulta evidente che una retta che parte da un punto A non arriverà mai
ad un punto B, chiaro no? Anzi no, qualcosa non è affatto chiaro! Noi siamo
abituati a vederci fisicamente finiti, mortali, caduchi ed effimeri, perché non
prendiamo in considerazione il fatto che la realtà che ci siamo costruiti
attorno è un trompe l'oeil, un inganno, un recinto in cui proviamo a
sopravvivere alla nostra incapacità di spiegarci cose di cui non siamo al
corrente. Se si riflette bene non siamo così, abbiamo invece già dentro
l'immortalità, l'infinito, la prosecuzione della specie, ma non dico da un
punto di vista filosofico, parlo proprio di scienza, di gameti, cromosomi,
materia. Ognuno di noi è sovrapposizione, intreccio, stratificazione di sapere,
innanzitutto genetico e poi anche culturale. Ecco perché la nostra linea non è
retta, ma circolare, senza soluzione di continuità e per questo, come dico al
termine del diario-libretto, la felicità non è da ricercare, ma da aspettare,
la felicità non esiste, c'è!
Il secondo singolo tratto dall'album è stato Filare de tabbaccu, traccia che chiude il disco con un evidente ritorno alle proprie origini, che parte dalla domanda "Che ci faccio qui?”, un cordone ombelicale che è impossibile recidere, la propria lingua, la pizzica, sembra quasi un corpo estraneo ma non lo è affatto, c'è un legame indissolubile con le proprie radici, è così?
Intanto diciamo che è un brano di
quasi 6 minuti e mezzo, cosa più unica che rara ormai, in più è stato girato un
video che è quasi un cortometraggio, secondo me bellissimo e con la partecipazione
di danzatori eccezionali dell'associazione Tarantarte e, per questo, Filare
de tabbaccu io la chiamo "canzone-film". La canzone è stata
prodotta ed arrangiata da Mauro Spina, tra i miei storici produttori e
celeberrimo batterista dei nomi italiani più noti, da E. Finardi a Pino
Daniele, Edoardo Bennato, Fossati e via dicendo. Il pezzo chiude il disco e, se
vogliamo, il cerchio. Si parte dalle radici e alle radici si ritorna, come dire
che nasciamo dalla terra e alla terra ritorniamo, ma non come fine, esattamente
come ciclo naturale, in particolare, è evidente in maniera eclatante il tema
del concept, cioè i legami, l'aggrapparsi, l'essere dipendente. Le proprie
radici sono, allo stesso tempo, sicurezza e appiglio forte, ma anche
costrizione e dipendenza, quindi felicità e dolore. Chi come me ha dovuto
allontanarsi definitivamente dal posto in cui è nato, con tutto il carico di
ricordi, affetti, paradigmi, usi e costumi, ha dovuto mettere in atto una
strategia subdola e perversa: è stato costretto prima a rinnegare, a tradire le
proprie radici, altrimenti non ci si riesce a liberare, e poi a vivere nel
continuo rimorso, rimpianto con tutto il suo carico di dubbi, ma alla fine
anche con i ricordi, le sicurezze della propria appartenenza. Insomma, uno non se
ne va mai dal posto in cui è nato, nemmeno se lo maledici e cerchi di tagliare
il cordone ombelicale, ti torna indietro e tu ritorni indietro. Ti ricordi che
abbiamo parlato di stratificazioni, sovrapposizioni di sapere, in senso proprio
genetico? In qualche modo tu quelle radici le fai conoscere, le porti avanti,
le metti in altre cellule, nei nuclei della materia viva, per esempio in un
figlio che porterà quella materia che vive e, probabilmente la continuerà a
trasmettere all'infinito. Le stupende percussioni di Mauro Spina mescolate al
mio basso a due corde suonano in senso ciclico, ripetitivo, così come il testo
racconta in senso ciclico ripetitivo il lavoro nei campi di tabacco, un tempo
prima risorsa economica del Salento, un ciclo che sembra non avere fine: la
sveglia all'alba col freddo nelle ossa, il lavoro sotto il sole cocente, il
ritorno a casa con la luna e i sogni-incubi nel letto povero di una fuga senza
ritorno; ma poi tutto ricomincia uguale, come in una prigione per una condanna
fine pena mai! Ancora il concetto di radici che non si possono tagliare, se lo
fai sei un vigliacco, un matricida, se non lo fai sei un prigioniero per
sempre! Chi ha voglia di sentire e vivere la canzone-film si accorgerà che le
percussioni dei tamburi, nel finale, vengono sostituite dal battito cardiaco di
un bambino che sta per nascere, l'ecografia del figlio che mii/ti ricorda che
non ce l'hai fatta per niente a liberarti da quelle radici, per fortuna!
Un'ultima annotazione dal punto di vista musicale, per dire molto chiaramente
che il brano non c'entra nulla con il concetto di "pizzica"
folkloristica, così come è stata abusata negli ultimi decenni sul territorio
salentino, ritmicamente affonda invece in matrici africane, primordiali, che
poi sono le stesse da cui provengono quasi tutte le ritmiche e i balli
ossessivi di cui anche l'Italia è piena, dalla pizzica alla tarantella, alla
tammurriata. Se mai è il testo che raccontando del lavoro duro nei campi di
raccolta del tabacco riporta a galla l'humus e l'origine di tutta la narrativa
intorno al tarantismo e alla pizzica, cosa che non potevo non evidenziare o
trascurare vista la mia passione e i miei studi socio-antropologici.
Hai fatto bene a precisare sulla pizzica perché non avendolo sottolineato nella mia domanda poteva, in effetti, fare pensare alla solita pizzica, come dici tu più abusata che usata. Ma il tema del lavoro nei campi mi permette di passare ad un altro brano del disco da cui hai tratto un video pubblicato proprio il Primo Maggio, mi riferisco a Voglio il lavoro, un atto di denuncia contro un mondo del lavoro che così com'è non va, la ricerca sì di un lavoro, che permetta però una dignità o, forse, un qualcosa di più rivoluzionario come suggerisce il finale a sorpresa...
Il mondo occidentalizzato, capitalista,
sembra cullarsi su un concetto darwiniano stranoto: "il lavoro nobilita
l'uomo", come dire che lo rende migliore dagli altri animali, le bestie.
Forse, può darsi, potrebbe e tutto il resto dei condizionali, cioè sempre che
siano rispettate le regole, sempre che ci sia un equilibrio tra lo svolgere
un'attività sia fisica che mentale e la libertà appunto psico-fisica di chi la
svolge. L'eterno rapporto datore di lavoro vs lavorante. Il paradigma fordiano
diventato legge eterna ed immutabile per i cosiddetti Paesi civilizzati,
post-moderni, a guardarci bene non è affatto legge "naturale". La
cosiddetta specializzazione, la catena di montaggio, la divisione per settori
di produzione, che sia in un'industria automobilistica oppure nell'ambito di un
ospedale o nella scuola pubblica e via dicendo, hanno ridotto le persone a
semplici pedine di un sistema lavoro che difficilmente tiene in considerazioni
altri aspetti fondamentali dell'essere Uomo: la socialità, la libertà fisica,
quella mentale, il tempo da gestire, lo spazio da sfruttare, il libero
arbitrio. Se non fai parte di quel sistema, a quelle condizioni, non esisti,
oppure sei ai margini. Non abbiamo molte armi con cui difenderci, siamo
costretti ad accettare, ci risulta vera utopia non essere dentro quegli
ingranaggi, viverne al di fuori, sempre che poi uno ce la faccia a vivere. Va
bene, lo accetto, siamo organizzati come le formiche, ognuno fa il suo, però se
devo farlo, voglio che mi sia garantita una dignità, umana dignità, non credo
sia questione solo di salario (uno dei punti di forza di qualsiasi
organizzazione sindacale), qui si tratta di contrattare la nostra
"prigionia" forzata con concessioni dovute! Se lavoro per me, ma
anche per te e anche per voi e pure per noi allora tutti dobbiamo pretendere
sicurezza, possibilità di espressione extra lavorativa, tempo libero, non
sudditanza qualsiasi sia il tipo di rapporto lavorativo, io dipendente e tu
dirigente, io operaio e tu capo della multinazionale. Queste regole non
possiamo certo andare a chiederle al titolare della ditta o dell'ente o della
casa discografica che "ci assume", le regole e le leggi le deve
dettare lo Stato, il Governo di uno Stato, che può stabilire per tutti. Ma chi
ci rappresenta ha interesse a che non ci sia disparità nel mondo del lavoro?
Che sia concessa libertà di pensare ad altro oltre che a svolgere la propria
specializzazione nel formicaio? L'esperienza ci dice di no, il potere ha
interesse a sostenere altro potere, a non eliminare la distinzione tra
"re" e "sudditi", ma
punta e fa puntare il dito della coscienza collettiva contro chi decide di far
saltare il banco, chi decide che in fondo le alternative "pe'
campa'", cioè guadagnare dei soldi, si possono trovare belle e pronte
nella nostra società, a tutti i livelli: "spaccio di droga, chiedere il
pizzo, fare il capo degli ultrà, servizi deviati, portare tangenti ai
partiti..." Lavorare non è
semplicemente guadagnarsi da vivere o, peggio, guadagnare dei soldi, se fosse
solo così, il rischio che qualcuno la pensi come nel virgolettato della canzone
è molto alto. Mi vengono in mente le parole profetiche di un signore che ormai
viene considerato obsoleto, il più delle volte viene o è stato citato senza
neanche aver letto una riga di quello che ha scritto e, quasi sempre, viene ed
è stato sfruttato ideologicamente, solo per mere beghe da politicanti, parlo
del prof. Karl Marx: Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per
tutta la sua vita, all'infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per
mangiare e così via, è preso dal suo lavoro, è meno di una bestia da soma. Egli
non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente
spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell'industria
moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora
senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta l’umanità a questo
livello della più profonda degradazione. (da Salario, prezzo e profitto
1865). E se quel comunista di Karl non vi aggrada, leggete lo psicologo (e
tanto altro) E. Fromm che della "non frammentazione umana" ne fece
cavallo di battaglia. Tutto è diventato business, ogni cosa deve funzionare ed
essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità, esiste un vuoto
interiore. Non si hanno né convinzioni, né scopi autentici. Il carattere
mercantile è l'essere umano completamente alienato, privo di qualunque altro
interesse che non sia quello di manipolare e funzionare. È proprio questo il
tipo di umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la maggior parte
degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere
successo. La società fabbrica tipi umani così come fabbrica tipi di scarpe o di
vestiti o di automobili: merci di cui esiste una domanda. E già da bambino l'uomo
impara quale sia il tipo più richiesto. (E. Fromm da L'arte di vivere).
Siccome non voglio chiudere la mia risposta con parole di altri, benché
illustrissimi, faccio io una domanda: quanto tempo vi rimane davvero da vivere
come Uomini e non come formiche dopo il vostro turno quotidiano di lavoro? Fate
voi i calcoli.
Non avrei voluto addentrarmi in tutti i brani del disco, anche per lasciare che la curiosità prendesse il sopravvento negli eventuali lettori ma, se sei d'accordo, vorrei parlare anche di Oggi sto guasto, da cui è stato tratto un altro bel videoclip che ti vede protagonista, dentro una camicia di forza. Leggo dal tuo diario "Sono i momenti questi che mi fanno paura..." Continua tu...
Certo, è così. La ricerca della
felicità, l'aggrapparsi a un qualche appiglio sicuro, il continuare a fare nodi
marinai alle corde che dovrebbero garantirci una vita tranquilla, la scoperta
di essere legati e non solo di aver legato, la dipendenza, l'impossibilità di
trovare una via di fuga definitiva a questo labirinto che da un punto A
iniziale porta inesorabilmente ad un punto B finale, spesso, secondo me sempre,
portano ad uno schizofrenia, che altro non è che uno scollegamento tra mente e
corpo, tra dimensione mentale e dimensione fisica, tra spirito e materia. La
nostra mente ci invita a fuggire, il nostro corpo non ce la fa, il nostro corpo
si ribella ai legami, la nostra mente non sa come liberarsene. Ci sono momenti
in cui non si regge più questo fardello del vivere, allora si esplode, la
pentola a pressione fa saltare il coperchio, ci si "guasta", un modo
di dire molto modenese (dove ormai ho messo radici da un po’, a proposito di
legami!) che rende bene l'idea, cioè non si è più sani, buoni. Se a qualcuno
sta venendo in mente che sono problemi solo di alcuni, di particolari persone
colpite da malattie mentali, di "poveretti" da relegare in ricoveri
psichiatrici, di una fetta minima di popolazione, beh si sbaglia di grosso, qui
si tratta di TUTTI! Ognuno di noi ha il seme della "follia" dentro, è
inevitabile, anzi è auspicabile, è il solo modo per reagire al paradosso, ad
una incongruenza logica, logica secondo il nostro modo di pensare, di vedere il
mondo e cioè, come già detto, l'ineluttabilità della morte, di una vita che non
potrà mai essere felice in assoluto, perché quello che ci aspetta è una fine.
Come abbiamo finora già accennato e come magari qualcuno che
ascolterà-leggerà-vivrà il disco potrà scoprire, c'è una ipotesi di fuga, una
proposta di evasione, ma nel frattempo, intendo dire mentre si viene presi
dall'impegno di vivere e sopravvivere, sono i momenti che ti "guasti"
che possono fare paura. Se qualcuno continua a credere ancora che non è affare
che lo riguarda provate a ripensare con onestà quante volte parlate da soli per
strada, quante volte perdete il controllo per banali motivi, quante volte
piangete come bambini e quante volte ridete come dei pirla, quante volte dite
che sarebbe meglio tirarsi un colpo di pistola alla tempia e quante volte vi
verrebbe di farlo contro il capoufficio, il direttore, la moglie, il marito, i
genitori e perfino i figli! Credete di essere normali?
Hai parlato di corde e Corde è anche il titolo dell'adattamento di Thursday dei Morphine, che non è l'unico adattamento presente in questo disco, c'è pure Su e giù, adattamento di un altro brano dei Morphine, esattamente di Let's Take A Trip Together. Come è ricaduta la scelta su questi due brani? Per altro perfettamente inseriti nel mood del tuo progetto…
Volevo fare ovviamente qualche
omaggio ai Morphine, non fosse altro che per la presenza di Dana Colley in
molte tracce del disco, ma si badi bene non volevamo fare delle cover nel senso
stretto della parola, ma reinterpretarle, un adattamento è cosa diversa da una
cover. Intanto il testo ha poco a che vedere con l'originale, è come se si
prendesse a prestito una colonna sonora e si costruisse attorno un altro film
rispetto all'originale, un'altra storia. Tra i tanti papabili ho scelto i due
estremi di un loro album a cui sono molto legato perché il primo che ho
conosciuto della loro produzione, Cure for pain, il pezzo più tendente
al rock, quasi pulp Thursday e poi quello forse più rarefatto,
psichedelico, Let's take a trip together. Mi serviva una storia dura per
il primo, così ho scritto Corde che è quasi un film di Q. Tarantino, una
storia metropolitana, di degrado, di solitudine, anzi solitudini. Un amore
impossibile tra un cliente e una prostituta. Impossibile per lei, per lui
invece più che reale, anzi irrinunciabile, da tenere stretto, da legare per
legare a sé la felicità, quell'attimo di felicità fatta di qualche ora insieme
a qualcuno. Legare come le corde dei loro giochi a luci rosse, e ci risiamo: si
lega qualcuno per trattenerlo e si finisce per rimanere legati! Musicalmente
abbiamo aumentato il giro dei motori, velocizzato il bpm per renderlo ancora
più aggressivo e abbiamo usato qualche colore di chitarra acida e i suoni di un
organo hammond. La seconda scelta è caduta su Let's take A Trip Together che
è diventato Su e giù, un viaggio cosmico nella dimensione Amore, inteso
in tutti i sensi, come incontro di anime e come incontro di corpi, su e giù in
un iperspazio senza tempo e senza limiti finiti, senza legami, liberi di volare
alto nei sensi e liberi di cadere in basso ai richiami primari del corpo.
Liberi, finalmente liberi da vincoli e corde, almeno finché dura e, ahimè, non
dura mai così tanto quel tipo di libertà, né quella del cuore né quella del
sesso, finisce come sempre per diventare catena appena si ritorna sul pianeta
Terra. Fine del viaggio.
In realtà, in questo tuo
disco, ci sono altre due reinterpretazioni, una è Obscured by clouds
brano dei Pink Floyd tratto dall'omonimo album colonna sonora del film La
Vallée di Barbet Schroeder, l'altra è Diesel di Eugenio Finardi
che per altro duetta con te in questa splendida versione. Se la prima l'avevo
già ascoltata tra le tue rare pubblicazioni su YouTube, rappresentando
benissimo il senso di alienazione, di fuori luogo, che aleggia nell'intero
lavoro, la seconda mi ha piacevolmente sorpreso, perché ascoltata
reinterpretata da te, sembra quasi essere stata scritta apposta per questo
concept. È solo una mia impressione?
Obscured by clouds è uno
strumentale dei Pink Floyd non conosciutissimo perché in un album minore, parte
di una colonna sonora. Uno dei miei ascolti di adolescente, una chicca in
vinile che non avevano in tanti e, soprattutto, un pezzo che mi ha fatto sempre
sentire, vedere, raccontato emozioni, scenari e cose, pur non avendo una sola
parola di testo, se non nel titolo. Quando il cielo cambia repentinamente,
quando il sole scompare all'improvviso dietro la minaccia di nuvole dense,
sempre più nere, quando la nostra ancestrale paura, come uomini delle caverne, della
possibile pioggia, dei temporali, dei tuoni e fulmini, dei cambiamenti
incontrollabili tout court, nella mia testa parte questo pezzo e, insieme, la
mia testa si affolla di cattivi pensieri, di oscuri presagi. Sarà che sono
meteoropatico, particolarmente sensibile agli eventi atmosferici, come scrivo
nel diario-libretto interno al CD, in ogni caso il cielo che si oscura,
oscurato dalle nuvole appunto, apre la parte del concept in cui tocco il tema
della morte, della fine, per chi avesse già letto le mie risposte precedenti,
il punto B. Ti confesso che non è stato facile per me toccare, violare dei
mostri sacri come Waters, Gilmour e compagnia bella, l'ho fatto solo perché
sentivo forte il passaggio da tante parole dette fino a quel punto del disco a
una pausa di sola musica e di musica che avesse così tanti rimandi sensoriali.
La soluzione è stata quella di usare solo il tema centrale della melodia
originale, fonderlo con la ritmica che marchia tutto il disco, quello dei
tamburi e del basso a due corde suonato con lo slide e lasciare andare a quanto
di più profondo il suono del sax baritono di Alessio Alberghini. Per Diesel
è stato ancora più dissacrante, se vogliamo: ho rallentato totalmente un
classico di E. Finardi che invece aveva un bit veloce, perché trovavo che il
testo invece raccontasse di qualcosa di lento, di costante, di ripetuto, ma
anche sicuro, solido, proprio come erano certi furgoni diesel che chi ha
utilizzato per andare in giro a suonare conosce bene. In quei furgoni c'era una
vita parallela, dentro si viveva, facendo ogni esperienza possibile. Non erano
veloci, ma non si fermavano mai, o quasi mai. L'idea era quasi di farne una
metafora con i tempi che stiamo attraversando o che ci stanno travolgendo, con
continue minacce, stop, fermate, dalla recessione economica alla pandemia,
dalla perdita di valori culturali alla guerra dietro casa. e poi con il tentativo di ripartenze, sempre
difficili e con difficili scelte da prendere. Allo stesso tempo diventava
metafora per la mia vita personale, che si era fermata e aveva bisogno di
ripartire. Ripartire a tutto gas? Con lo scatto di un bolide da formula 1? Io
credo sia più sano intanto avere voglia di ripartire, poi farlo a passo lento,
da passisti per dirla in gergo ciclistico, senza sprint che ti fiaccano dopo
qualche minuto, ma con in testa il vecchio caro adagio "chi va
piano...". Magari qualche vecchio battutista avrebbe detto "chi va
piano... arriva ultimo", ma intanto ci arriva, dico io. La vera mia
follia, in questa canzone, è stata avere inserite, verso la fine, due strofe di
testo inedite, quasi un'esegesi di come concepivo io la canzone stessa e
dedicandole all'Italia, ad una ripartenza, semmai qualcuno si fosse accorto che
il nostro Paese è fermo e avrebbe bisogno di riprendere a camminare, in tutti i
sensi. Avvicinare Eugenio (Finardi) mi è stato semplice perché abbiamo
conoscenza di vecchia data e soprattutto amicizie comuni fortissime, il
difficile è stato semmai proporgli quello che avevo combinato! È bastata una
mail, il suo ascolto del provino, la spiegazione del progetto e me lo sono
ritrovato, grande onore per me, a duettare, come un cameo davvero prezioso, nel
mio disco. Grazie Eugenio!
Avevo detto di non volermi addentrare troppo nelle tracce del disco ma, invece, le tue risposte così interessanti mi hanno fatto desistere dall'intento e allora proseguo con Mark e Sabine, brano caratterizzato da un riff stupendo, da un clima notturno, che ancora ti ricollega ai Morphine, perché parla di Mark Sandman e della sua compagna Sabine Herechdakian, ma soprattutto parla della precarietà dell'esistenza umana così lontana dal concetto di eternità o, almeno, così mi pare di aver colto.
Tutto è nato il giorno in cui ho
assistito alla proiezione in prima nazionale del docu-film Journey of Dreams
di Mark Shuman, dedicato a Mark Sandman e ai Morphine. Il 3 luglio 2016 ero
ospite a Palestrina (RM) insieme al regista e a Dana Colley. La proiezione del
film fu anticipata proprio da un nostro live, di Rudy Marra & the M.o.b ft.
Dana Colley. Inutile dire che c'era un'atmosfera irreale, elettrica: stavamo
dedicando un concerto e poi un film nello stesso posto in cui Sandman aveva
salutato nel luglio 1999 il mondo terreno. Il nostro concerto fu emozionante,
non so come definire precisamente la magia che si creò mentre passavano le
immagini e le testimonianze del movie. La gente di Palestrina, i ragazzi che
avevano organizzato il festival In nome del rock, dove 20 anni prima il
leader dei Morphine si era accasciato senza vita sul palco, quelli stessi che
Dana chiama con un tenerissimo maccheronico "mi familia", stavano
rivivendo l'incubo di quel 3 luglio 1999. Io, insieme agli altri, al buio del
parco che ci ospitava seguivo muto le sequenze, i dialoghi sottotitolati in
italiano e quell'onda di vibrazioni. Pelle d'oca, brividi e quant'altro, ma
nulla fino a quando non comparve sul grande schermo Sabine, l'allora fidanzata
e promessa sposa di Mark. Il suo racconto nel film mi sconvolse subito per la
semplicità e forse la freddezza anglosassone (seppur americana). Raccontava
come se fosse tutto una specie di sogno, di un ragazzo di 47 anni che parte per
l'ennesimo tour mondiale (in quel momento i Morphine erano in piena ascesa, se
la giocavano con i Pearl Jam, i Nirvana, etc.) nella primavera estate 1999 e le
lascia la promessa che a fine tour, al loro ritorno lui l'avrebbe sposata,
portandola in viaggio di nozze l'ultimo giorno dell'anno sulla cima più alta
del mondo, in Nepal, un viaggio da fare in moto, così da salutare il vecchio
millennio e vedere da lassù l'arrivo del nuovo. Devo aggiungere altro? Sapere
che quelle due anime si erano salutate come tante altre volte e con la promessa
che sarebbero diventate un'anima sola e invece non si sarebbero mai più
incontrate mi ha travolto, ghiacciato. Non facevo altro che pensare a quella
storia, alla normalità con cui Sabine ne aveva parlato, e qualcosa non mi
tornava, com'era possibile parlarne come se fosse accaduto qualcosa di banale,
come perdere un paio di chiavi o un ombrello? Poi ho cominciato a capire, a
fare dei paralleli con la mia vita, anzi con la mia morte, la perdita di
persone care, amici carissimi, mia madre, mio padre. Anche io ogni volta che ne
parlo non mi metto a piangere disperato, mi sembra ormai una cosa normale, proprio
come perdere le chiavi oppure un ombrello. È chiaro, mi apparve chiaro, nel
caso di Mark e Sabine, come per chiunque perde una persona cara, fosse anche
quella più cara in assoluto, non saluta e perde un'altra anima, ne perde solo e
semplicemente il corpo, l'oggetto che contiene quell'anima, fa male al momento,
ma poi passa, perché è il resto che conta, quello che rimane e che non si vede,
ma si sente. Dopo Obscured by clouds nella scaletta del concept c'è
appunto Mark & Sabine, dove mi sono immaginato che Dio avesse
concesso un giorno solo e solo un giorno a Mark per ritornare sulla Terra, la
possibilità di rivedere per qualche ora Sabine, andare a trovarla proprio nel
bar dove lei lavorava per mantenersi agli studi e dove lui la corteggiava
andando a bere il suo cocktail preferito, il Temptation. Ma un'anima non ha
bisogno di legarsi e non è legata come lo sono gli umani nella loro
materialità, il tempo di un saluto fugace e poi di nuovo libera e felice come è
nell'essenza di chi non è mortale, finito.
Credo allora che il blues
possente Sto perdendo tempo, alla luce di queste tue riflessioni assuma
una valenza particolare, quel tic e tac, quello scorrere inesorabile del tempo
e la sensazione di perdere tempo e di non fare nulla malgrado i propri buoni propositi
sembra quasi profetico, no?
È l'inizio del disco e della
storia, quando mi sono chiesto: cosa sto facendo? cosa voglio fare? cosa ho
fatto? quanto tempo ho ancora per decidere che direzione prendere per essere
felice? ma ho ancora del tempo per prendere una direzione qualsiasi? E quando
ti chiedi questo non puoi che guardarti dentro e intorno, guardi te e il mondo
che ti circonda, un mondo fatto di cose, di persone, di avvenimenti, forse
casuali, forse non e guardi indietro, quello che è stato già e guardi quello
che potrà essere. E intanto il tempo passa, tic, tac, tic, tac inesorabile,
senza possibilità altrimenti. Forse.
Uno dei brani che amo di più
di questo tuo nuovo disco è Fino a quando?. Per quella sua aria un po'
d'altri tempi, quel sax avvolgente e suadente di Dana Colley, quel incipit
"Troppo sole troppo sole dentro gli occhi miei / Troppo male troppo male
sai / Fino a quando? Fino a quando? Fino a quando?" che è una forte
invocazione... (Venerdì 9 dicembre). Raccontami...
Qui la genesi risale addirittura
al 2014. Fino a quando? era un brano che faceva parte della scaletta
musicale di un recital che avevo scritto e poi portato in giro in qualche
teatro dedicato a V. Van Gogh, Fino a quando? V. Van Gogh e io, e gli altri,
insieme all'attore Angelo Argentina e alla mia band di quel periodo (ndr chi
l'ha visto, fin quando con enormi sforzi e pochi soldi siamo riusciti a
portarlo in scena, ne ha parlato come di un capolavoro!). È l'invocazione,
forse una richiesta di aiuto a qualcuno, a qualcosa, a Dio, agli uomini, nel
momento più alto della disperazione di un Uomo. Tutto il recital era basato
sulla lettere scritte da Vincent al fratello Theo e, in una di queste, scritta
durante un ricovero presso l'ospedale psichiatrico, scriveva al fratello della
sua alienazione, della sua impossibilità a sopportare oltre quei paradigmi
della vecchia scuola accademica, quei critici d'arte, quegli artisti ben
inseriti nel business del commercio di opere, quei salottini esclusivi in cui
potevano accedere e partecipare solo gli amici degli amici, per dirla in
termini mafiosi, insomma quel tipo di relazioni del mondo culturale che ancora
oggi sono preponderanti nel mondo della cultura e in quello dell'arte, musica
compresa, in cui si entra a far parte solo se si è sodali a quel mondo, gli
altri vengono, con le buone o con le cattive, esclusi. È
"l'amichettismo" come è stato mirabilmente definito dallo scrittore
Fulvio Abbate. Il muro che viene alzato e l'impossibilità di parteciparvi a
prescindere, sono un tutt'uno con la rabbia che prende dentro a chi non può far
sentire la sua voce, chi viene tenuto fuori. Così Vincent scriveva all'adorato
fratello: ...Non c’è scampo per colui che dissente da tutto ciò e che protesta
con tutto il cuore e l’anima e con tutta l’indignazione di cui è capace. Ora,
una delle ragioni per cui sono fuori posto, da anni fuori posto, è
semplicemente perché ho idee diverse da quelle dei signori che danno lavoro ai
tipi che la pensano come loro. Non è una semplice questione di come mi vesto,
come mi è stato ipocritamente rimproverato, è una questione molto più seria, te
l’assicuro! A causa di ciò si è per forza presi dalla malinconia, si sente il
vuoto, lo scoraggiamento e c’è una marea di disgusto che ti sommerge. E poi si
dice: “Sino a quando, mio Dio?!!”. Senza voler fare paragoni irriguardosi, nel
momento in cui, come già detto, mi sono guardato dentro e intorno, ho avuto
anche io il bisogno (e ne avrei tuttora) di gridare: fino a quando?!! Nel
concept il problema non è solo di natura artistica, più in generale riguarda la
vita di ognuno di noi, questa continua ricerca della felicità che finisce per
deluderci in continuazione e riportarci in breve a fare i conti con la
sofferenza, il solito up and down, come la morfina che placa i tuoi dolori al
momento e poi ti ributta ancor di più nell'angoscia. Fino a quando, mio Dio?!!
Dana Colley e Rudy Marra |
Di mercoledì è, invece, una canzone particolare, un po' delirante come l'idea di non morire di mercoledì, quasi a dire che morire va bene, fa parte della vita, ma non di mercoledì. La canzone è impreziosita ancora una volta dalle note lunghe del sax baritono di Dana Colley, com'è nata?
È nata che stavamo andando a
suonare in un paese vicino Roma. Il minivan era guidato da uno della band e io
ero seduto a fianco, gli altri dietro a dormire oppure a cazzeggiare, cose che
si fanno di solito quando si va in giro (ricordate quando abbiamo parlato di Diesel?).
Dopo le prime salite che portavano alla nostra meta, ci trovammo ad affrontare
uno dei classici curvoni senza fine, di quelli che in genere ti fanno venire il
mal di mare, nel nostro caso il mal d'auto e, a me che soffro anche un po’ di
cervicale, mi sembrò quasi giunto il momento di salutare questo mondo e
vomitare l'anima di tutto quello che avevo ingurgitato nell'ultimo autogrill
dell'autostrada da poco lasciata. Quando stavo quasi per lasciarmi andare, la
mia attenzione fu calamitata e fui anche salvato da una scritta con lo spray
rosso sul muro di fronte al tornante che stavamo percorrendo: AMORE, NON SI
PUO' MORIRE DI MERCOLEDI'. Rimasi folgorato. Quello o quella, non so (che
ovviamente ringrazio), non è che non voleva morire, morire prima o poi lo
dobbiamo tutti, ma almeno voleva scegliere il giorno in cui farlo! Giusto,
cazzo! Se qualcuno ha letto Il maestro e Margherita di Bulgakov (toh,
ritorna fuori il grande letterato!) si ricorderà che il diavolo in persona
sottolineava che il problema vero per i miseri umani non era morire, o non
solo, il vero guaio era che non sapevano quando sarebbe successo! Così, uno si organizzava
per qualsiasi cosa per la sera e, magari, gli accadeva una disgrazia al
pomeriggio. Va là, finito tutto, appuntamento annullato! Uno così, sosteneva il
cornuto infernale, non sarebbe stato in grado di guidare e decidere il destino
degli altri, visto che non era in grado di gestire nemmeno il suo! Il destino,
insomma, non è affare umano, ci vuole il divino o il suo opposto malefico.
L'umano si illude però, crede di poter far da sé, di sostituirsi a Dio oppure
alla Natura (dipende dai valori in cui crede) e prova a forzare l'inevitabile.
Per dirla come un grande ingegnere ed economista, ma soprattutto sociologo
italiano, Vilfredo Pareto, gli umani, quasi sempre, non fanno ragionamenti
matematici, scientifici, lo fanno solo se devono costruire un ponte, per
esempio, allora sì fanno dei calcoli precisi, inoppugnabili; ma, nella maggior parte
dei casi, ragionano in maniera non-logica, che non vuol dire affatto il-logica!
Non sono razionali, certo, ma pur non essendolo pensano nella maniera più
conveniente per loro. Credere che possa essere nella nostra volontà decidere il
giorno in cui morire, magari ricorrendo a gesti scaramantici, rituali
religiosi, preghiere, meditazione Yoga e quant'altro, non è certo ragionare in
maniera logica, ma non è il-logico, è solo non-logico e serve a farsi forza, a
darsi coraggio, ad eliminare dalla testa e anche dal corpo angoscia e dolore.
E, alla fine, funziona, si sta meglio! È sognare, è crearsi un mondo! Quando ti
sembra che tutto stia andando a fondo, così mi sentivo io nel momento in cui
scrissi Di mercoledì, ti basta uno spiraglio, una piccola luce, un
leggero miglioramento emotivo e fisico per rialzarti e gridare: "Bene,
cazzo, non è ancora arrivata la mia ora, almeno non oggi, io sono ancora vivo e
in piedi, ce la farò!". Sai che giorno era quel giorno che lessi la
scritta in spray rosso sul muro? Era un mercoledì, esattamente. Funziona così,
le nostre droghe naturali si mettono in moto e ti aiutano a non andare a fondo
e diventi forte, forse anche felice, almeno per quell'attimo che ti basta prima
di essere ricacciato nell'angoscia che non sarai tu a decidere in che giorno
arriverai al punto B. Il nostro è un viaggio di andata e non ritorno, senza
approdo, di continui naufragi...ma anche di continui salvataggi.
Quando si è in queste
situazioni down, quando il mondo sembra crollarti addosso, credo che il
problema più grosso sia quello di sentirsi incompresi, da lì penso sia nata Sei
un artista tu?, che inizia proprio così "Sei un artista tu? E allora
che cosa vuoi capire? Io vedo cose che tu non puoi vedere e faccio voli che tu
non puoi volare". In un artista prevale la presunzione o la preveggenza?
È bene che io lo chiarisca
subito, il pezzo è diretto a quelli che scrivono e parlano di musica,
giornalisti, critici, blogger o blogghisti, chattatori della domenica e
purtroppo anche degli altri giorni della settimana, radiofonici e radioamatori,
radioodiatori, tv talker, tv stalker e quant'altro. Lo so che sto mettendo in
mezzo anche te, ma credimi, so distinguere bene chi fa il proprio lavoro con la
consapevolezza di fare il suo, cioè scoprire, indagare, capire cosa c'è dietro
un artista e via dicendo e chi, invece, vorrebbe essere da quest'altra parte e
non c'è, per cui pretende di capire cose che non capirà mai, proprio perché non
c'è dentro. In milanese sarebbe un po’ "Ofelè fa el to mestè" (ndr
pasticciere, o qualsiasi artigiano, fai il tuo mestiere). Naturalmente è un
tipo di sfogo che ho avuto proprio nel periodo down, quando qualcuno mi veniva
a suggerire cosa avrei dovuto fare artisticamente per rimettermi in
carreggiata: chi mi accusava carinamente di non aver sfruttato bene la mia
occasione sanremese, chi mi imputava il fatto di essere un po’ ruvido, chi mi
consigliava di buttarmi sul pop, chi sul rock, chi sul jazz e io che li
guardavo e non sapevo di che stessero parlando! Mi venne in mente una storica
puntata del Maurizio Costanzo Show, ospite Carmelo Bene, mio illustre
conterraneo, di quella serie "Uno contro tutti". Lì il Maestro gridò
varie volte alla platea di addetti ai lavori: "Sei un artista tu?!! E
allora che cazzo vuoi capire?!!". Tu mi domandi se è presunzione o è
preveggenza? Ti rispondo che è proprio di un artista, di un artista, non di un
artigiano, prevedere, vedere prima, sentire prima degli altri. Ad un vero
artista non dovrebbe importare quello che è successo, ma deve intuire quello
che ancora dovrà accadere, non è successo! Ed è per questo che molti che vedono
prima non hanno successo ora, avranno successo quando quello che loro avevano
previsto già si sarà finalmente avverato. La presunzione è una conseguenza,
l'etimologia della parola parla chiaro, viene da praesumere, cioè prendere
prima, anticipare, immaginarsi prima e, se io anticipo, posso risultare anche
supponente, fuori luogo, nel senso di fuori contesto sociale, quindi: stronzo!
Il pezzo, musicalmente parlando segue la scia del mio delirio, con una melodica
magistralmente suonata da Alessandro Greggia che strapazza la melodia, tira
allo spasimo le note, fa di tutto per essere irritante, acida, in
contrapposizione allo slide del basso a due corde che suona ossessivo,
ripetuto, uno swing strampalato da fine nottata in un qualsiasi night club del
mondo, come la consapevolezza che, nonostante le grida e gli insulti, nulla
cambierà, tutto resterà uguale, uguale, uguale...(ad lib)
A costo di farmi mandare a
quel paese, però, un consiglio te lo do pubblicamente anch'io: candida questo
disco per la Targa Tenco Miglior Album in assoluto di questo 2023, perché
merita, merita soprattutto di essere ascoltato. Però, prima di lasciarci,
gettiamoci sull'ultimo brano che ci resta da affrontare, il titolo Nonostante
me sembra essere da resa dei conti, forse la felicità così tanto agognata è
vicina, forse è solo un'illusione, che mi dici?
Sorvolo sul Premio Tenco perché
non conosco i meccanismi di questi premi, concorsi e fiere; come da risposta
precedente su Sei un artista tu?, mi interessa poco sapere cosa ne pensa
la critica delle mie canzoni e credo che in particolare oggi non sia importante
se sei bravo, scarso, un genio oppure una ciofeca, l'importante è quanto
appari: in tv, radio, social e via dicendo e io appaio, da sempre, molto meno
della Madonna di Lourdes, nonostante oltre 35 anni di attività. Ci sono alcuni
eletti che anche quando scoreggiano vengono premiati con la Targa, altri che lo
hanno ricevuto solo quando sono diventati "bigiotteria pop", insomma
non so che dire, in ogni caso, io sono qua se mi vogliono, se non mi vogliono,
tanto per citare l'immenso Petrolini: "me ne fregio!". Nonostante me chiude la triade della
parte del disco e del concept che tocca il tema della morte, della fine, del
punto B. Chiude, ma in realtà apre al vero focus di tutta l'opera: la non fine,
la prosecuzione della specie, l'eternità. Nonostante me è un funerale
visto da fuori, nel mio viaggio visivo propriamente dall'alto, come una ripresa
da un drone se si trattasse di un videoclip oppure dagli occhi dell'anima che
sta per prendere il volo, ma che ancora vuole guardare quello che sta
succedendo al suo corpo. Come dire, tanto per citare il maestro Jannacci
"si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale... per vedere se la gente
poi piange davvero", una cosa così. Come già chiarito, tutta la nostra
vita, la mia e quella di ogni umano, è marchiata dal peccato originale, dalla
sentenza di morte e di una fine inevitabile già all'inizio della nostra vita,
si nasce per morire! Nonostante i nostri tentativi di non pensarci, prima o
poi, questa spada di Damocle si presenta, ci chiede di fare i conti. E' quello
che altri e ben più importanti di me, poeti, filosofi, letterati, artisti hanno
chiamato il male di vivere che, si badi bene, va a nascondersi sotto varie
sembianze, il male d'amore, il malessere giovanile, le depressioni, le ansie, i
rapporti, la società, la sofferenza degli artisti e qualsiasi altra
"scusa", ma, alla fine, è sempre quella terribile paura di non fare
in tempo, di non riuscire a portare a termine la nostra missione in questo
mondo visto che il punto B, la fine di tutto, di ogni cosa è lì che ci aspetta.
Ma qual è la nostra missione? E qual è il nostro tempo a disposizione? In
realtà non conosciamo né l'una né l'altra cosa, ipotizziamo, presupponiamo (a
proposito di presunzione della risposta precedente) e, in questo modo, non
potendo avere risposte certe viviamo nell'angoscia, nell'ansia di prestazione
da umani. È ovvio, ci siamo chiusi dentro una retta con un punto A di partenza
e un punto B di fine assoluta, come si fa a non diventare claustrofobici?
Facciamo tutto drogandoci il cervello, usiamo la morfina come anestetico
mentale e Morfeo, che è il dio dei sogni, anzi delle forme che assumono i
sogni, ci fa costruire simulacri, false apparenze, ingannevoli immagini,
proprio per resistere a quello che è il dolore di una fine senza appello, della
fine di tutto, di ogni cosa. Solo se ci fosse data la possibilità di vederci
alla fine del viaggio, vedere il nostro funerale dall'alto appunto, ci si
potrebbe rendere conto che intanto, al massimo, finiamo noi e non tutto e ogni
cosa, anche senza la nostra presenza fisica, nonostante il nostro ego, il
mondo, la vita, se ne fottono e continuano, così è stato prima di noi e così
sarà dopo. Se si ascolta bene, alla fine del brano si sente un carillon e un
bimbo che piange (la straordinaria partecipazione del grande Roy Marra!), è
quello che ti fa capire che non esiste affatto un punto B, la fine di una
retta. La retta, si sa, è fatta da infiniti punti, quindi per sillogismo non
finisce, diventa cerchio e un cerchio non prevede soluzione di continuità! Ecco
perché subito dopo, a chiusura del disco parte Filare de tabbaccu, che è
un ritorno alle radici, tutto ricomincia. Sarà anche retorico ripeterlo, ma la
felicità non è un punto di arrivo, non arriverà mai, è il cammino stesso, anzi
il cammino che non stabilisce di dover arrivare ad alcuna meta, naufraghi prima
ancora di naufragare! La felicità non esiste, c'è. (RM)