di Fabio Antonelli
A sei anni di distanza dal pluripremiato “Canzoni per adulti” (2010 –
Freecomusic), il 25 ottobre è uscito “Voce” (2016 - D’autore/Azzurra Music), il nono album dell’artista
veronese Marco Ongaro. Un disco che, rispetto ai precedenti, descrive forse un
nuovo lato del cantautore, più intimista ed introspettivo, grazie ad una
registrazione in presa diretta e a degli arrangiamenti unicamente di pianoforte
e chitarra acustica.
Cover cd VOCE |
Sono passati sei anni dal tuo ultimo disco di inediti "Canzoni per
adulti" che finì tra i dischi finalisti in corsa per la Targa Tenco
Miglior album in assoluto dell'anno, anni in cui ti sei dedicato soprattutto
alla scrittura spaziando dai libretti d'opera alla saggistica, un'attività
frenetica. Ora esce "Voce", il tuo nuovo disco di inediti, con una
copertina che ti ritrae seduto e rilassato su un comodo divano, mentre suoni la
tua chitarra, quasi a voler dire che questo pugno di canzoni ha un carattere
quasi confidenziale e che le vuoi proporre così come fossero cantate per degli
amici tra le mura di casa, è così? Perché poi hai voluto intitolare
semplicemente "Voce" questo tuo nuovo lavoro?
Per cominciare la chitarra non è
mia, è quella della sala d'incisione. Comunque quella su cui ho suonato nel cd.
Quella, e un pianoforte verticale accordato per l'occasione. Questa è stata la
volontà di Gandalf Boschini, produttore dell'album, che nel tradire le sue
abitudini di pop dance producer mi ha spinto a tradire anche le mie
suggerendomi di non avvalermi di validi musicisti per arrangiare i miei brani.
Voleva che offrissi la verità sull'artista, mi ha detto così. Io l'ho seguito.
Il risultato è quello da lui cercato: un cd suonato interamente da me, ma senza
sovra incisioni, dritto, così come se fossi in un locale a suonare la chitarra
o il piano, con la voce e l'armonica a bocca come unici altri strumenti. Per un
po' non sapevamo come intitolare l'album, la sua essenzialità mi portava a
chiamarlo unicamente con il mio nome e cognome. Capita nella vita di un
cantautore, non sarei stato il primo. Al momento di firmare il contratto con
Azzurra Music, Marco Rossi, per distinguere il cd dai precedenti (“Dio è
altrove”, “Esplosioni nucleari a Los Alamos”, “Anni ruggenti”) incisi per la
sua etichetta “D'autore”, mi presenta un documento in cui intitola l'album: “Chitarra
e voce”. "Giusto per non confonderci", mi dice. In seguito ci ho
pensato su. Quel titolo sarebbe stato impreciso, nel disco ci sono il piano e
l'armonica. Ma l'idea era interessante. La decima traccia della raccolta
s'intitola “Voce”. Ecco la lampadina. Rende l'idea pratica pensata da Marco
Rossi, prende il titolo di una traccia, come si usa nelle raccolte di canzoni e
racconti, e al contempo rappresenta simbolicamente il lavoro, improntato al
testo, alla canzone spogliata degli orpelli, la voce non solitaria ma materia
primaria, sostegno per la sostanza delle parole (non sono così sprovveduto da
ritenermi un virtuoso degli strumenti che suono, ma dei testi mi capita di
essere abbastanza soddisfatto). Avevamo il titolo.
Sicuramente, sin dal primo ascolto, ci si rende conto che proprio la
tua voce sempre più affascinate è messa al servizio dei testi delle canzoni,
che come già era successo in passato nei tuoi dischi in assoluto più riusciti,
penso allo storico "Archivio Postumia", spesso si muovono tra
raffinate evolute ambiguità di punti di vista e di significato, quasi a voler
spiazzare anche l'ascoltatore più attento. Come dicevo, lo s'intuisce da
subito, basta ascoltare con la dovuta attenzione la prima traccia
"Elena", dedicata all'emblema della bellezza femminile in senso
assoluto, da sempre oggetto di desiderio dell'uomo, tu sembri invece ribaltarne
il punto di vista, ti immedesimi in lei e quasi quasi la bellezza, da valore
sembra diventare un fardello che genera nel personaggio mille domande
"S'inventò / Forse un passato che rinnegò / Forse un futuro che rifiutò /
Per il presente pensò di sì / E poi disse no". Forse perché tutto passa, perché
"Tutto è relativo"? Ma questa è già un'altra canzone ...
Acuta osservazione. Ho provato a immedesimarmi nella
fortuna/sfortuna di essere investiti dalla bellezza. Si aprono le porte? Se ne
chiudono altre? Quando tutto viene offerto, come scegliere? Per questo Elena
cincischia sull'acconciatura, sull'abbigliamento, sul da farsi, si lascia
sfiorare da pensieri che sfuggono quasi subito, raccoglie idee che se ne vanno.
E poi si riposa, ci si chiede: di cosa? Ma di tutta questa indecisione, data
dalla decisione già avvenuta per mano della sorte che ha riversato la bellezza
ad attrarre il mondo senza preventivamente informare da cosa sarebbe saggio
essere attratti. Essere obiettivo del desiderio altrui che spazio lascia al
nostro desiderio? Riflessioni, niente di stabilito. Come le avventure
minimali di Elena sono oscillazioni in un'indecisione che si spera congeli
il tempo, e con esso la bellezza stessa, cui in effetti mica si è tanto stupidi
da rinunciare.
Nella precedente domanda ho volutamente introdotto anche il titolo di
un'altra canzone che ho amato sin dal primo ascolto, mi riferisco a "Tutto
relativo", che nasce in fondo una situazione comune, si è su un treno
fermo ad una stazione, il treno accanto parte, lo guardiamo dal finestrino e
sembriamo in realtà noi ad essere in movimento, è un esempio lampante della
relatività. Ma da qui nascono riflessioni sulle relazioni uomo-donna ed
"E' tutto relativo anche se Relazione non c'è". Curioso poi il
collocamento dopo un'altra canzone legata al treno "Orient Express",
qui il tema è più il viaggio, ma anche il viaggio è una metafora della vita,
insomma credo ci sia molto da dire di entrambe, ma lascio a te la parola ...
In verità erano canzoni concepite
entrambe per un concept album suggeritomi tempo fa dall'amico Pascal Schembri.
Il narratore cercava sollievo da una storia d’amore andata male montando
sull’Orient Express a Parigi e andando a est fino a Istanbul per poi tornare,
in un viaggio di quelli che si usavano un tempo per far dimenticare gli amori
ai giovani che avrebbero dovuto sposare meglio di quanto il desiderio aveva
loro messo nel cuore. Li si mandava lontano dagli occhi, contando
sull’efficacia del famoso proverbio. L’inventore stesso dell’Orient Express
usciva da una storia del genere. Allontanato dall’Europa perché innamorato di
una donna non consona al suo ceto, al ritorno ha creato questa lussuosa
"macchina per dimenticare con il viaggio”. “Orient Express” è una canzone
sulla nostalgia che riavvicina inavvertitamente agli altri esseri umani nel momento
in cui si è fortemente ossessionati da un solo esemplare di essi. Tenendo le
dovute distanze cui il treno in movimento obbliga, si vede scorrere l’umanità e
si attraversano gli agglomerati urbani disseminati come oasi nel deserto.
Futile stratagemma che però spesso funziona. I giovani dimenticano gli amori,
ne trovano altri. Non il protagonista della canzone. “Tutto relativo” è una
tappa di questo viaggio. A una stazione tutto vacilla. La non relazione diventa
stimolo di relatività, rende tutto relativo, nel senso riduttivo del termine,
ma anche in tutti gli altri sensi, come sempre. L’assenza della relazione che
si cerca di scordare con il viaggio mette in relazione ogni altra cosa, la
realtà sfuma nell’imprecisione, chi amava chi? Chi è stato lasciato e da chi?
La relatività ridimensiona lo spazio-tempo annullandone le coordinate. Ciascuna
canzone però vive da sola, un atomo concluso in sé, collegato solo esternamente
da un’idea di storia presto contraddetta. Come quei giochi enigmistici in cui
si uniscono i puntini per comporre un disegno, la vita dissemina di nessi un
percorso che spesso ne è privo, i versi delle canzoni li raccolgono e creano
relazioni tra loro. Ancora una volta, tutto è relativo.
Hai citato i giochi enigmistici e devo dire che qualche volta,
ascoltando le tue canzoni, si ha come l'impressione di trovarsi dentro uno di
quei cruciverba di Bartezzaghi in cui le definizioni, una volta trovate,
lasciano letteralmente sbalorditi, quasi incantati a bocca aperta per la
genialità. Questo credo sia l'effetto che si prova, ad esempio, ascoltando la
canzone "Costi quel che costi" quando si arriva al verso "E'
programmatica o precettiva", eppure, questo rap, questa la forma musicale
che hai scelto per questo piccolo capolavoro scritto per uno spettacolo
teatrale sulla nostra Costituzione, riesce pure a commuovere. Com'è nata l'idea
di questo rap sui valori della Costituzione, che proprio in questi giorni credo
farebbe gola ai promotori del no? O no?
O sì? Non entro nel merito come
non ci entra la canzone. Le canzoni sono usate per vari scopi, le poesie anche,
spesso vengono fraintese o strumentalizzate. Questa non si sottrae a tale
sorte, ma vorrebbe. Nella domanda se è programmatica o precettiva sta l'essenza
del cantautore che non dà risposte ma pone domande (come Dylan tradizionalmente
in “Blowing in the wind”). Una domanda che potrebbe essere posta a scuola
nell'ora di diritto. La questione è tutta qui. Per questo la si può e non la si
può usare per il no quanto per il sì. Una parte dell'anima costituente è
programmatica, dunque in continua evoluzione, suggerisce il da farsi non ancora
fatto, un work in progress, un'altra è precettiva e dice cosa è indiscutibile.
Ispira e stabilisce, momenti e fasi diversi che fanno di questa Carta uno dei
dispositivi più accorti della storia giuridica internazionale. Ha ispirato
anche me, quando mi è stato chiesto di scriverci uno spettacolo, che si è
guadagnato una medaglia della Presidenza della Repubblica, nel 2009. Di acqua
ne è passata sotto i ponti, eppure eccola qui in pieno centro del dibattito: ma
questo è lo spirito della Costituzione, e di questa Costituzione in
particolare: essere oggetto di riflessione continua. Anche la pubblicassi fra
vent'anni sono convinto che la canzone troverebbe la sua via di attualità. Mi
piace che ci si ravvisi qualcosa di commovente. L'hip hop era l'unico ambito
moderno in cui rimasticare un tema così sacro e vitale, dunque il rap è davvero
la formula giusta per parlare di parole tanto significative e decisive per la
vita di una nazione. Quando l'ho studiata per scrivere lo spettacolo ho
percepito l'entusiasmo e il fervore dei "padri" che ci hanno
lavorato, ne sono stato contagiato, ho cercato di ritrasmetterlo attraverso il
mio metabolismo. Nella musica mi ha aiutato Vittorio De Scalzi, che si è
divertito quanto me a giocare in un ambito musicale che non è il nostro, ma che
proprio per questo ci appartiene con una verginità particolare.
Come dicevi prima, le poesie spesso sono fraintese, ma a volte è la
parola stessa a suggerire ambiguità e doppi sensi, una prova lampante di questa
possibilità che poi usi e sfrutti con grandissima abilità è "Bionda",
perché una bionda è la sospirata sigaretta che voluttuosamente si tocca, si
armeggia con le mani, la si gusta nella bocca, ma bionda può essere anche una
magnifica donna e ... non vado oltre, lascio dire a te che l'hai scritta, ne
riporto solo un passo, tra i più belli "E ti rigiro tra le mani / e prendo
ancora una boccata / mentre mi baci consumata / e mi prometti che mi ami".
Attenzione, è una canzone che crea dipendenza ...
Il doppio senso, meglio ancora il
senso multiplo è la massima risorsa di chi compone versi. Essendo il verso una
comunicazione frammentaria, una comunicazione fallita che proprio sul suo
fallimento punta per avere successo nel tentativo di penetrare qualche piega
insondata della realtà, la ricchezza delle accezioni si offre al fruitore di
poesia (e di canzone) come una ricchezza, un baluardo contro la disperata
povertà delle certezze. "E quando mi sento asserito / quando mi sento
trafitto da uno spillo sulla parete” canta più o meno T.S. Eliot, “come potrò
sputare fuori i mozziconi delle mie abitudini?” L’immensità dei significati di
una parola, ivi inclusa l’etimologia, lo sanno bene i filosofi, è il migliore strumento
di riflessione sull’esistenza. Non per niente tutto tradizionalmente discende
dal Verbo. Ora, in “Bionda” si parla più prosaicamente d’amore e di
consunzione, di vizio e attrazione irrinunciabile, come giustamente suggerito:
di dipendenza. Una dipendenza simile a quella delineata nella canzone Essi
vivono, quasi uno scenario dell’orrore assimilato alla passionalità comune,
quella che lega una coppia che non sa stare insieme ma neanche separarsi, è la
stessa di “Bionda”, solo che qui in “Bionda” è univoca. Non c’è perdizione
reciproca, ma subordinazione emotiva, psicologica, sentimentale verso un
abbandono al destino che si scambia con la fatalità dell’innamoramento.
L’oggetto amato ci avvinghia nella sua morsa di voluttà e ci trascina verso la
nostra fine, che può essere lenta o improvvisa. In molti si cerca questo tipo
di esperienza per non sentirsi sperduti nel mondo, per qualcuno è meglio una
dipendenza sicura che una libertà incerta. Solitudine e libertà sono facce
della stessa medaglia. Ben venga la bionda fatale, e che sia ciò che
dev’essere? Ne canto per capire. Forse è più un’emozione che un concetto. Chi
non ha mai avuto voglia di perdersi? L’amore è forse altra cosa, ma lascio ai
filosofi di cui sopra definirlo.
Già, parlavi giusto di quelle coppie che non sanno stare insieme ma
neanche separarsi, come fossero invisibilmente unite da un elastico, così come
canti nella splendida "Essi vivono", dici esattamente "Si
allontanano si avvicinano / C’è un elastico che li lega così continuano / Si
trascinano in questa saga dell’anno ultimo / Con il primo che preme identico
dietro l’angolo / Lui ricorda lei progetta / Entrambi vibrano". Qui
davvero raggiungi l'apice in questo continuo gioco delle parti, tra attrazioni
e repulsioni, quando questa unione sembra essere fatta tutto si allontana, è
bellissima così come la musica suonata da te al pianoforte. So che la canzone
sarà anche oggetto di un video, ma il titolo? Nella canzone non v'è traccia ...
Si tratta del verso mancante,
l'ultimo. Esattamente dopo "Entrambi vibrano" ci sarebbe stato
"Essi vivono", ma invece di metterlo lì l'ho tenuto per il titolo,
giacché di titolo si trattava dal principio, il titolo di un film di John
Carpenter del 1988. Un film fanta-horror, non privo d'ironia, che non solo
denuncia l'inconsapevolezza dell'umano ma anche la sua scarsa voglia di
emanciparsi dall'ignoranza della propria condizione. "Essi vivono noi
dormiamo", dice il film alludendo all'invasione aliena ormai avvenuta. Ma
nella canzone a vivere sarebbero questi due, è questa la vita? Non rinuncio
all'ambiguità del significato: mentre stigmatizzo la situazione passionale che
non permette di scegliere, mi trovo ad attribuirle la qualità di
"vita". Si tratta di una specie non più umana, perché non capace di
determinarsi fino in fondo, perciò questi due sono "essi". Però
"vivono". Magari quell'altro tipo di amore, quello posato e
tranquillo, sereno e duraturo sarà migliore, ma corrisponde alla "vita
vera"? Il dubbio attraversa la canzone in fondo, come una nostalgia. Ci
piacerebbe forse provare ancora quella passione che rende incapaci di
scegliere. Un sospiro di sollievo per esserne usciti e un po' di malinconia per
non esserne più trasportati.
Beh, d'altronde, tutto questo è conseguenza dello scorrere ineluttabile
del tempo, non si può certo restare immuni alle scalfitture provocate
dall'invecchiare, verrebbe di pensare nell'ascoltare la tua "C'era un
ragazzo ora non c'è", canzone omaggio a Gianni Morandi e risposta alla sua
celebre "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling
Stones". Nel libretto che accompagna il disco, oltre ai testi delle
canzoni hai inserito delle note guida all'ascolto dei singoli brani e, in
merito a questa canzone, che in un passaggio riecheggia anche l'originale hai
scritto "Se Morandi è Dorian Gray, Baglioni è il suo profeta". Non
credo sia un caso che i due siano saliti su un palco insieme per "Capitani
coraggiosi" ... ma torniamo al tuo brano, il vero protagonista è quel
ragazzo o quel Marco Ongaro che ragazzo non lo è più?
E non solo quel Marco Ongaro,
quei tutti noi che non siamo più gli stessi o ci illudiamo di non essere tali,
come se bastasse l'età a cambiare. L'omaggio più che a Morandi è a Mauro
Lusini, l'autore della canzone cantata da Morandi. A Gianni avevo proposto di
cantare la mia, come fosse una risposta a se stesso qualche decennio più tardi,
e lui è stato simpatico nel declinare suggerendomi di farlo io. Ha ragione, lui
non è invecchiato neanche di fuori. Non c'è più Lusini, non ci sono i Beatles,
i Rolling Stones sono pieni di rughe. Il senso è la prosecuzione della
riflessione su Elena. Se il tempo va avanti, tutto cambia e niente cambia. Noi
restiamo quelli che eravamo, se non ci guardiamo allo specchio. Il fanciullino
non cresce poi tanto, ce lo ricorda saggiamente Jodorowsky, e questo contrasto
tra l'esterno e l'interno è la mostruosità della faccenda. Come in quei film
dove Meryl Streep viene truccata per apparire diciottenne prima, poi
quarantenne, poi sessantenne e quindi ottantenne, non si capisce bene quale sia
il trucco corrispondente al vero. Che sciocchezza: un trucco non corrisponde
mai al vero. La sostanza è invisibile (altra apparente sciocchezza) e
l'apparenza diventa sostanziale. Dov'è finito quel ragazzo? Ci sono ancora
ragazzi che sognano come si sognava allora? Il tempo è cambiato e anche la
gioventù odierna dovrebbe esserlo. Su questo, e sull'ambiguità tra i giovani
d'oggi e l'io giovane di allora, ed ero proprio un bambino piccolo, si gioca il
senso propositivo, mai responsivo, della canzone. Risponde alla canzone di
allora e risponde alla prima traccia del cd, “Elena”, poi duetta con “Il verbo
"era"”, sulla bellezza che sfuma e sui cretini che lo ricordano agli
interessati, per scivolare sulla buccia di banana di “Cambierò” (vedi sopra) e
su “Voce” che anticipa il tempo trascorso cercando di aggrapparsi al presente.
Più ci penso e più questo album raccolta somiglia a un concept. Accidenti, non
riesco a fare altro che concept album. Non sarà che tutto è sempre
interconnesso?
Accidenti, è vero, più ascolto questo disco e più mi accorgo che tutte
queste canzoni magari nate singolarmente, anche a distanza di tempo fra loro,
magari suggerite da esperienze o letture fra loro molto lontane, sono in realtà
unite fra loro, come in un'unica riflessione sullo scorrere del tempo, sulla
vita umana stessa. Il tempo, il suo scorrere, è sempre più presente nella tua
attività non solo musicale, mi viene in mente, ad esempio, anche il tuo recente
libro "Elogio della puntualità" scritto insieme ad Andrea Battista.
Accidenti anche perché con la tua risposta mi hai calato in solo colpo gli
ultimi tre brani del disco che, con la cover di "Hallelujah" di
Leonard Cohen direi che costituiscono un magnifico poker. Allora ti chiedo
proprio di quest'ultima chicca, la cover, perché hai voluto inserirla visto che
ne esistono decine se non centinaia di versioni?
Eh no! Accidenti lo dico io. Possibile che debba continuare a sentir
chiamare cover delle traduzioni filologicamente curate? L’ultimo disco di De
Gregori è stato definito di cover, ma erano traduzioni di canzoni di Dylan. “Via della povertà” non è la
cover di “Desolation row”,
è la traduzione che ritrasmette nella nostra lingua quanto ideato in origine
dal poeta Dylan, rispettandone lo spirito, la metrica e le rime. Altrimenti
cominciamo a definire cover le traduzioni che Quasimodo ha fatto delle poesie
di Saffo. Quasimodo fa cover di Saffo? Non siamo ridicoli. Caproni ha fatto
cover di Apollinaire? Magari, forse sarebbero state migliori delle traduzioni.
Le canzoni che ho tradotto e pubblicato da Cohen sono adattamenti, ho tradotto
il testo originale cercando di restituirne la lettera senza tradire la
musicalità italiana. Una volta d’accordo su questo possiamo dire che la mia
versione di Alleluia (e
anche il titolo è tradotto) è l’unica traduzione italiana incisa su disco di
questa canzone. Esiste una versione in italiano di Baccini ma parla di Shrek,
l’amore per un orco, dunque non traduce niente e tradisce tutto, più o meno
come si usava negli anni Sessanta, quando “Let it be” diventava “Dille sì”. I tempi sono cambiati, per fortuna, anche grazie a De
Gregori e De André, che di traduzioni hanno fatto incetta, a partire da “Suzanne”. “Una storia sbagliata” di
Bubola/De André prende surrettiziamente la musica di “Ballad of the absent mare” di
Cohen ma non ne è la traduzione. Quella possiamo chiamarla cover. La mia “Ballata della cavalla assente” pubblicata
su “Canzoni per adulti” invece
è la traduzione e adattamento del testo originale di Cohen. L’unica versione tradotta
pubblicata finora. Spero di essere stato chiaro. Detto questo: non
esistono versioni pubblicate di “Hallelujah” che
svolgano la funzione divulgativa che attribuisco a questa operazione. La mia è
la prima in italiano. E qui rispondo alla domanda. Quando traduco e incido una
canzone straniera ho l’intenzione di creare una canzone italiana che permetta
alla gente del mio Paese di capire che cosa ha scritto il genio cui mi sono
accostato per tradurlo. Cerco di restituire agli italiani, con una certa simultaneità
tra musica e parole, una blanda idea del piacere che gli anglofoni provano
nell’ascoltare la canzone originale. La voce non è la stessa (quella di Cohen è
irraggiungibile), gli arrangiamenti neanche (Buckley ha offerto tutto nella sua
semplicità), ma il testo esprime ciò che indicativamente il poeta voleva
esprimere, sempre con i limiti e le ambiguità infinite proprie della poesia.
Interpreto il testo “sacro", come Cohen e Dylan spesso fanno con le
Scritture, giacché da sempre il poeta è un esegeta. Non pretendo di coglierne o
restituirne tutte le sfumature ma aspiro ad avvicinarmici il più possibile per
il piacere di chi non capisce le canzoni in inglese. Sulla traducibilità delle
poesie esistono gli stessi dubbi che su quella delle canzoni, ma ogni tanto
bisogna lanciarsi perché l’amore è più forte dell’insicurezza. E l’insicurezza
è comunque l’essenza della poesia.
Dopo questa "bacchettata" sulla differenza tra cover e
traduzioni filologicamente curate, che ho molto apprezzato, credo si possa abbandonare
il percorso intrapreso tra le tracce del disco per chiederti invece un'ultima
cosa, che credo stia a cuore a chi ti ama e ti segue da sempre. Ci sarà modo di
ascoltare questo tuo nuovo lavoro discografico dal vivo e se sì, sarà in
versione voce e chitarra/pianoforte, così com’è stato concepito? In ogni caso
il disco come sarà acquistabile a livello di supporto fisico, visto che il
problema reale resta sempre quello della distribuzione delle opere
discografiche?
Mi piacerebbe andare in giro in concerto
con una band molto folta per cantare queste canzoni come non sono nel cd. Una
sorta di contrappasso rispetto agli altri album, in cui incidi e sovra incidi
strumenti su strumenti per poi magari andare a fare i concerti in due. Come
sono stato fatalista nell'accettare la formula del disco, così lo sono per i
concerti. Farò ciò che l'occasione mi suggerisce. Dal solitario alla grande
orchestra, non ho pregiudizi. Il concerto è un momento staccato dal disco,
sempre e per un disco come questo, che vorrebbe ricostruire la mia dimensione
più solitaria, forse assoldare subito qualche strumentista per andare in
pubblico mi sembra una soluzione interessante. Come si trova l'album? Come
tutti gli album del mondo: sulle piattaforme in distribuzione web, nei negozi
prenotandolo (mai nella mia vita si è trovato un mio disco in un negozio senza
prenotarlo, i tempi sono cambiati per gli altri, forse, per me la storia è
sempre uguale e paradossalmente non ci ho perso nulla), cercando in internet
anche spedizioni postali direttamente dalla casa discografica (lo fanno e ne
sono felici) o presso altre strutture specializzate in questo tipo di forniture
(Amazon, ecc.). Insomma, basta volerlo.