di Fabio Antonelli
Il 14 ottobre è uscito “Men at work”, l’ultimo disco di Gianmaria
Testa, in realtà un doppio cd live contenente 23 canzoni che percorrono una
carriera ventennale e che racconta di una lunga tournée in Germania realizzata
con musicisti straordinari e complici, il tutto accompagnato anche da un DVD
che è la sintesi di un concerto registrato alle OGR di Torino, là dove una
volta si riparavano le vaporiere. In questa lunga intervista si rivela un artista
straordinario ma soprattutto una persona umilissima.
In questi giorni ho ascoltato e riascoltato all’infinito il tuo nuovo
lavoro “Men at work” e devo dirti subito che m’è piaciuto davvero tanto.
Sei recidivo allora (ride).
Si, hai ragione sono recidivo e anche se poi in “Men at work”, di fatto,
non c’è nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato precedentemente su
disco, credo che ci sia più di un motivo per ascoltare questa tua nuova fatica
con la massima attenzione, perché trovo questo disco estremamente sincero,
sentito, suonato con grandissimo amore. Questo direi, in estrema sintesi, ciò
che ho colto in questo doppio disco dal vivo. Allora vorrei chiederti subito come
mai questa scelta di realizzare un disco dal vivo, dopo che avevi già
pubblicato “Solo dal vivo”.
Si, dunque, il disco “Solo dal
vivo” è nato in maniera davvero casuale, frutto del fatto che, alla fine di una
tournée molto lunga, avevo quest’ultima data all’Auditorium a Roma,
combinazione proprio il giorno dell’elezione di Alemanno a Sindaco di Roma. Me
lo ricordo perché c’era nell’aria una specie di mestizia che mi è sembrata di
cogliere a Roma, certamente l’avevo io e, in qualche misura, credo anche il
pubblico. Siccome ero anche molto stanco, è venuto fuori un concerto, come
dire, intenso. L’Auditorium, io non lo sapevo nemmeno, registra d’ufficio tutto
quanto per archivio. Così è stato, la registrazione m’è stata poi inviata e
subito, all’ascolto, c’è sembrato che nella registrazione fosse rimasta un po’
di quell’emozione, di quel che era successo quella sera e quindi abbiamo deciso
di pubblicarla. Questo nuovo disco, invece, è stato voluto per diverse ragioni.
La prima è che volevo rimanesse traccia di questo quartetto, con cui suoniamo
insieme da parecchio tempo e, devo dire, non è orami solo un suonare insieme,
ma è anche un legame diverso. L’occasione è stata questa tournée lunga in
Germania, Austria e Lussemburgo, con la possibilità anche di registrarla.
L’altra ragione è che i primi dischi, dopo alcune riedizioni, non ci sono più e
quindi molte canzoni hanno perso la loro casa naturale. E’ vero che in rete c’è
tutto però, insomma … ad alcune di queste canzoni abbiamo voluto ridare una
casa, che è poi questo doppio disco.
Ma anche una nuova veste.
Questo inevitabilmente, però devo
anche dirti che siamo talmente complici io, Giancarlo Bianchetti, Philippe Garcia
e Nicola Negrini, che non faccio mai neanche una scaletta prima del concerto,
mi limito a dire loro quale sarà il primo pezzo e poi si va. Loro poi sanno come
comportarsi, secondo quel che dico o di quale chitarra prendo in mane, se non
lo capiscono, gli dico io “Guarda Giancarlo che il prossimo pezzo devi suonarlo
con la classica”. Tutto questo è una grande fortuna. L’unica cosa difficile di
questo disco, è stato scegliere quale versione dei brani mettere, dato che c’è
sempre un ampio spazio di libertà per ognuno anche nell’improvvisare, alla fine
ci siamo trovati con magari tre o quattro versioni veramente belle di ogni
pezzo. Alla fine c’era da sceglierne una e l'abbiamo fatto, ma con un certo
rammarico per le altre.
Hai parlato anche di scelte di chitarre. In questo disco, com’era già
successo per “Vitamia”, sono comparse le chitarre elettriche, che non erano mai
state un tuo segno distintivo.
No, è vero è vero.
Come mai questa mutazione, per altro quasi necessaria in alcuni brani,
dei quali magari parleremo in seguito?
Ma, guarda era cominciata già con
“Da questa parte del mare”, in cui Bill Frisell aveva fatto degli interventi di
chitarra elettrica. Come ho sempre detto, io non sono specialista di niente, di
nessun genere musicale, semplicemente utilizzo i vari colori possibili nella
musica, quindi secondo il tema che una canzone tratta scelgo, ad esempio se si
tratta di una bossa nova certo non uso una chitarra elettrica, se è una habanera
nemmeno, ma se parlo di persone che hanno perso il lavoro magari si e va bene
proprio quel suono lancinante, perfino fastidioso per certi versi …
Ti riferisci a “Cordiali saluti”?
Si, per esempio in “Cordiali
saluti” credo che Giancarlo abbia interpretato la canzone veramente bene, a suo
modo l’ha ricantata, cogliendo perfettamente l’idea del testo, non sono certo io
a dirgli quale tipo di distorsione usare, che cosa fare in quel pezzo, però
credo che sia giusto. Certamente io non sono un rocker, su questo non ci sono
dubbi, però certi colori a volte sono indispensabili per sottolineare la
tensione che c’è in un testo.
Quando dicevo dell’uso quasi necessario delle chitarre elettriche per
alcuni brani, mi riferivo appunto a quelle riguardanti il tema del lavoro, per altro
presente anche nel titolo del disco.
Quella è proprio la ragione del
titolo.
Foto di Nadia Cadeddu |
Che poi forse più che il lavoro è l’assenza del lavoro, no?
Nelle canzoni si, ma nel titolo
c’è più una ragione direi metafisica, rimango convinto che è inutile aspettarsi
una qualche salvezza da un singolo o magari da un’elite di persone. Io penso
che usciremo da questa crisi, che non è soltanto economica ma strutturale
dell’occidente, solo in modo collettivo, con il lavoro di tutti sia dei mens
sia delle donne.
Colgo l’occasione per dirti che, in questo disco, ho apprezzato molto
una canzone che invece in “Vitamia” avevo capito poco. Mi riferisco a “Aquadub”,
che qui è posta all’interno di un trittico sul tema del lavoro, insieme a
“Cordiali saluti” e “Non scendo”, un trittico posto nel cuore del primo disco.
Direi che finalmente ne ho colto a pieno il senso.
Quel “trittico” è come una
microstoria. Un uomo è licenziato, quell’uomo non solo perde il lavoro ma perde
anche il suo quotidiano, la sua ragione sociale. C’è dunque il tempo della
protesta, il salire sui tetti di una fabbrica, ma ci sono anche i suoi sogni.
Ogni persona che perde il lavoro perde il diritto alla vita. Tu t’immagini uno
di cinquanta anni che è licenziato? Non riesce più a trovare un altro lavoro. Quando
dicono esodati, questa parola un po’ esotica, in realtà parlano di persone che
sono espulse dal consesso sociale, però quelle persone sono come noi, come te,
come me, hanno una vita, i loro sogni, sono stati a visitare un acquario …
tutto questo è improvvisamente cancellato. Quindi, prima di salire sul tetto di
una fabbrica, quell’uomo pensa a quel che gli è successo.
Parlando di assenze, all’inizio del secondo disco, citi due personaggi
che forse più di altri ti mancano in questo difficile situazione sociale, uno è
Pier Paolo Pasolini, l’altro Fabrizio De André, del quale qui proponi una
splendida versione di “Hotel
Supramonte”. Perché proprio loro?
Mah, avrei potuto citarne molti
altri … Mi manca di Pasolini quel che ho detto nel disco, mi manca la sua
preveggenza. Io sono stato, negli anni
’70, uno di quelli che contestava Pasolini quando disse che, nei cortei
studenteschi, lui stava dalla parte dei poliziotti. Io ero uno studente ma non
ero un privilegiato, ero figlio di contadini, però era vero che, al liceo dove
andavo io, il 90 % delle persone era figlio di farmacisti, medici … era ancora
così in quegli anni, quindi questa è una cosa che ho capito solo dopo. Per
esempio penso a quel che Pasolini disse sulla televisione in tempi, assolutamente
non sospetti, parlando di vero fascismo della televisione. Mi manca un vero
intellettuale come lui, che sappia raccontarmi anche il presente. Adesso un
intellettuale così non lo trovo, lo cerco ma non lo trovo, oppure non lo
capisco, può darsi che ci sia ma non lo capisco. Di De André, invece, forse
ancor più della sua eredità artistica, mi manca la grande dignità con cui ha
sempre professato il suo mestiere di cantautore. De André non è mai sceso sotto
la soglia della dignità e ho sempre avuto l’impressione che scrivesse canzoni
quando avesse realmente qualcosa da dire e non quando magari scadeva un
contratto discografico. Ho scelto quella canzone, che mi piace moltissimo, che
lui ha scritto con Bubola, perché rappresenta molto bene questa idea di dignità,
nel senso che è stata scritta appena dopo la parentesi, molto complicata, anche
molto triste, del rapimento suo e di Dori Ghezzi. Di questi cinque mesi passati
nel Supramonte sardo, in quella canzone c’è soltanto il resoconto di quella
fatica, neanche per un attimo c’è una, magari anche solo velata, verbale
vendetta verso qualcuno, un’acrimonia e tutto questo l’ho trovato molto
dignitoso. Questa è la ragione, oltre al fatto che mi piace, dell’averla
cantata.
Riguardo alla scaletta che hai voluto dare a questo doppio live, nel
primo disco cominci con “Le traiettorie delle mongolfiere” e “Nuovo”, due brani
non dico allegri ma il primo almeno spensierato e poetico e il secondo sereno
nel suo guardare al futuro, per concludere con “La giostra”. Può considerarsi
una dimensione circolare che si chiude?
Mah, “Le traiettorie delle
mongolfiere” e “Nuovo” sono due inizi per me, perché “Le traiettorie delle
mongolfiere” è l’inizio del primo disco “Montgolfières” ed è anche una delle
primissime canzoni che abbia mai registrato in vita mia, nel 1995. Adesso non
ricordo bene se sia stata la prima, la seconda o la terza …
Canzone registrata per altro in Francia.
Si, con la Label Blue. Mentre
“Nuovo” è il primo brano di “Vitamia”, quindi ho disegnato una specie di arco mio
molto individuale e che non pretendo che nessuno capisca. Il disco si chiude
con “La giostra” ma c’è una cosa che mi fa persino specie dirla, perché è
davvero molto privata, ma uno dei problemi attuali molto grossi, delle colpe
più evidenti di chi ha gestito il potere in questi vent’anni, è
l’espropriazione dell’idea di futuro per i giovani. Io mi ricordo che, quando
avevo vent’anni io, avevo un’idea del futuro come certamente migliore del
presente e per questo, a modo mio, insieme con molti altri, combattevo. Poi
tutto questo sappiamo che non s’è realizzato, ma il fatto stesso di poter
immaginare un futuro migliore del presente che stai vivendo, ti permette di
vivere meglio il presente, i ragazzi di adesso invece fanno fatica a immaginare
un futuro, perché vivono una precarietà totale e questa è una delle grandi
colpe che attribuisco ai potenti di turno. Chi ha figli come me, però, è per
certi versi obbligato a immaginare un futuro, perché se lo vede davanti ogni
giorno ed è obbligato a vederlo con una certa dose di ottimismo, per forza,
come possibile, come vivibile. In fondo quello è il regalo che i bambini fanno a
una generazione che, tutto sommato, più di altre ha tradito le generazioni
future, perché io appartengo alla generazione che adesso comanda e che si sta
mangiando anche il futuro dei propri figli.
Un altro aspetto che volevo sottolineare è questo, se nel primo disco
il tema un po’ dominante, il cuore del disco è il lavoro, nel secondo il corpo
centrale tratta il tema delle grandi migrazioni di questo tempo, penso a
“Seminatori di grano”, “Ritals”, è così?
Si, hai ragione ci sono due cuori
in questo disco, il primo è quello del lavoro, che è un tema centrale e l’ho
messo lì davanti perché guarda, il disco “Da questa parte del mare” che ho scritto
tutto sul tema delle migrazioni contemporanee è del 2006 ed io speravo che
fosse un disco che rappresentava il passato recente e, un presente, ma che non
avrebbe rappresentato un futuro, invece è sempre più presente. Forse ora ce ne
accorgiamo di più tutti perché è successa una catastrofe immane, poiché le
tragedie purtroppo sui media si misurano sulla quantità, ma questa qui invece è
una tragedia sulla quotidianità, perché tutti i giorni succede e quindi l’ho
messo lì, come cuore del secondo disco. Io penso sinceramente che, chiunque
abbia con il tempo acquisito un diritto a un’audience o abbia chi gli pubblica
le cose o abbia un microfono per parlare, abbia anche il dovere etico di non
chiudere gli occhi davanti a quel che succede e, io, nel mio piccolissimo, cerco
di farlo.
Restiamo ancora un attimo sulla scaletta del disco, il tutto si chiude,
con un secondo bis “La ca sla colin-a”, un brano in dialetto, anzi penso sia il
tuo unico brano scritto in dialetto, come mai proprio questo finale?
Si è l’unico pezzo da me scritto
in dialetto. L’ho voluto cantare perché anche quello è un brano tuttora valido,
l’ho scritto moltissimo tempo fa, forse non avevo neanche diciotto anni e
l’avevo scritto in piemontese solo perché tutto il dialogo che l’ha generata è
avvenuto in piemontese. Un dialogo tra questa donna, figlia di un muratore che
non aveva mai posseduto in tutta la sua vita, una casa e il sottoscritto, alla
Festa dell’Assunta nel paese dove sono nato. Lei, non so perché, l’ha detto a
me che ero un ragazzo, forse perché era mancato da poco suo padre. Mi ha fatto
vedere questa casa sulla collina e mi ha detto “Guarda com’è bella, l’ha fatta
mio padre”. Non era completamente vero, perché suo padre faceva il manovale,
quindi non è che l’avesse fatta lui, lui ci aveva lavorato. Poi però mi ha
detto “Quando è morto, non siamo riusciti a pulirgli bene le unghie dalla calce
che aveva sotto, però non ha mai posseduto una casa sua in tutta la sua vita”,
poi mi ha detto “pensi che sia giusto?” ed io le ho detto “No, Maria, penso che
non sia giusto” e allora ho scritto questa canzone. Questa realtà è più che mai valida adesso,
perché la forbice tra chi ha e chi non ha, si allarga ogni giorno di più. Mi
pare che in Italia il 10% della popolazione possegga quasi il 70% dei beni
italiani, quindi questa forbice è tornata a essere a livelli medioevali, c’è il
vassallo, qualche valvassore, qualche valvassino ma soprattutto una bella quota
di servi della gleba.
Foto di Marco Caselli Nirmal |
Mi trovi, purtroppo, d’accordo. Volevo chiederti un’ultima cosa. Tu sei
partito, musicalmente parlando, dalla Francia o per lo meno ha registrato il
tuo primo disco in Francia e, curiosamente, anche questo tuo ultimo disco è
stato registrato interamente all’estero, è solo una casualità o nasce dalla
mancanza, in Italia, di attenzione verso la tua musica o, più in generale,
verso la canzone d’autore?
No, dunque, il fatto di aver
cominciato in Francia è stato in parte casuale, nel senso che dopo che avevo
partecipato al Festival di Recanati, vincendo le edizioni del ‘93 e ’94, c’era
stato qualche blandissimo interessamento in Italia, di quelle che una volta
erano le major, che adesso insomma hanno ormai poco da dire. Questo
interessamento prevedeva però che io diventassi qualcos’altro, per diventare in
qualche modo appetibile e quindi diventare in qualche misura un prodotto
interessante. Erano ancora anni in cui si poteva fare questo, ma a me non
interessava, io avevo un lavoro e non avevo intenzione di modificare alcunché,
non per presunzione, ma semplicemente perché penso che se io tolgo dalla mia
musica, dalle mie canzoni, la parola “libertà”, ho tolto tutto. Non sono
Mozart. Se togli le mie canzoni dalla musica mondiale, non cambia nulla, tutto
va avanti uguale, invece se togli Mozart, allora tutta la musica successiva è
diversa. Non mi andava di fare alcun tipo di cambiamento. La prima proposta
seria che ho ricevuto è stata dalla Francia ed è stato abbastanza casuale. Poi
bisogna dire che la Francia, o meglio Parigi, proietta molto più lontano di
Roma o Milano, perché l’area francofona del mondo è molto più vasta, mentre
l’area italofona è in Italia e basta. L’area francofona è molto grande e se
riesci a suonare all’Olympia di Parigi, vorrà dire che poi riuscirai a suonare
anche a Bruxelles, Ginevra e quindi poi anche ad Amsterdam, Vienna, Berlino e
anche a Montreal, quindi poi anche a New York e Los Angeles. Questa è stata si abbastanza
una conseguenza casuale. Invece, registrare questo disco all’estero, è stato totalmente
casuale. C’è stata una lunga tournée in Germania e la fortuna che il fonico,
che ci segue nella mitteleuropa, viene sempre lui a seguirci in quei paesi e, è
attrezzato con uno studio mobile, quindi l’unica ragione è stata solamente
questa.
Non è stata quindi né una scelta voluta, né una mancanza di attenzione
dell’Italia verso la tua opera.
No, guarda, potendo scegliere,
preferisco cantare di gran lunga in Italia che altrove, anche perché non devo
spiegare un bel niente in Italia, le canzoni si spiegano da sé. Se canto in
Olanda o in Germania o a New York, qualcosa invece devo dire, almeno per far
entrare le persone nel mood di una canzone, anche perché io non ho mai avuto e non
ho neanche adesso un pubblico di italo - tedeschi, italo - olandesi, italo - americani
ecc. Sono, nella stragrande maggioranza, ascoltatori autoctoni, persone che
parlano altre lingue, infatti, qualche mio amico mi dice “ma forse vengono
perché non capiscono quello che canti”. Non lo so, potrebbe essere anche
un’idea (ride). Nel disco le abbiamo tagliate, però nei lives c’erano le traduzioni
di una persona. Ovunque io vada purtroppo, non parlando neanche l’inglese,
parlo solo francese come lingua straniera ...
E neanche il tedesco, come s’intuisce dal disco …
(ride) si neanche il tedesco, chiedo
sempre se c’è tra il pubblico qualcuno che sia bilingue e, quasi sempre, succede
che qualcuno sale sul palco e traduce le cose che racconto tra una canzone e
l’altra.
Ho capito, se sei d’accordo, direi che potremmo chiudere qui
l’intervista, che dici?
Si si, anche perché altrimenti
c’è da scrivere un libro addirittura (ride), grazie e alla prossima allora.
Foto di Paola Farinetti |
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