di Fabio Antonelli
Folco
Orselli: mi voglio consumare di curiosità
Folco Orselli, dopo
aver realizzato “Generi di conforto” uno dei più bei dischi del 2011, in questo
freddo inverno milanese è fortemente impegnato su più fronti contemporaneamente.
Con Claudio Sanfilippo e Carlo Fava sta realizzando presso la Salumeria della
Musica alla rassegna “Scuola Milanese”, ma allo stesso tempo con gli Arm on
Stage sta promuovendo il nuovo disco “Aldrin”. Ecco cosa mi ha raccontato.
Il 18 novembre
scorso, alla Salumeria della Musica di Milano, ha debuttato Scuola Milanese,
una rassegna in nove serate a cadenza quindicinale, so che sei tra gli ideatori
di questo progetto. Spiega quando, come e perché è nata questa idea.
Scuola
Milanese nasce da una domanda che Carlo Fava, cui è venuta questa meravigliosa
idea, ci ha posto durante una delle svariate cene tra amici in cui io, Claudio
Sanfilippo, Max Genchi, Gianluca Martinelli e altri ospiti piacevolmente
gozzoviglianti, organizziamo periodicamente, domanda che così recita: “Milano,
secondo voi, è diventato un luogo anemico e ostile, figlio di un glorioso
passato che abbiamo lasciato alle spalle, patria di personalità culturali e
artistiche che hanno permesso di appuntare al bavero della città, un tempo,
l’accezione di capitale morale, o potrebbe tornare a essere territorio di
riscossa civica e umana, dante abbrivio a una rinascita che faccia da traino
alla nostra deturpata Italia?”. Dopo una domanda del genere abbiamo aperto una
buona bottiglia di rosso e dopo aver abbondantemente … riflettuto, ci siamo
chiesti se non fosse il caso di provare a creare un appuntamento fisso nel
cuore della Milano che amiamo, nel club che ha ospitato tanti dei nostri lives
(la Salumeria della musica), per cercare di dare risposta a questo difficile
quesito. E’ nata così l’idea di mettere a disposizione le nostre personali
ricerche in musica, le esperienze dei tanti ospiti che hanno aderito con
entusiasmo a questa “sfida”, la curiosità della nostra gente e non solo, per
capire chi siamo noi milanesi e cosa è diventata Milano, che resta, a nostro
parere, allegoria di città aperta e metropolitana.
Purtroppo non sono
riuscito a essere presente alla prima, so però che ogni serata presenta ospiti
in qualche modo legati a Milano, chi ha fatto da apripista e com’è stata
l’accoglienza del pubblico?
La
prima serata dal titolo “Milano se me lo dicevi prima”, (la prossima sarà il 12
dicembre dal titolo “Milano città aperta”), è stata accolta in un modo talmente
entusiastico da risultare inaspettato. Abbiamo capito che la domanda, di cui
sopra, è una domanda alla quale tanti cercano di dare risposta. Un pubblico
curioso ha ascoltato la testimonianza di Giangiacomo Schiavi (vice direttore
del Corriere della Sera) che ci ha raccontato di un “viaggio” con un camper
facente tappa in parecchie zone della nostra città, in cui lui ha pernottato,
raccogliendo illuminanti testimonianze di residenti che hanno dipinto dal loro
punto di vista, un punto di vista davvero reale, la situazione dei loro
quartieri. Ci siamo sbellicati dalle risate ascoltando uno stralunato e
divertentissimo ritratto milanese di Antonio Cornacchione che, nella sua
“surrealità”, ha richiamato quel modo meneghino di fare comicità, quel passo
visionario che ricorda i primi Cochi e Renato, Andreasi, il maestro Enzo
Jannacci: insomma la risata intelligente che a me manca parecchio. Per finire
abbiamo ospitato l’eleganza e la maestria di un grande giornalista, scrittore,
uomo di cultura come Antonio Lubrano che, oltre ad averci omaggiato con un
contributo video, nel quale ha annunciato ironicamente la nostra fuga dalle
responsabilità di un così ambizioso progetto attraverso un video ad apertura
dello show in cui lui annuncia “telegiornalisticamente” la notizia, ci ha
raccontato la sua esperienza di napoletano a Milano ricordando il suo “trauma” all’arrivo,
negli anni ‘60, ma anche la terra dei sogni che, in quel periodo, Milano
rappresentava. Sarà ancora così?
La rassegna si
chiama, come già detto, Scuola Milanese. Vuol porsi come contraltare della
sempre più citata scuola genovese o vuol essere un invito a cominciare un nuovo
percorso dalla scuola, non solo come luogo in cui apprendere, ma come luogo di
discussione, di crescita personale?
Di
scuole in Italia ce ne sono tante, non siamo certo noi a intestarci quella
milanese, abbiamo semplicemente sentito il bisogno di riaffermarla. Milano, dal
punto di vista scenico o palcoscenico, ha insegnato un certo modo ironico, anzi
auto-ironico, di stare sul palco, un modo di raccontare la vita scevro dalle
immagini retoriche e dalla poetica affettata: la vita, il condurla è il
soggetto; l’artista e la sua curiosità e sensibilità il mezzo; la cognizione di
causa e il disincanto ironico gli ingredienti. Noi abbiamo ereditato queste
ricette dai maestri che sono tanti, ne cito due per riassunto: Giorgio Gaber e
Enzo Jannacci. Due facce della stessa medaglia, due splendidi esempi di scuola
milanese, e fa niente se in passato ci siamo sentiti figli di padri che non ci
volevano riconoscere, noi portiamo avanti la loro lezione. La scuola è ancora
aperta e noi sediamo tra la gente, come ci hanno insegnato a fare.
Non so come sia
stato Folco come studente, so solo che come musicista sa il fatto suo, non è
pigro e ama sperimentare, tentare vie alternative. Tutto questo per dire che,
il 26 novembre, è uscito il secondo episodio della tua vena psichedelica,
quella facente parte del progetto “Arm on Stage”. Come si è arrivati a
“Aldrin”? Partiamo proprio dal titolo, perché Aldrin?
Aldrin,
Buzz Aldrin, è sceso per secondo sul suolo lunare, subito dopo Armstrong.
Collins, il terzo, volteggiava in attesa sull’Apollo 11, la prima missione della
Nasa con sbarco lunare. Riesci a immaginarti le emozioni? Le loro emozioni?
Pare che Armstrong fosse davvero un asso del pilotaggio, tanto che quando
arrivarono vicini al luogo di atterraggio, si rese conto che la zona non era
quella, anzi era proprio fuori zona e la crosta lunare presentava una
morfologia impossibile per l’allunaggio. Aldrin raccontò che Neil Armstrong
prese a pilotare manualmente lo sbarco dirottando il “Lem”, deviando da una
morte certa, in un luogo più consono alla discesa. Puoi immaginare le loro
emozioni durante questa manovra? Che cosa si saranno detti quando nel viaggio
di ritorno stavano per riabbracciare la terra? Sappiamo che Aldrin, quando
allunò e scese dal Lem, la prima cosa che disse fu: “That magnificent
desolation …” che magnifica desolazione … Quando tornò sulla terra la polvere
lunare tramutata in cocaina, lo perseguitò per anni. Il suo sogno, immaginiamo
partito dall’infanzia, si era trasformato in un incubo. La mancanza di
attenzioni, rivolte soprattutto ad Armstrong, demolì la sua psiche tramutandolo
in un alcolizzato cocainomane incapace di reagire per parecchi anni. Quanto
dovrebbe essere forte e solido un uomo che ha attraversato lo spazio in un’epoca,
il 1969, in cui la tecnologia era si in grado di portarlo lassù, ma comunque
pionieristica, ed era tornato vivo? E invece, il crollo. Il nostro disco parte
da questa vicenda per analizzare gli anfratti oscuri umani, rischiarati dalla
volontà di salvare la propria esistenza e riconsegnarla, acciaccata, ma
integra, alla meraviglia della rinascita … alla vita. Aldrin uscì dalla
depressione, scrisse un’autobiografia di grande successo e ora è un uomo felice.
In questo disco
entrano in gioco due nuovi elementi, mi riferisco ai produttori artistici Paolo
Benvegnù e Michele Pazzaglia (vedi Hermann), qual è stato il valore aggiunto,
se c’è stato, secondo te?
Paolo
è un uomo del futuro. Si percepisce dalle sue movenze da antico pioniere. Ha un
modo molto rinascimentale di comportarsi e di parlare, ma il rinascimento visto
dall’umanesimo: futuro. Con gli Scisma era più avanti di qualsiasi altra
formazione a quei tempi in Italia, ma si sa, questo non è un paese per
avanguardisti: futuro. Quando siamo arrivati in studio, perché è nel tratto
finale che ha apportato la sua visione ed esperienza, avevamo lavorato
moltissimo a questo disco con Stefano Piro, al quale rinnovo la mia grande
stima artistica e amicale, fraterna soprattutto. Devo dire che non ho mai visto
un uomo combattere così strenuamente a corpo a corpo con un brano. Sembrava una
lotta epica. Alessandro Sicardi ed io avevamo raggiunto un grado di
soddisfazione abbastanza avanzato sulla pre-produzione, ma lui, Stefano, aveva
qualcosa ancora da cercare, non era soddisfatto al 100% e quindi passava le
notti a stanare la canzone. E aveva ragione lui. Arrivammo in studio con ancora
le ferite aperte. Paolo Benvegnù, che fino allora si era visto e sentito poco, ha
ricucito con una grazia speciale i lembi delle nostre battaglie. Ha risolto in
maniera magistrale tutti i nostri dubbi e ci ha messo nella migliore condizione
per registrare dal vivo in studio “Aldrin”. Michele Pazzaglia è stato il druido.
Le ricette che gli consegnavamo erano realizzate in modo spettacolare. I suoni
del disco sono quanto di migliore io abbia mai raggiunto. Il merito è di
Michele Pazzaglia, braccio destro di Paolo anche nei suoi meravigliosi dischi:
che coppia cazzo!
Dai primi ascolti,
mi pare di poter dire che il disco suoni più come opera corale, mi spiego
meglio. Ci sono meno improvvisazioni e meno assoli, c’è sempre la tua voce
stupenda, ma ci sono anche più cori e maggiore ricerca melodica. Come mai
questo parziale cambio di rotta?
Arm
on Stage è evoluzione. Fratellanza umano/musicale. Navicella per il futuro. Un
pass per il mondo. Un obiettivo raggiunto. Un punto d’arrivo artistico a
prescindere da quello che succederà. Anche questa volta, come per la precedente,
ci siamo dati appuntamento nel luogo che aveva creato la magia di “Sunglasses
under all stars”: il passo del Sassello. Mio nonno aveva comprato questa
piccola casa di montagna, in mezzo ad una riserva di caccia e noi lì abbiamo
trovato, anche la seconda volta, il luogo ideale per ritirarci e lasciarci
andare al meraviglioso gioco dello scambio in musica, che non ha niente a che
vedere con i night! Non so se ci sia stato qualcosa di diverso e, se c’è stato,
è successo in una seconda fase. I pezzi li abbiamo lasciati decantare per un
anno prima di rimetterci le mani e partire con la pre-produzione che ci avrebbe
portato a un grosso lavoro di analisi. Si, siamo stati più analitici questa
volta. Abbiamo pensato di più alla forma canzone abbandonando il flusso prog di
“Sunglasses”. Tutto il lavoro è pervaso da una maturità e da una voglia di
perfezione, la perfezione a modo nostro, che nel primo disco si sente meno.
Quando si tira in ballo il cervello, bisogna stare moooolto attenti. E’ un
cavallo-drago imbizzarrito che ti proietta le sue caleidoscopiche visioni e noi
ne avevamo quattro da far sedere al tavolo!
Gli Arm on Stage,
in questa loro seconda uscita discografica, registrano una fuoriuscita dal
gruppo, non è più della partita uno dei fondatori del gruppo, Claudio
Domestico. Ritieni che gli Arm on Stage siano una band in grado di funzionare
indipendentemente dagli elementi che la compongono o esistono punti cardine
indispensabili?
Claudio
ha partecipato alla fase creativa dell’album, la parte del Sassello. Lungo il
disco ci sono anche le sue tracce in scrittura. Claudio (Gnut) è un musicista
di un’intelligenza sopraffina e la sua dipartita dalla band è stato un duro
colpo per tutti. Le dinamiche energetiche di gruppo si sono alterate. La sua
scelta però, è stata abbracciata con amore da tutti e a un certo punto i
restanti si sono guardati negli occhi e hanno scelto di continuare. Avevamo la
sensazione di avere per le mani delle ottime canzoni. Arm on Stage ha reagito.
Riguardo al fatto se Arm on Stage sia una band in grado di procedere anche
senza i suoi restanti fondatori non saprei dirti. Credo di no, ma non ne sono
certo. Arm on stage è un luogo aperto alla fantasia e alla creatività e, come
tutti i luoghi, è visitato da energie diverse. Penso sia più includente che
escludente. Chi vivrà vedrà.
Credi che “Aldrin”
riesca con la sua sonorità molto accattivante aprirsi un varco oltre confine?
In
questo disco, come ho già detto sopra, siamo stati più attenti a tutto: alla
forma canzone innanzitutto, ai testi e anche alle pronunce. Abbiamo da poco
firmato con una casa distributrice che lavora dall’Italia all’estero: AMS/BTF.
Vogliamo portare il disco fuori dai confini, vogliamo giocare il campionato del
mondo. Qualcuno, finalmente, ci ha iscritti al torneo. Ora sta a noi non
arrivare ultimi ma … non credo.
Un’ultima domanda,
quasi una provocazione, ma il vero Folco è quello dalla voce roca delle storie
strampalate degli esordi, quello funky di MilanoBabilonia, quello jazzato e
poetico di “Generi di conforto”, quello british di “Aldrin” o ancora dobbiamo
vederlo nascere?
Il
vero Folco non so neppur io chi sia però ho scoperto che è un buon modo per non
rompersi i coglioni da solo. Ho capito che l’involucro e la mente che ci hanno
fornito serve a correre, non a stare seduti, io mi voglio consumare di
curiosità e come ha detto qualcuno: voglio che la morte mi trovi vivo.
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