di Fabio Antonelli
Max Manfredi ha compiuto il 7
dicembre scorso 65 anni ed ha voluto farsi e fare un regalo a tutti i suoi
ammiratori, pubblicando un nuovo album di dodici inediti, dal titolo “Il Grido
della Fata” (Maremmano Records – IRD). Sono passati ben sette anni dal
precedente Dremong (Gutenberg Music), un lungo periodo durante il quale non è
certo rimasto con le mani in mano, ma ha alternato la realizzazione di opere
letterarie e teatrali ad una lunga tournée con il conterraneo Federico
Sirianni. Ma ecco, finalmente, dopo una lunga gestazione causata anche dalla
pandemia, l’uscita di un disco che, ne sono sicuro, lascerà il segno.
Direi, se sei d'accordo di
partire dalla copertina del tuo nuovo disco, una fotografia di Renzo Chiesa che
si pone direi in maniera enigmatica un po' come tutto il disco (ma di questo ne
parleremo più avanti), sta più a significare l'artista che scruta quasi di
nascosto il mondo che lo circonda o l'artista recluso prigioniero di sé stesso,
dei suoi fantasmi, dei suoi amori, delle sue fate o forse altro ancora? Poi c'è
il titolo Il Grido della Fata. Folgorante. Sembrerebbe quasi un sequel
della canzone Il regno delle fate. Ho già messo troppa carne al fuoco
... a te la parola.
Il nome dell'album proviene da
una poesia del poeta "simbolista" francese Gerard De Nerval. Il
componimento si chiama El desdichado e finisce evocando "i sospiri
della santa e le grida della fata”. La figura della fata però si è inscritta
direi capricciosamente nel mio immaginario da alcuni anni e quasi
impercettibilmente. Tu citi giustamente il mio Il regno delle fate, poi,
come le decalcomanie di una volta, la velina allegorica si è staccata e la fata
è comparsa in tutto il suo smalto e in piena autonomia. La foto di copertina fa
parte di una serie di scatti che mi ha dedicato il grande fotografo Renzo
Chiesa nel quartiere milanese della ex Varesina, da covo nebbioso che era, oggi
diventato un polo formale e informale di architetture e franchising. Dietro
alla vetrina di un edificio anonimo, tra fregi quadrati, il mio occhio sì
inoltra come quello di un "peeping Tom", o, perché no, di un
fotografo, verso l'osservatore, riproponendo l'eterna questione del "chi è
fuori?" e suggerendo un clima inquieto e conventuale insieme, una
mescolanza di clausura e curiosità, che impregna tutti i brani del disco, il
mio album più esplicitamente e francamente magico.
Ecco, hai citato un altro
aspetto che mi ha colpito. L'intero lavoro, pur non trattandosi di un concept
album, ha davvero come un fil rouge, un'atmosfera musicale particolare, che
definirei algida, che impregna un po' tutte le tracce e non solo musicalmente.
In più brani come già in passato, ritornano termini come freddo, gelo, inverno,
neve, il tutto sembra poi essere accentuato dall'utilizzo abbondante, quello sì
forse per la prima volta, dell'elettronica. Ritieni che la collaborazione con
Vibrisse Studio abbia avuto un ruolo fondamentale in tal senso?
Sì. Abbiamo scoperto insieme, io, Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci, una vera miniera di possibilità sonore e musicali, e abbiamo raffinato ogni strumento, ogni plugin, convincendolo alle nostre esigenze estetiche. È proprio come dici, un disco algido, cristallino, pieno di vetrofoni e di invenzioni. Ad esempio, abbiamo campionato i suoni dei pianeti forniti dalla Nasa e abbiamo fatto loro eseguire delle melodie pilotandoli con l'autotune. Oppure abbiamo fatto suonare organi barocchi campionati e cordiere di pianoforte. Ma non meno precisi sono gli strumenti reali che abbiamo registrato, grazie alla collaborazione di musicisti straordinari.
Ecco, direi che è giunto il
momento di addentrarci tra i solchi del disco, che si apre con uno dei brani
più enigmatici ed allo stesso tempo affascinanti, si intitola Scimmia grigia
e vede già due importanti collaborazioni in carne ed ossa: una, non nuova,
che è quella di Ezio Zaccagnini alla batteria, l'altra di Bob Callero al basso.
C'è ritmo, c'è molta poesia, spesso misteriosa come quei versi finali
"Come l'immagine bionda e calda / che per un attimo mi abbaglia / dell'uccello
perso nella boscaglia / che va cercando l'alba". Chi è realmente questa
scimmia grigia, grigia come la materia del nostro cervello?
Hai ragione, è grigia come è chiamata la materia del cervello. È il simbolo dell'inflazione comunicativa e della solitudine paradossale che ne consegue. È anche la delega della nostra coscienza separata. Ti spiego invece l'immagine finale. È tratta - uno fra i pochissimi riferimenti letterari del disco - da una poesia del trovatore medievale Guiraut de Bornelh, una "alba", dove l'amico sta di sentinella davanti al luogo di incontro amoroso tra il suo compagno e la nobildonna sua amante, per sorvegliare che non ritorni il "geloso", cioè il marito di lei, magari coi suoi sgherri. E c'è la frase "Ho già sentito cantare l'uccello che va cercando il giorno per la boscaglia". Immagine pregnante che, oltre a ricordare l'atto sessuale che sta svolgendo l'amico, configura una sinestesia vertiginosa che mischia tempo e luogo. Ed è evocata da nient'altro che i suoni dei messaggi dei telefonini della Samsung, che trasformano "il treno in una foresta incantata", scenario favorito delle fiabe medioevali e rinascimentali. Anche qui si ammazza il tempo come si può, il concetto stesso di tempo cronico e lineare viene sospeso tra il prima e il dopo, niente ha fatto il suo tempo e il tempo lascia il tempo che trova.
Fantastico. Ora vorrei
affrontare insieme le canzoni Sala da concerto e Polleria perché,
sebbene molto diverse fra loro, sono accomunate dal tema della solitudine. La
prima ha un titolo che farebbe presupporre una certa situazione, ma
l'ambientazione poi spiazza l'ascoltatore, c'è un grande senso di freddo e
trovo bellissimo, ancora una volta, il finale "l'inverno vuol dire girare
da soli / con le mani in tasca le strade del centro / a inzupparsi di luce che
il cielo è già spento / e sentire partire le navi e restarsene il vento".
La seconda, si basa su una melodia struggente, ha un testo molto conciso e mi
sembrerebbe ambientata in un passato lontano, che ferita poi al cuore quel
"Tutti gli amici volano via / Come polli allo spiedo di una
polleria". Temporalmente sono nate in periodi vicini? Lo scrivere canzoni,
come il loro ascolto, possono essere un buon viatico contro la solitudine?
È vero, sono canzoni
"con" la solitudine, non sulla o contro la solitudine. La solitudine
come compagnia. E, ci hai visto giusto, risalgono più o meno agli stessi anni.
E ti parlo della fine dei settanta e dell'inizio degli ottanta. Ma le canzoni
nascono quasi sempre in solitudine e poi vengono condivise. Mi pare un buon
inizio, da contrapporre alle solitudini condominiali. La condivisione di un
senso di solitudine può dare adito a bevute insieme, o addirittura ad amicizie
e amori. La solitudine sociale, invece, è incattivita dal rancore. Tutti i
brani del mio album, infine, ma forse quasi tutti i miei (quasi) parlano di
perdono. "Perdoni" venivano chiamate alcune porte delle chiese - l'ho
letto in un mio libro. Quindi ingressi, possibilità di entrare e uscire. Anche
a piccoli gruppi.
Salto, in questo zapping, ad
un'altra canzone dal testo molto stringato e dal titolo orientale Nasi
Goreng. Potrebbe sembrare il nome di una donna ma non lo è. Ogni parola
centellinata in questo brano, il cui testo è stato scritto con Sante Boldrini,
sembra avere un peso specifico immenso e quasi sempre più d'un significato.
Ancora una volta magnifico il finale, quella zeppa "Conto salato, conto
saldato". Direi che vi si respira aria densa di guerra e musicalmente è
fondamentale il contributo di Elisa Montaldo e i suoi strumenti cinesi (koto,
guzheng, flauto). Com'è nata questa canzone piena di suggestioni?
Nasi Goreng è nata da un
testo dell'autore ed epigrammista Sante Boldrini, su cui ho innestato un'altra
strofa. Abbiamo pensato all'estremo Oriente, ai conflitti indocinesi, alla
violenza e al sangue. Ho cercato di fotografare questi elementi che esplodono
nel corso di una "normale" cena durante un coprifuoco, come nel film
di un regista contemporaneo. I nasi a cui si fa riferimento ricordano però una
guerra "di tantissimi anni fa" e rappresentavano i trofei dei nemici
dei nipponici, che avevano sostituito in questo modo le più impegnative teste.
Ancora adesso c'è un monumento a Kyoto che custodisce questi nasi e viene
chiamato, non so per quale ragione, "tumulo delle orecchie". La
canzone è stata elaborata dai Lady Lazarus con l'aiuto di un tablet. Molti
strumenti esotici campionati sono poi stati sostituiti da quelli reali suonati
da Elisa Montaldo, che ne possiede una sfilza.
Malvina, invece, sì è
il nome di una donna, una donna che "suona l'arpa a suon di sguardi / per
i ragazzi della terza età", un'immagine splendida che mi ha riportato alla
mente un altro verso di una canzone tua di tanto tempo fa, mi riferisco a
"La sua donna stanotte ha un’altra pratica: suona l'armonium per i
sordomuti" presente in Natale fuoricorso. Se le due donne non sono
le stesse, è però forse lo stesso il periodo creativo? Resta per me una delle
canzoni più poetiche e delicate allo stesso tempo, in più vi è il contributo
musicale di Vincenzo Zitello e la sua arpa. Enigmatico ancora una volta il
finale, non si sa chi tra Malvina e il "mister" sia ad inciampare e
cadere, chi ad aiutare chi ad essere aiutato, viene quasi il dubbio che il
misterioso mister altro non sia che la propria coscienza. Ho bevuto anch'io
troppi calvados?
Il mister è il coach,
l'allenatore, il tutor, lo sparring partner, il demone, l'ombra, il consulente.
E sì, la coscienza. È legato all'io che racconta, tanto che si sorreggono e
cadono insieme. Malvina è molto più recente, almeno come invenzione,
della donna di San Giorgio in Natale fuoricorso, tuttavia si
assomigliano in quanto se quest'ultima suona per il circolo dei Sordomuti,
Malvina si esibisce con la sua arpa celtica per una classe di vecchietti in
visita in Bretagna. Che della Bretagna si tratti, si capisce da una quantità
notevole di indizi disseminati nel testo: dal suo nome gaelico ai Calvari, dai
menhir ai Calvados bevuti dalla ragazza. Si tratta di una scena, ma è la scena
di un addio, da cui fuggire e dove fare presto, senza indugiare e senza
prestarsi all'incantesimo, come Ulisse fa con le Sirene e con Circe, mantenendo
una specie di fatale autonomia. L'io narrante qui fugge con sé stesso o col suo
doppio e si sottrae così all'incanto che probabilmente lui stesso ha inventato,
non però al suo traballante destino. Fra l'altro questo "cadere" non
è solo una delle mie favorite metafore, ma una pratica accidentale cui sembro
essere alquanto legato, come ho sperimentato ancora un paio di giorni fa.
Tutto torna, si direbbe. Dalla
Bretagna spostiamoci alla Sardegna, o così almeno sembra essere ambientata la
dolcissima Elicriso. Non è un trattato di botanica, ma l'elemento per
trattare ancora una volta di solitudine e di nostalgia, questa volta dettata da
una forzata distanza, da un distacco che sembra d'altri tempi ma che ahimè è di
un'attualità lacerante. Vorrei che fossi tu a parlarne, io cito solo il verso
che chiude la canzone "Ho imparato a leggere nel libro, / pagine che sanno
un po' di fieno. / Metto dentro al libro l'elicriso. / Preferivo sul tuo
seno".
Si è più a casa nella propria
situazione reale o nella nostalgia? Se la nostalgia, termine coniato in età
relativamente moderna, implica un sentirsi a casa dove non si è più, se il
verbo "desiderare" ha a che fare con le stelle, la realtà vissuta ha
necessariamente a che fare con quella sognata. Ma entrambe hanno i loro
diritti. Così il mio emigrante abbandona tutto un mondo, e un amore, per un
universo differente (altri fiori e altri sguardi al davanzale) ma ritorna in
sogno, la notte, al suo antico promontorio. E un indizio, un segnale, che lo fa
tornare alla "Porta dell'argento"; che i geografi e i Sardi
riconosceranno come un monte, gli occultisti e i poeti come l'ingresso dei
sogni. E questo indizio è un fiore secco di elicriso.
Il fiore di elicriso mi per
permette di passare ad Apis, canzone meravigliosa per costruzione e
scrittura, mi sono annotato qualche verso "E adesso no che non so / riciclare
/ amori in folle e folle in amore! / A chi scende giù fino al miele / si sciolgono
scienza e parole", "e ho visto un'ombra all'albergo diurno, / Cleopatro
che scendeva le scale”. Desiderio e
illusione sembrano fondersi irrimediabilmente come in un crogiuolo o sbaglio?
Mi fai luce?
A buon diritto parli di
illusione, parola che, con la sua bella dieresi ronzante, utilizza Pascoli
proprio parlando del miele delle api. Tuttavia, qui non si tratta nemmeno di
illusione. È proprio il crogiolo di cui parli, che fonde insieme evoluzione e
involuzione. C'è una forza necessaria alla vita, al di là di scelte e
definizioni. Qui vengono detti solo frammenti di questa scienza d'amore.
Ricordi di vite precedenti, in tutti i sensi. Luoghi apparentemente vili:
diurni, cessi, cinema porno, autobus. Preziosi, però, proprio nella fragilità
del loro fuoco. E le candele che tremano nel coprifuoco sono insieme riscatto e
contraddizione.
In questo nuovo disco, ci sono
anche due canzoni d'amore o meglio, che riguardano l'amore in senso lato, forse
più l'assenza che la sua essenza, mi riferisco a Nostra Signora della Neve
e Rosso Rubino. La prima, come si evince dal titolo stesso è una sorta
di invocazione alla Madonna della neve, titolo risalente ai primi secoli della
Chiesa cattolica e legato alla nascita della basilica di Santa Maria Maggiore
in Roma, è ambientata in una generica campagna, sembrerebbe in una casa
sperduta tra incantesimi e spiriti "Se sono spiriti o è il legno / di
notte tu non puoi capirlo". La seconda sembra anch'essa abitata da spettri
e fantasmi, ma legati ad una bevuta colossale, ne emerge un protagonista
desideroso d'amore ma tremendamente solo "Un re senza amici che si guarda
nello specchio, / ma dalla cornice sta a beffarlo il suo giullare" e che
il bere di una notte, quasi non ci fosse un domani, lo porta a sognare una
donna, ma ormai c'è l'alba che s'avvicina "Brucia guglie e rovi
inciampando ad ogni tetto. / Ora dorme il sovrano ed il suo giullare lo
riscalda". Se la prima è lieve come il posarsi della neve su un paesaggio
sperduto, la seconda è musicalmente densa e mirabolante, mi sembra a tratti di
sentire echi e sonorità di Luna persa. Pur sobrio, ho forse sognato
anch'io?
Nostra Signora della Neve
è il nome di diversi santuari in Italia. Qui può essere il nome dato ad una
donna amata. Questa canzone è una specie di litania profana. È una canzone
d'amore, certo, amore rivolto a una donna e al suo paesaggio. Invece Rosso
Rubino è un brano egocentrico, dove però un vero "io" (e quindi
un vero centro) non esiste. Esiste, per il carnevalesco Re che si auto recita,
la funzione dell'ubriacarsi e del rimpianto. La prima è estesa fino al mondo
circostante, nella prosopopea "passo da ubriaco sta barcollando
l'alba". La prosopopea è una figura retorica che consiste nel
personificare un elemento naturale. L'alba, appunto, ma anche il crepuscolo,
anzi, il suo trascolorare: "l'indaco bigotto fuori sgrana i suoi
rosari". Questa figura retorica ci riporta a un pensiero animista, un
mondo mentale primitivo o infantile, abitato o propinquo a demoni e fantasmi.
Un comune bicchiere diventa "il bicchiere dello spettro" (forse usato
in precedenza come tavoletta ouija per qualche evocazione spiritica, ed adesso
destinato senza complimenti a più reali libagioni?). Non la casa del Re in
questione (o forse, per tornare alla poesia di Nerval, del "principe
d'Aquitania della Torre abolita") è diabolicamente invasa, ma il teatro
esterno. Sipario ne sono una finestra e, ancora, la neve. Lì fuori impera una
sarabanda di lussuria che precipita in un'oscenità di annunci pubblicitari,
fatti di cronaca e comunicati commerciali. Dentro le anime, oscuramente, la
nostalgia di un inferno caldo come un rifugio alpino, a sua volta carnevalesco,
alla Rabelais, se vuoi, dove "c'è la gara di rutti ed i diavoli versan da
bere". Ma tutto questo pandemonio si disperde con la neve, lasciando
l'ipotetico Re a pagare con la solitudine lo scotto di un amore tanto perduto
quanto esibito. Il bicchiere dello spettro, che specchiava il sorriso
dell'amata assente, è rotto per terra. L'assente non è morta, ma ha preferito
una vita tanto normale quanto assurda appare al giudizio di chi la ricorda e la
evoca. I canali di una cittadina del nord diventano incomprensibili alfabeti
braille, la donna è tanto cieca da sposarsi e avere dei figli, e non potrà
rispondere alle disperate e persino prosaiche proposte inventate dall'amante
("pescheremmo trote per farle con il timo e l'alloro"). Le due
canzoni, Nostra Signora della Neve e Rosso Rubino, hanno in
comune alcuni elementi, l'animismo medianico e il clima invernale. Ma nella
prima il desiderio si stempera nella contemplazione, mentre nella seconda si
teatralizza nella vanità fanfarona del monologo.
Si è parlato di amore, non
possiamo non parlare di un'altra canzone che ruota intorno agli amori o meglio
a chi quasi fosse un passatempo preferisce farli fallire, cioè di Guastamori.
Vorrei fossi tu a chiarire meglio chi è in realtà il protagonista di questa
canzone che sembra svilupparsi per flash discontinui. Personalmente sono
rimasto affascinato soprattutto dalla poetica riflessione finale "O forse
siamo noi che siamo / fotogrammi alla moviola: / la gente non ricorda gli
intervalli / ed è per questo che si sente sola".
Sembra una boutade, ma la mia
opinione è che il protagonista di questa canzone, o meglio, chi viene
raffigurato nei suoi graffiti, sia le nostre concezioni del tempo. Se la leggi
così, non è discontinua. Non voglio farla lunga a te e ai lettori. Il testo
originario nasce moltissimi anni fa. Ma subisce un'operazione, se ne toglie un
finale e se ne mette un altro. Proprio perché la frenetica attività erotica o
sentimentale del personaggio altro non è che tentare di precedere il tempo,
inseguirlo, cavalcarlo. Mi è capitato di leggere una frase del filosofo moderno
Walter Benjamin, secondo la quale il distruttore non ha bisogno dell'attività
distruttiva, ma semplicemente di passare attraverso le rovine. È lo sguardo che
scorge rovine in tutte le cose. Uno sguardo che travalica il tempo. Anche la
visione dell'innamorato sospende e trascende il tempo. Ma il dongiovanni lo
abita freneticamente, lo fa suo. Solo che la chiave del suo agire è prendere,
abbandonare ed essere abbandonato, prendere di nuovo. Assomiglia tantissimo al
gioco infantile del nascondersi e riapparire, del lasciare un oggetto caro per
riprenderlo. E infine al gioco di prestigio: fare sparire qualcosa per farla
ricomparire. Ma è un gioco cruento, come dimostra Michel Caine in un film sugli
illusionisti. Il canarino che riappare non è lo stesso. Ma la nostra pretesa di
identità non è altro che una dinamica filmica. È il vuoto tra i fotogrammi che
permette l'illusione del moto. È questo vuoto che feconda l'individuazione. Per
dirla grossolanamente, le conquiste del Guastamori sono come carte da gioco,
l'importante è quel gesto nascosto, quel vuoto, quella distrazione che permette
l'azione del prestigiatore, e la sua truffa. Il vuoto impercettibile fra i
fotogrammi. Il delitto del Guastamori è quello di attraversare un mondo di
potenziali rovine considerando le persone come i vuoti da cui passa, e non come
altre individuazioni.
Restano da affrontare due
canzoni e ne rispetterei la sequenza originale, via libera quindi a Canzone
del Finale. L'ho adorata sin dal primo ascolto, in tempo di lockdown, eseguita
da te solo voce e chitarra. Qui si arricchisce di strumentazioni ed uno
splendido arrangiamento, ma resta intatta la prima sensazione visiva di essermi
tuffato per un attimo dentro una sorta di Shining, questo sogno-realtà
mi ha ricordato l'episodio in cui Jack si sposta nella sala da ballo
dell'hotel, dove ha un surreale incontro con un barista degli anni Venti di
nome Lloyd. Magnifica poi la visione iniziale "E nella festa
dell'apparenza, / con le sue luci straniere e invitanti / io non capivo la
differenza / tra gli invitati e i mendicanti". Com'è nato questo piccolo
gioiello?
È nato proprio dalla frase che tu
hai riportato, che ha fatto da lievito madre a tutta la canzone, unendosi però
a un altro ingrediente: le parole dell'apertura, "Entrai dunque nella
villa senza essere invitato, dopo aver legato a un palo l'ombra che mi aveva
accompagnato". Questi versi aprivano una mia canzone di adolescente,
chiamata proprio La villa dei fantasmi.
Era scritta sulle suggestioni delle letture di Edgar Allan Poe, mio
autore amato fin dall'infanzia. E forse, dati i tempi, voleva dare fiato ad una
allegoria politica. In questa canzone sì può vedere un fenomeno di abduction,
sospensione del tempo, rapimento. La leggenda della casa incantata di notte che
poi si rivela diroccata e disabitata di giorno, è frequente nei racconti di
fate e di fantasmi. Anche in questa canzone su parla del tempo e della sua
abolizione. Non mi sono riferito a Shining, film che credo di aver visto
almeno una dozzina di volte. Ma anche la villa di cui canto "pareva
invasa". Qui si presenta una cornice di ulivi, gli stessi che compariranno
in Il Grido della Fata.
Ecco mi hai dato il gancio per
parlare, finalmente, della canzone che dà il titolo all'intero album Il Grido
della Fata, che nella track-list credo tu abbia lasciato in fondo al disco
perché ha un finale che è un coup de théâtre geniale, ma non anticipo nulla.
Cito solo l'incipit altrettanto straordinario "Bruca l'erba dei tetti il
sole al tramonto / Brucia dentro camini di pietre uguali" ed alcuni tuoi
topos che sembrano qui ricomparire tutti come d'incanto: le cattedrali, i
gatti, il vino, il cadere... il resto lo lascio dire a te. È comunque il degno
finale di un album grondante densa e struggente poesia.
Sì, le immagini dominanti
ritornano. Solo che qui finalmente l'identificazione implode. Se è questo il coup
de théâtre di cui parli, non lo sveleremo qui! Anche in questo caso strofe
nuove sì sono innestate a quelle di una vecchia canzone, e lo stesso è successo
alla musica. Rispondevo alla lettera di un caro amico, che ne ha colto molti
punti, specialmente la poetica vivissima dei suoni elettronici. Una canzone,
dicevo, è un organismo vivente. Ma anche un'intenzione. E la sua intenzione,
una volta che è c'è stata "composta" (ma non in una bara come un
cadavere) è di essere ascoltata ed ascoltarsi ancora. La canzone è la fata. Se
agli uomini è difficile decifrare il silenzio delle Sirene, alle Sirene non va
giù la refrattarietà degli uomini al loro canto. L'amore delle fate è
formidabile.
Credo che, chi ci ha seguito
fin qui, in questo viaggio tra le tracce del tuo nuovo lavoro, vorrà ora sapere
come e dove trovarlo? So che, attualmente, oltre che sulle piattaforme
digitali, è stato pubblicato sotto forma di CD ma è in previsione anche la
pubblicazione in altri formati, è così?
Adesso si trova o si può ordinare
in formato CD, per chi ancora ama l'oggetto fisico. Lo si può richiedere ai
negozianti di dischi, quelli irriducibili che non hanno chiuso bottega, o alle
Feltrinelli, specificando la produzione, Maremmano Records, e la distribuzione,
IRD. I negozi di dischi non devono chiudere. Sono come i bar, e può succedere in
effetti che offrano da bere. Il vinile è in preparazione. Ma c'è un'altra
sorpresa: prestissimo sarà disponibile lo "scrigno" no plastica, un
rivoluzionario formato inventato da Vibrisse Studio che permette un ascolto ad
alta fedeltà, ma anche animazione di immagini, ipertesti, possibilità
interattiva, nuove pubblicazioni, addirittura nuove orchestrazioni, richieste.
Sarà come avere un filo diretto con Max e i suoi collaboratori. Molti l'hanno
già scelto e prenotato. Sarà anche in vendita ai concerti.