martedì, novembre 26, 2024

Giangilberto Monti - Franco Califano il Prévert di Trastevere, una sorta di piccola resistenza umana

di Fabio Antonelli

Il 14 ottobre è uscito “Franco Califano – Il Prévert di Trastevere” (2024 Warner Music Italy), il nuovo disco di Giangilberto Monti in cui l’artista milanese reinterpreta 12 canzoni del Califfo. Si tratta in realtà di un radio-disco uscito in contemporanea con la prima messa in onda da parte della Radio Svizzera Italiana dell’omonimo originale radiofonico, scritto da Giangilberto Monti con Vito Vita, contenente un QR-code che permette l'ascolto del radiodramma musicale sulla app RSI PLAY.  Incuriosito dall’operazione ho subito contattato Giangilberto ed ecco cosa mi ha gentilmente raccontato.



Partirei, se tu fossi d’accordo, come piace fare solitamente a me, dalla copertina del disco per cercare di capire un po’ la scelta che vi sta dietro, capire cosa celi questa foto quasi in filigrana che, dietro il titolo Franco Califano – Il Prévert di Trastevere, ritrae Franco Califano con l’amico Frank Del Giudice.

Sì, quella è una foto tratta dall'archivio di Frank del Giudice, che è l'autore di Tutto il resto è noia ed è una foto che Frank ci ha gentilmente concesso e che abbiamo usato anche per il libro Franco Califano. Vita, successi, canzoni ed eccessi del «Prévert di Trastevere» uscito l’anno scorso. La stessa foto, la stessa immagine, l’abbiamo usata sia per il disco sia per la promozione del nuovo lavoro discografico e poi, naturalmente, dietro a quella foto c'è tutta una storia, legata al periodo in cui il Califfo conobbe Frank Del Giudice, dopo la prima disavventura giudiziaria, colui con il quale riprese a fare le serate.



Hai citato il tuo libro edito nel 2023, quindi l’intero progetto lo si potrebbe definire a tutti gli effetti un’opera multimediale, non è così?

In effetti è un ampio progetto che è iniziato con il libro Franco Califano. Vita, successi, canzoni ed eccessi del «Prévert di Trastevere», scritto con Vito Vita l'anno scorso. Poi è nato il desiderio di fare il radiodramma, poiché io collaboro da tempo con la Radio Svizzera Italiana e quindi in un certo senso mi piaceva raccontare la storia in un altro modo. Nel radiodramma non c'è però una riga del libro, libro e radiodramma sono due cose completamente diverse. Il radiodramma racconta dei passaggi umani, racconta soprattutto la grande amicizia che Califano aveva con Gianni Minà e poi tutto il resto, ci sono le sue canzoni. Quando la Radio Svizzera Italiana ha deciso di inserire le canzoni nella colonna sonora, mi ha chiesto se non avessi pensato magari di registrare qualche canzone di Califano interpretata da me, a quel punto, ci è venuto in mente di realizzare un vero e proprio omaggio musicale a Califano. La Radio Svizzera Italiana ha inserito nella colonna sonora parte di questo omaggio e poi, a quel punto, abbiamo immaginato di fare un prodotto che unisse tutto. Il radio-disco è esattamente questo, cioè un CD che contiene le canzoni che io ho registrato, le versioni integrali e un QR Code che rimanda all'ascolto del radiodramma. C’è stato così un accordo preso con la Warner da una parte che ha pubblicato il radio-disco e la Radio Svizzera Italiana per il radiodramma. Non è stato proprio facilissimo, però devo dire che entrambe le parti sono state molto cortesi nell'accettare questa cooperazione. In fondo sono diversi anni che lavoro più in Svizzera che in Italia, anzi più in Svizzera e in Francia che in Italia. In realtà anche in Italia cerco di fare le cose che mi piacciono, però non sempre riesco a realizzarle nel mio paese.

A questo proposito, il prossimo 4 dicembre sarai a Lugano negli studi della RSI, giusto?

Sì, loro mi hanno concesso uno special che in realtà sarà una trasmissione radiofonica che poi andrà anche in televisione. In questo spazio ovviamente ospiterò, oltre ai musicisti che hanno partecipato al disco, anche il mio coautore del progetto editoriale che è Vito Vita, con cui ho già realizzato in passato il libro Gli anni d'oro della canzone francese 1940-1970 sulla canzone francese e con cui mi piacerebbe continuare a lavorare anche in futuro su altri progetti.

E questo accostamento tra Franco Califano e Jaques Prévert?

Sì, grazie, interessante domanda. Questo accostamento dipende da come io ho cercato di vedere questo personaggio. Quando io ho pensato di scrivere il libro su Califano ho accettato tutto a patto che non si parlasse assolutamente di tutta la sua vicenda personale intesa come gossip, storie d'amore, vicende giudiziarie, che è poi quella che ha prevalso durante la sua esistenza e che ha deviato un po’ lo sguardo da quella che, in realtà, era la sua arte. Il personaggio Califano ha così travalicato la storia artistica, la sua poetica, la sua capacità di scrivere canzoni accoppiandole a poesia. Va tenuto in considerazione il fatto che lui, nella sua vita, ha iniziato con un percorso quasi pasoliniano, agli inizi non era che un ragazzo di borgata che per mantenersi faceva di tutto, persino l’attore di fotoromanzi. Solo più tardi è arrivato a scrivere canzoni, ma la sua storia artistica è stata molto complessa, è stato anche produttore, secondo me andava rivalutata questa parte della sua carriera. Dopodiché io lo so che in Italia Califano è sempre stato molto amato dalla destra e molto poco dalla sinistra ma, secondo me, questa è una stupidata.

Ecco perché questa bella copertina tutta rossa, per ricollocarlo un po’ più a sinistra.

Ma sì, a parte che io non mi ritengo schierato né da una parte né dall’altra. La mia è più una visione anarcoide.

Un po’ come quella di Califano forse.

Beh, in effetti Califano era molto amico di Piero Ciampi ed era poi amatissimo da Fabrizio De André che andava a sentirlo ai suoi concerti, Califano stesso in molte interviste ha difeso De Gregori quando in tanti lo ritenevano troppo ermetico. Sicuramente fu un grande personaggio per quello che è stato e per quello che ha lasciato, considerati anche i grandi nomi che hanno interpretato le sue canzoni. Io, ovviamente, nel mio omaggio ho cercato di dare una visione del tutto originale, non ho fatto delle cover. Con la mia voce, con la mia capacità diciamo di vedere le cose, ho cercato di portarlo su un terreno a me più congeniale, non so se ci se ci sono riuscito. La mia è una visione molto personale che poi, quando presento il progetto, cerco di raccontare. È ovvio che tutte le sue vicende personali, le disavventure giudiziarie, l'uso della cocaina, eccetera ci sono anche quelle, però poi bisogna anche vedere come certe faccende siano andate a finire, non dimentichiamo che in tutte e due le volte che è stato processato e prima ancora è andato in galera, è stato poi assolto, un po’ come successe nei loro processi a Walter Chiari, Lello Luttazzi o Enzo Tortora. Stiamo sicuramente parlando di un personaggio molto più complesso di quello che allora era oggetto di copertine da settimanale scandalistico.



Assolutamente. Tu hai citato il tuo lavoro discografico e, a tal proposito, io trovo l’omaggio a Califano un disco in pieno stile Giangilberto Monti, con sonorità molto francesi, com’è nel tuo stile.

Eh, sì. Io ho cercato di fare quello che so fare.

Credo che se le stesse canzoni di Califano che hai reinterpretato in questa occasione, fossero state inserite ad esempio nel disco dedicato ai tuoi amati francesi non avrebbero assolutamente sfigurato, perché non si discostano più di tanto da quel genere di canzone d’autore, non credi?

Si hai ragione, Tutto il resto è noia, ad esempio, lui la voleva fare in stile Jacques Brel, perché lui adorava i francesi ed era un grande ammiratore di Brassens e di Brel, ma la sua casa discografica non lo permise. Tutto ciò è piuttosto insolito rispetto alle immagini che noi abbiamo di lui, del suo personaggio. In realtà Califano aveva delle aspirazioni completamente diverse da quelle dei personaggi che poi lui stesso frequentava quotidianamente, aspirazioni poetiche. Se ci mettessimo a guardare la vita di poeti come Charles Baudelaire o Arthur Rimbaud capiremmo molto di più la vita di Califano.

Ah sì, sì, sì, senza dubbio, ma volevo chiederti se è stato difficile tirar fuori dodici titoli da inserire nel disco da una discografia così vasta come quella di Califano?

Sì, sì, molto molto difficile. Perché sono tante le canzoni che si potevano cantare. Non tutte ovviamente sono alla mia portata vocale, sono sincero. Altre le ho comunque riviste a mio modo. Mi premeva comunque cercare anche qualcosa che non fosse troppo conosciuto come, ad esempio, Poeta Saltimbanco. Ho inserito canzoni note e altre meno note. La canzone che io preferisco, intesa come riuscita su disco, è Un tempo piccolo che, tra l’altro, unisce il mondo vecchio e il mondo nuovo, perché Califano adesso è molto amato anche dai rapper romani, lo stanno riscoprendo, giustamente. E quindi è un po’ il suo bello, no? E il fatto che ci sia di mezzo il nuovo cantautorato romano è qualcosa di interessante. Io ovviamente faccio quello che riesco, quello che posso…



Lo fai benissimo. La promozione del disco avverrà attraverso dei veri e propri concerti prettamente musicali o sarà un misto tra racconti e canzoni?

Non lo so ancora. Per ora ho apprezzato molto questo spazio che mi ha dato la Radio Svizzera Italiana e, intanto, lo stiamo mandando in giro per l’Italia, vedremo cosa succederà. Certamente è un disco che va anche un po’ raccontato. Nei miei spettacoli uso molto la narrazione musicale, è un po’ la mia cifra artistica, non sono uno che fa concerti nudi e crudi, perché mi piace molto raccontare. Non ho molto a che fare con i miei colleghi, ben più titolati di me che fanno grandi concerti. Il mio mondo è fatto di piccoli teatri, di locali dove ci si ascolta. Non a caso ho avuto un lungo periodo anche nel primo Zelig dove ho imparato anche a rapportarmi allo spazio piccolo. Tieni presente che i miei inizi sono stati da cantautore di quell'epoca, epoca di grandi promozioni, televisioni, radio, concerti e io in quello ho cercato di dare il meglio che potevo e poi, chiaramente la mia ricerca artistica ha continuato, se no che arte sarebbe? Se uno non ricerca cosa sta lì a fare, non vorrei ripetermi 100.000 volte…

Secondo te, questo tuo nuovo disco è più dedicato a chi già conosce Califano o a chi ne è completamente digiuno, come magari quei tanti giovani che neppure sanno chi sia stato Califano?

È il tentativo di mostrare che, attraverso la musica, la forma canzone possa avere un'altezza poetica diversa da tutto quello che c'è adesso. Il mondo che c'è adesso non è certo il mio mondo, quello in cui ho mosso i primi passi. La poetica che c'è adesso nei testi che si possono ascoltare alla radio o in streaming, in Italia almeno, ma comunque in tante parti del mondo, è fatta di testi che riportano delle realtà in modo più diretto, comunque diverso. Esiste però un mondo poetico alto, si può raccontare l'amore in mille modi e Califano lo ha raccontato in modo degnissimo. Io penso che il linguaggio sia importante e quindi anche la scelta delle parole sia importante, il mio disco è in fondo una sorta di piccola resistenza umana, mettiamola così.

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domenica, marzo 24, 2024

Gerardo Pozzi – Ricordati di te, un invito a chi si sente o si è sentito emarginato, non visto, non voluto, non desiderato.

di Fabio Antonelli

Il 17 marzo ha visto la luce "Ricordati di te" (2024, autoproduzione) il quarto disco in tredici anni dal suo esordio con “Sconosciuti e imperfetti” (2011, autoproduzione) di Gerardo Pozzi, cantautore bergamasco da sempre molto schivo nel far conoscere le proprie creazioni musicali, spesso gelosamente custodite nel cassetto. Ne consegue che, quando finalmente si decide a pubblicare qualcosa, è perché davvero vale la pena mettersi tranquilli a sedere e ascoltare con attenzione le sue canzoni.

Partirei come mia consuetudine dalla copertina del tuo nuovo disco Ricordati di te. Non si tratta di una fotografia ma di un disegno, una semplice spirale su un fondo verde, verde come la speranza. La spirale è un antico simbolo universale di amore e crescita e, per chi ti conosce, credo non sia così tanto enigmatico ma la naturale rappresentazione del tuo modo di intendere l'esistenza, purché non si perda mai di vista se stessi, proprio come suggerisce il titolo, quasi un avviso per non perdersi. È così o è solo una mia farneticazione?

Come sempre mi vedi e mi percepisci in profondità. La spirale, simbolo di amore e di crescita come dici giustamente tu, è anche simbolo dell'infinito, della vita che era prima, è ora e sarà avanti, anche "oltre" secondo me. E in tutto questo mistero ci siamo noi, magnificamente imperfetti, a fare parte di questa cosa incredibile. Le canzoni le ho scritte durante il lock-down, e mi sono accorto solo dopo che molte parlavano d'amore, di vita e di morte, quasi che il mio corpo (o una parte di me) sapesse a cosa sarei andato incontro quasi tre anni dopo, affrontando il tumore. Non so mai cosa io voglia dire, con una canzone, perché raramente nasce da un ragionamento. Il più delle volte (se togli Sergej, che vuole esprimere un concetto e una riflessione precisa) è qualcosa di pancia, che esce da qualche parte di profondo che ciascuno di noi ha. Per questo mi capita di dare una locazione solo tempo dopo ad alcune cose che mi escono. Però sia il simbolo che il verde (speranza, sì, assolutamente!) è in strettissima unione con il non dimenticarci di noi stessi. Sento più forte che mai, in questi tempi, il distacco delle persone da loro stesse, la mancanza di auto-consapevolezza: questo può sfociare nel narcisismo più dissoluto ma anche nel suo contrario, nel dimenticarci della nostra dignità e lasciarci calpestare da persone o situazioni che invece non avrebbero, altrimenti, alcun potere. È un invito soprattutto a chi si sente o si è sentito emarginato, non visto, non voluto, non desiderato: ricordati di te, ricordati che esisti, che davvero sei importante per tante persone, anche per lo sconosciuto che saluti al supermercato. Senza il tuo saluto, magari la giornata di quello sconosciuto sarebbe stata peggiore. In questo, sono certo, siamo tutti legati.


Il disco si apre con Addapassà, un brano molto intimo, perché affronta il momento in cui ci si abbandona totalmente al sonno ristoratore, in cui la ragione perde il controllo diretto delle nostre emozioni, dove affiorano immagini a volte incomprensibili "Spiragli dalle finestre / facevano presagire / tre visite indiscrete / di demoni invidiosi senza ragione", forse frutto delle nostre paure. Personalmente, forse per la mia particolare situazione di salute, sogno spesso di essere in ospedale per un improvviso peggioramento, ma credo tu abbia ragione quando concludi con i versi "Scendo dal letto ogni giorno / la gioia cercala dentro e guardala fuori". Come diceva il grande Eduardo "adda passà a nuttata", da cui credo tu abbia tratto ispirazione per il titolo. Si può dire che questo brano rappresenti il punto di partenza di questo percorso di rinascita?

Parlare con te, Fabio, è un piacere enorme perché davvero mi sento, come ti dicevo, molto compreso. Sì, il titolo è preso dall'espressione "Adda passà 'a nuttata", per dire che se teniamo duro, se ci colleghiamo con la nostra tenacia, poi il nostro resistere ci ripaga di luce e stupore. Questa canzone è l'unica che è stata scritta non durante il periodo covid, ma moltissimi anni prima. Ero davvero molto giovane quando l'ho scritta, e neanche me la ricordavo, assolutamente. I miei "provini" all'epoca li registravo su un registratorino portatile che mi avevano regalato, con delle audiocassette, che oggi difficilmente si riescono ad ascoltare. Recentemente, strimpellando al pianoforte, chissà quale giro ha fatto la mia mente, la mia memoria, ma mi è ricomparsa in un lampo questa canzone, persino parte del testo (le prime due strofe). La musica mi è uscita dalle dita esattamente com'era quando l'avevo composta da ragazzo. Pensa tu, i giochi della memoria. È stato invece un bene che non ricordassi le parole delle due strofe successive, così ho potuto finire la canzone con quel che avevo davanti agli occhi e nel cuore: un piccolo dipinto di origine orientale, dove un Buddha colorato di verde medita, tenendosi il polso con una mano (certamente deve avere un significato, come tipico di ogni arte pittorica) e il cranio di plastica su cui ho studiato anatomia, con colori diversi per ogni osso che compone il cranio. Da qui sono ritornato alla sensazione di fatica del prendere sonno, a quel mistero che è la notte ed è il sogno, e poi la considerazione che comunque ogni giorno ci alziamo ed affrontiamo i nostri demoni. E che la gioia sì, certo, va cercata dentro di noi, ma un grandissimo aiuto (fondamentale direi) ci arriva anche e soprattutto dagli altri, dai rapporti umani, così come da un fiore o dallo scodinzolare affettuoso di un cane.

Affrontiamo dunque Sergej, la canzone apparentemente più leggera e scherzosa dell'intero disco, almeno nella costruzione musicale ma che, in realtà è tra le più profonde, proprio come quel mare che inghiotte tutto, cui accenni nel verso finale, quella domanda che non può lasciarci indifferenti "Ma chi che ha figlio in fondo al mare?". Sergej rappresenta ogni straniero denigrato e sfruttato nello stesso tempo e mette in luce tutta la nostra ipocrisia nell'affrontare il problema immigrazione. Io la trovo meravigliosa nella sua semplicità, nel metterci dinanzi le nostre meschinità. Com'è nata?

Sergej è nata per caso, ed è l'unica delle mie canzoni che ha avuto un parto molto lungo. Diversi anni fa, una cara amica aveva in affido un ragazzino della Bielorussia, che passava tutte le estati da lei. Era un bimbo vivace, e una volta, parlandomi di lui, nell'intercalare disse: "E' Sergej..." e aggiunse qualcosa che lo riguardava. Il modo in cui ha pronunciato “è Sergej” è stato come un fulmine: ho pensato subito "posso giocare col nome Sergej e col suono equivocante che può dare il pronunciarlo, scrivendo una canzone che parli di tutte le situazioni di discriminazione e di emarginazione ". Essendo però una cosa pensata e non di pancia, l'ho lasciata decantare per anni. A volte provavo qualcosa al piano ma non mi veniva nulla. Non volevo forzare la cosa ed ho aspettato che venisse lei. Giochicchiando col pianoforte, un giorno mi è venuto da iniziare con un omaggio alla canzone Johnny Bassotto cantata da Bruno Lauzi, e da lì ho proseguito citando tutti i luoghi comuni tipici che si usano contro le persone discriminate, chiunque esse siano. E in due minuti è nato questo pezzo. Mi piacerebbe fosse un faro per tutti quelli che si sono sentiti messi da parte, non visti, denigrati. Una delle più belle canzoni a riguardo credo resti Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano. Avevo paura che Sergej venisse mal interpretata, ma finora invece è stata molto compresa, e sono davvero contento di questo. Molto aiuta il non essere conosciuti, perché allo stato attuale, se un artista famoso cantasse canzoni del genere rischierebbe il linciaggio da "entrambi i lati" dell'estremismo. Oggi sembra che il non perdono ed il giudizio totalitario a prescindere siano le uniche forme di espressione, e questo mi rende davvero molto triste.


Con Anna Göldi, invece, affronti alla tua maniera un tema attualissimo come quello dei femminicidi partendo da un fatto storico risalente al 13 giugno 1782, giorno in cui Anna Göldi, ultima donna in Europa ad essere accusata di stregoneria, fu ghigliottinata a Glarona in Svizzera. La canzone si apre con questi versi "Sono passati quasi 226 anni dalla tua testa mozzata. / Dicono che gli Svizzeri sono precisi come gli orologi: mi sembra una cazzata" e si chiude con questa amarissima constatazione "Mi spiace dirtelo, e tanto più con una canzone pensata sul divano. / Ma la tua morte, le torture ignobili, la testa ruzzolata... / È stato tutto vano. È stato tutto invano". Cosa ci sta in mezzo, che è forse ancora peggio visto che siamo nel 2024? Lo lascio dire a te e alla tua sensibilità.

In mezzo c'è ancora tanto, tantissimo. Da qualche anno giro con uno spettacolo, fortemente voluto dalla mia amica Erica Boschiero (bravissima cantautrice) e costruito insieme al Coro Auser di Treviso (dell'Università della Terza Età) composto da sole donne. Lo spettacolo racconta la storia della posizione e del ruolo della donna, circa da inizio XX secolo sino ad oggi. La cosa pazzesca è che questo spettacolo si basa su documenti e fatti realmente accaduti, e quelli che narrano gli anni '60 sono stati vissuti direttamente da molte delle coriste. Non so dare una spiegazione e non ho alcuna risposta, in merito alla questione della violenza contro le donne, solo una profondissima e inquieta amarezza. Se però ci si concentra anche sulle religioni, che mostrano la storia della cultura di un popolo e/o di una zona del mondo, non ce n'è una che non abbia un'impronta patriarcale (come si usa dire oggi). Forse invidia? Timore? Perché questa necessità "maschile" di sottomettere la donna? Attenzione però: di una certa parte maschile, voglio specificarlo, di qualcuno che ha avuto ed ha potere decisionale. Non è un costrutto di ogni uomo. Le generalizzazioni mi fanno sempre paura. La violenza è umana, non ha genere né confini geografici. Ma quella contro le donne è palese, da sempre. La storia di Anna Göldi ci insegna che dietro un assassinio di questo tipo c'è sempre qualcuno di potente che deve nascondere qualcosa. Nel caso di Anna, il suo ultimo "datore di lavoro", che nonostante sposato e con figlie (di cui proprio Anna si occupava) si era invaghito di lei e non voleva che questa cosa trapelasse, durante il falso processo insistette sino ad ottenere un documento in cui lui specificava (a che pro?) che mai e poi mai aveva avuto una relazione con Anna. E la cosa che più mi ha sorpreso, della vita e della morte di Anna Göldi, è la sua riabilitazione sommessa solo dopo ben 226 anni dal suo omicidio. Oggi sembra che i femminicidi siano in aumento, ma è soltanto perché c'è finalmente in atto una sorta di ribellione (dico finalmente, ma purtroppo le conseguenze sono quelle che sappiamo). Ai tempi delle mie nonne, i mariti picchiavano le mogli, le mettevano incinta con dieci, undici figli, stavano sempre fuori casa, andavano con altre donne, rientravano ubriachi e venivano serviti e riveriti dalle loro mogli-schiave. Nessuna si ribellava, e ai mariti non "conveniva" ucciderle. È una terribile espressione, lo so, ma è così. Oggi, se l'oggetto di "tua proprietà" (perché è questo che si crede) si ribella, se il giocattolo non vuole più funzionare con te, lo rompi o lo butti. Non so da dove arrivi tutto questo, ma è un fatto che esiste. Ribadisco: la violenza c'è in tutti. Io stesso ho subìto uno stalking violento molti anni fa, da parte di una donna squilibrata. Ma questi sono casi singoli, psichiatrie personali. La liceità di avere la proprietà su un altro essere umano, e nel caso specifico sulla donna che accompagna la nostra vita, è invece inammissibile, per me. Spero che la società, la politica, la sociologia e la psicologia possano migliorare le cose, in un futuro che però non sia troppo tardivo.


La successiva Caso mai trovo sia meravigliosa, sin dal suo incipit. Sembra svilupparsi su tre piani, il passato con i ricordi "Il senatùr voleva fare il cantante", il presente con tristi visioni come "Il senatùr si è dato ormai alla macchia, con il suo tripode allontana le zanzare / Mi sembra un vecchio raccoglitore di cotone / Con la chitarra che suona all'imbrunire / La sedia a dondolo che dondola per tutti / Come bilancia, soppesa le stature" ed uno sguardo allucinato verso il futuro "Se un giorno tutto sarà poi mai finito / ci troveremo tutti quanti nelle piazze / come fratelli a sventolar bandiere. / I più spavaldi ne avranno a due colori: / un lato rosse e l'altro lato nere". Anche nel caso di una eventuale rinascita non mancheranno mai i furbi... In che momento è stata scritta e cosa vorresti aggiungere per una migliore interpretazione?

Casomai è un esempio di come (mal)funziona la mia mente… Sono tutte impressioni, sensazioni, immagini che sono confluite in un’unica canzone, che comunque è politica, di base. Era il tempo del covid, e dall'iniziale situazione del "siete i nostri eroi!" riferito al personale medico e paramedico, si stava iniziando a passare al "ci volete ammazzare tutti!". Non era ancora ben chiaro il passaggio, ma lo era per me. A volte capita che, se osservi attentamente la società ed i tempi, il futuro ti si presenti molto chiaro, e così purtroppo è andata. Come nel finale della canzone, prevedevo che la nostra memoria corta (di cui Ennio Flaiano ben ci istruiva) ci avrebbe fatto scordare tutte le bassezze toccate in quel periodo, da qualsiasi lato estremistico fossero arrivate. Leggo ora questa canzone (come ti dicevo, scrivendo di pancia e di getto, certe cose mi si chiariscono solo tempo dopo) come una associazione di idee sui paradossi di noi esseri umani. La mia testa è partita col ricordo di quando il fondatore della Lega voleva fare il cantante, ma essendo stato scartato ha virato verso la politica, che a sua volta gli ha voltato le spalle non appena ammalato. Cosa c'è dietro tutto questo bisogno di arrivare, a prescindere da cosa siamo nella realtà, tanto che se non divento famoso in una cosa voglio diventarlo in qualsiasi altra? Che mancanze ci sono, in situazioni come queste? E come si fa a vivere in una realtà come quella della politica di chi ci governa, fatta di così tanta ipocrisia e distacco emozionale e relazionale? Poi i miei pensieri sono andati a chi aveva il terrore del covid, poi verso coloro che denigravano chi ne aveva paura, poi ho pensato al lato positivo del blocco di ogni lavoro: erano diminuiti/scomparsi anche certi delitti, certi regolamenti di conti, visto che i bar erano chiusi e nessun motociclista col casco e col mitra poteva ammazzare nessuno. Poi ho appunto immaginato che alla fine avremmo (come forse è giusto?) dimenticato tutto quanto, saremmo ancora scesi nelle piazze "amandoci" tutti quanti, e tra i tanti, molti avrebbero nascosto -come spesso- i due lati della politica, per poter salire in ogni caso sul carro del vincitore. È un po' una fotografia di certe caratteristiche di noi italiani. In fondo, critico o provoco solo se non comprendo gli atteggiamenti di chi amo. E le persone, nonostante ne abbia una paura infame, sono la cosa più preziosa nella mia vita. Con l'espressione "...politica di chi ci governa" intendo tutta la politica, non un partito o una posizione. Ho l'impressione (senza rischiare di diventare generalista) che molti di quelli che aspirano ad arrivare così in alto abbiano questo come obiettivo, non il bene degli italiani. Lo stesso vale per ogni ambito dove esista una gerarchia e si debba "scalare" per arrivare alla vetta. Questo scalare comporta quasi sempre lo schiacciare, l'eliminare chi ti era vicino sino a poco prima. Che personalità devi avere, per farti piacere un mondo così?

Passiamo a Sciabola. Musicalmente ha un andamento continuamente mutevole, come mutevole è il paesaggio per chi è abituato a muoversi in bicicletta, magari non con il passamontagna come il protagonista, ma "Di solito è così, col passamontagna, che la sera / vanno in giro i pazzi". Il testo narra di un incontro tra il "pazzo" in bicicletta e una donna che deve averlo sentito arrivare e per questo è uscita in strada, c'è un saluto quasi urlato da parte di lui e il "terrore" sul volto di lei. Il protagonista prosegue imperterrito "oltre il fosso / a bestemmiarmi addosso". Sembra di essere dentro un thriller. Quanto ti senti incompreso, considerato un pazzo e, perché hai intitolato questa canzone Sciabola?

Mi sono sentito molto incompreso, in passato, a causa della storia che ho avuto e dell'ambiente in cui sono cresciuto. Oggi meno, oggi cerco di volermi un poco di bene (me lo devo imporre però) e allora mi sento anche un po' meno incompreso. Artisticamente mi piacerebbe che questo fragile mondo che ho dentro arrivasse un po' di più, ma capisco che sia difficile, anche perché il mio modo di esprimermi non è che sia proprio orecchiabile o estetico... Rispetto alla canzone, è nata da un fatto grottesco che ho vissuto in prima persona, del quale sono fautore in tutto e per tutto. Devi sapere che nelle zone dove abito io, il saluto è più raro della moltiplicazione dei pani e dei pesci. A me hanno insegnato a salutare chiunque incontri, ancor più se sconosciuti, è un bel modo per augurare salute (salutare è proprio questo, etimologicamente parlando), ma nelle mie zone se saluti qualcuno che non ti conosce, quello o ti guarda con superiorità, o con preoccupazione, del tipo "Cosa vorrà questo, da me? Di certo vuole rubarmi qualcosa!". Quella sera in cui sono uscito in bici, conciato come non so cosa, e per il freddo avevo anche un passamontagna, ho incontrato l'unica persona che avrebbe anche risposto al mio saluto, ma immaginati questa signora anziana che esce di casa, si trova davanti uno in bici tutto imbacuccato, col passamontagna e in più (ti giuro!) che sta parlando da solo a voce alta. In realtà stavo ripetendo "Andare camminare lavorare" di Piero Ciampi, ma senza cantarla (per la signora sarebbe stato molto meno pauroso, credo); stavo ripetendo il testo a voce, ad alta voce per giunta, per darmi un ritmo nella pedalata, fa un po' tu... La signora si è ritrovata davanti uno come me, ed io (che ero in imbarazzo per stare parlando da solo ad alta voce col testo di Ciampi) l'ho salutata con ancora più enfasi, per mascherare il mio imbarazzo. La signora ha pure risposto al mio saluto (cosa, come ti dicevo, rara, qui) ma lo ha fatto con un volto terrorizzato, è come se avesse risposto "buonasera" con la voce, ma gli occhi chiedevano "pietà! non mi ammazzi!"... Poverina, l'unica persona gentile l'ho spaventata a morte. Non poteva che nascere una canzone, e così al mio rientro a casa è nata Sciabola, il cui titolo ricorda il momento veloce con cui è successo tutto. Per esteso, i momenti di invisibile incomprensione che abbiamo così spesso tra noi esseri umani...

Personalmente la successiva canzone Dov'è finito l'amore del mondo è di una bellezza lacerante, non c'è volta in cui io l'ascolti e riesca a non piangere, la triste melodia che affonda i colpi nel cuore si fonde con dei versi che da una parte sottolineano un incredibile desiderio di amore "Sono venuto a cercarti anche in chiesa, amore mio / Sono venuto anche in chiesa ma non mi ha aperto nessuno", dall'altra descrivono momenti di apparente assenza totale dell'amore "C'eran camini che fumavano di carne mai vissuta / e quest'aria assassina e muta noi la respiriamo ancora". Immagini tragiche che però non ci hanno insegnato nulla. Direi quasi rassegnati i versi finali "Se ti sei nascosto, Amore Mio, lo sai che ti ho capito?". Non voglio aggiungere altro, per me è poesia allo stato puro...

Ti ringrazio tanto, Fabio. Grazie per quel che mi scrivi e per come lo scrivi. C'è qualcosa che anima questo mondo, queste nostre vite. Che lo si chiami Dio, Energia o in qualunque altro modo. Io credo semplicemente sia l'Amore. E noi, nonostante tutte le discrepanze, i paradossi, le oscenità di cui siamo capaci, e forse anche per tutte queste cose, ci siamo dentro, in questa sorta di amore infinito che muove l'universo. Ne facciamo parte, ne siamo parte. È anche in noi. Se l'abbiamo perduto, è in noi che lo possiamo ritrovare. In noi e nei rapporti con gli altri esseri umani, con la natura, con gli animali e tutto ciò che fa parte di questo mistero. Una delle cose più belle che ho letto è che "Uno è Tutto e Tutto è Uno". Potessimo ricordarcelo più spesso...


Se l'Amore a volte sembra davvero difficile da riscontrare, il male no, quello lo si incrocia quasi quotidianamente, anche se a volte si maschera molto bene. Battiato cantava che "Il diavolo è mancino, e subdolo. E suona il violino". Tu, in Fangù, pur dicendo di voler credere al bene lo vedi nella gente che "si fa furba e sorridente / mentre con la terza mano lei ti sfila piano piano / tutto il cuore che ti invidia...". Per fortuna, però, la maturità ti ha portato a concludere la canzone così "Ora posso anche scordarti. / Io non voglio più vederti... E adesso posso!". Posso non coincide con riesco, quante volte capita di farsi fregare comunque dal male. In fondo, sin dal titolo, la canzone sembra essere più un'esortazione... È così?

Sì, è così. Ci si trova sommersi tra lo stupore di fin dove possano arrivare certe azioni della gente, ed il cercare a tutti i costi di voler comprenderne gli eventuali significati reconditi, che però spesso, semplicemente, non ci sono. Qualcuno definiva l'invidia una evidente manifestazione di inferiorità. Paolo Villaggio sosteneva che l'invidia era un sentimento umano, e per tanto appartenente a tutti, e su questo è impossibile non essere d'accordo. Ma ci sono invidie e invidie. Un conto è voler avere quella bella caratteristica di qualcuno che ammiri, un conto è volere che questa persona fallisca per poter gioire del suo dolore. Purtroppo, ci sono persone così irrisolte che si sentono vive solo quando vedono gli altri a terra. A mio avviso è sempre una questione di disturbi della personalità, ma ad ogni modo si manifestano con questa umana ferocia. A un certo punto però, l'attaccamento a quella persona o situazione o dolore può (e deve) anche andarsene. Dove, lo dice tra le righe il titolo della canzone...

Pienamente d'accordo. Eccoci arrivati ad Actarus, dolcissima canzone sospesa tra la nostalgia di un passato irrecuperabile "Actarus nel cielo si spiaccica sul muro / Nella stanza dei miei sogni non vola più nessuno / Ci sono solo fari e sirene sempre accese / che puntano negli occhi illusioni mai sospese" e il desiderio mai sopito di ricevere amore "Le cime delle cime han profili profanati / sono cinquant'anni e imploro ancora amore". Ë proprio vero che il passare degli anni non affievolisce mai il desiderio di amore e, chi è più sensibile di altri credo ne soffra maggiormente la mancanza, vero?

Vero. La fame e la sete di amore, di affetti, credo che non finisca mai. Se poi non ti sono arrivati quando ne avevi bisogno (quando eravamo bimbi, fragili e senza protezioni), allora questa fame e sete atavica ti accompagnerà finché vivi. E difficilmente qualcosa potrà colmarla. È un fatto che rasenta l'incomprensibile, ma fatto rimane. Una solitudine interiore difficilmente spiegabile. L'essere umano è una dicotomia tra il bisogno d'amore e la sua stessa paura. Di amare e di essere amato. E magari la vita vola alla velocità di uno starnuto e ti accorgi a cinquant'anni che questo bisogno è ancora vivo. Però se ti guardi intorno, non dico in te stesso (non tutti riescono) ma anche solo intorno, e ti permetti di accettarlo, di amore ce n'è davvero tanto. Nei gesti piccoli, in un sorriso, un saluto, una frase che diamo per scontata ma scontata non è: l'amore c'è. L'amore vive.

Siamo in dirittura d'arrivo, perché La vita va, intercalata dalla brevissima Ricordati di te (quasi un appunto, ma di vitale importanza), prima di una dolcissima ripresa del ritornello da parte delle tue figlie, rappresenta direi la chiusura del cerchio. La vedo quasi come una cantilena consolatoria, un antidoto da cantare nei momenti di debolezza in cui si rischia di ricadere nei soliti errori. "La vita va, è una candela / ci soffia sopra un vento di infelicità / La vita va, traballa sempre / ma lei è testarda, forse non si spegnerà" recita il ritornello, intercalato dalla constatazione di un male interiore che ti trascini da sempre, con la consapevolezza però, di voler finalmente cambiare e il disco, con la ripresa del ritornello da parte delle tue figlie, che rappresentano ovviamente il futuro, non poteva desiderare miglior finale, non credi?

È esattamente così. La vita corre veloce, fragile e zoppicante, ci porteremo per sempre dentro di noi le conseguenze di mancanze, di presenze, di ferite a freddo, senza anestetico. Eppure, così come siamo, esattamente così come siamo, possiamo chiudere con una certa parte della nostra storia (che non vuole dire che non abbia più effetti su di noi, ma che possiamo conviverci pienamente e con senso) e ricominciare. Nasciamo e rinasciamo in continuazione. E ogni volta è una speranza in più. E i bimbi, e tutti quelli che verranno dopo di noi, continueranno molto più e molto meglio di noi. Ho letto dell'esistenza di una tribù dove, quando uno compie un errore, viene messo al centro di un cerchio di persone, e a turno queste persone gli dicono tutte le bellezze che ha, tutte le ricchezze, i pregi, le caratteristiche positive e uniche. Che bellezza poterlo fare anche noi. Con gli altri ma anche e soprattutto con noi stessi (in questo caso gli altri sarebbero una conseguenza naturale). Perciò sì, guardiamo con amore a questi meravigliosi bimbi che sono il futuro e il presente. E ricordiamoci di noi!

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giovedì, febbraio 29, 2024

Fabio Cinti e Alessandro Russo – Guardate com’è rossa la sua bocca, Branduardi riletto con rigoroso ma divertito approccio classico

di Fabio Antonelli

Il 12 gennaio 2024 è stato pubblicato “Guardate com’è rossa la sua bocca” (AMS Records, 2024), il nuovo album pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo, uno splendido omaggio ai cinquanta anni di carriera di Angelo Branduardi. L'album è stato inoltre accompagnato dall'uscita in contemporanea del videoclip del singolo “Fou de love”.

Se fossi d’accordo, prima di buttarci a capofitto dentro quest’ultimo progetto, vorrei partissimo dal tuo incontro con il pianista e compositore Alessandro Russo che risale a parecchi anni fa, dato che era già presente nel tuo secondo album Il minuto secondo del 2012, in veste di pianista ed arrangiatore. Direi che il vostro è un solido sodalizio artistico più che solido …

Sì, noi ci siamo incontrati in quell'anno lì o forse qualche anno prima. Alessandro mi era stato proposto da un amico cantautore romano che mi aveva detto “Guarda che c'è un pianista molto in gamba, che ha fatto una tesi su Battiato e che potrebbe fare il tuo caso” e quindi ci siamo conosciuti, ci siamo subito trovati in sintonia, abbiamo gli stessi gusti, un po’ la stessa estetica musicale, lo stesso modo di pensarla. Inizialmente abbiamo suonato parecchio dal vivo e poi c'è stata la collaborazione per il mio secondo album Il minuto secondo. In seguito, abbiamo suonato ancora tanto dal vivo e, sempre insieme, abbiamo aperto alcuni concerti di Franco Battiato dell’Apriti Sesamo Tour. Abbiamo davvero suonato tanto assieme in quei primi anni e già da lì cominciavamo a suonare i pezzi di Branduardi, ma per noi, per conto nostro. Finché siamo arrivati al punto di dire “Beh, queste canzoni in qualche modo funzionano abbastanza. Se ci mettessimo un po’ di impegno e facessimo uno studio un po’ più approfondito, forse potrebbero essere buone per essere messe su disco”. Ecco, questa è in sintesi la storia tra me e Alessandro, siamo molto in sintonia e siamo diventati anche molto amici.

A questo punto possiamo dire che tutto è partito da Battiato…

È partito tutto da Battiato? Sì, il deus ex machina è Battiato.

La tua attività, invece, è partita in veste di cantautore con l’esordio discografico, all’età di 33 anni, rappresentato da L’esempio delle mele, per poi volgere pian piano nel tempo lo sguardo anche all’interpretazione, con la riedizione nel 2018 di La voce del padrone, capolavoro del 1981 di Franco Battiato, con il quale hai vinto la Targa Tenco per la categoria “Interprete di canzoni”.

In realtà fui già interprete anche nel mio secondo album Il minuto secondo, perché quel disco era in realtà diviso in due parti e, nella seconda parte, interpretavo lied e canzoni non mie, però era una cosa un po’ diversa… Poi, invece, quando ho vinto la Targa Tenco come miglior interprete, lì ho capito che forse avrei potuto sfruttare la voce anche al di fuori del mio contesto cantautorale ed effettivamente, proprio come in questi giorni, peraltro, sto cantando le canzoni di un album di un cantautore che vive in Australia, un disco progressive. Ho prestato la voce anche nel disco di Fabio Zuffanti, come interprete puro.

Tornando a La voce del padrone, cosa hai provato nel mettere mano ad un disco epocale come quello e nel vincere poi questo prestigioso riconoscimento, cosa ha rappresentato per te la Targa Tenco 2018 di Migliore Interprete?

Hai detto bene, un disco epocale come quello! Beh, all’inizio devo dire che l'ho fatto un po’ per gioco, nel senso che mi sono messo a lavorare con gli arrangiamenti più che altro perché mi ero stancato di stare lì a fare le mie cose, volevo confrontarmi con un'opera colossale, proprio come quella di Battiato. Ricordo benissimo che poi ci fu in quel periodo una cena qui a casa mia con quelli che poi hanno fatto uscire il disco: discografici, produttori, eccetera, che in quell’occasione mi hanno detto “L'idea è molto buona, se te la senti di farlo uscire, ti diamo una mano”. Io ero un po’ titubante, perché pensavo di prendermi fondamentalmente delle gran bastonate, perché a toccare un'opera così si rischia davvero grosso. Ma siccome ci ho messo veramente un grande rispetto nel farlo, mi sono detto “Vabbè, proviamo, vediamo che succede” ed è andata molto bene infine, fino ad arrivare poi a vincere la Targa Tenco, una vittoria che è stata completamente inaspettata. Tra l’altro, qualche anno prima, nel 2014, avevo scritto una lettera aperta al Club Tenco in cui mi lamentavo un po’ del meccanismo di votazione, e lì scoperchiai un vaso di Pandora e ci furono poi delle grosse critiche nei miei confronti. Per cui, a valle di quel fatto, mi dissi che avrei potuto mettere una pietra tombale sulla Targa Tenco per quanto mi riguardava, e che non avrei mai potuto vincerla. Poi, invece, nel 2018 sono stato votato ed ho vinto; non mi aspettavo neanche lontanamente di poterla vincere perché pensavo di essere tagliato fuori proprio in virtù di quella lettera aperta. È stata un'esperienza meravigliosa, è stato bello essere invitato al Tenco a suonare e ritirare la Targa, Targa che mi ha dato molte possibilità. Il disco, poi, è uscito quando Franco ancora era vivo, nel 2018, ma riuscì ad ascoltarlo e gli piacque, anche se non stava già bene, quindi non sono riuscito a parlargli. In seguito, sono stato chiamato sia dall'orchestra della Magna Grecia - per rifare quelle canzoni con i miei arrangiamenti -, sia dalla band originale di Franco Battiato, cioè dalla da Angelo Privitera e dal Nuovo Quartetto Italiano con il quale ho fatto molte date (e ne farò altre…). Tutto ciò è avvenuto perché hanno ascoltato il mio adattamento de La voce del padrone. Per me è stata una grande conquista.

Quindi la Targa ti ha portato fortuna.

È stato un privilegio vincerla, sono stato molto contento, soprattutto, ripeto, perché non me l'aspettavo ed ero completamente disilluso, non so come dire, non ero lì in attesa… poi, quando mi è arrivata la notizia che ero nella cinquina mi sono detto “Come mai? cosa è successo?”. Poi ho pensato di essere entrato solo tra i finalisti e che finisse lì, invece, poi, una mattina mi chiama l'ufficio stampa e mi dice “Guarda che hai vinto!”. Ero completamente fuori di me e incredulo, non me l'aspettavo. Ecco è stato molto bello. Adesso vediamo con questo che succede…

Devi comunque averci preso gusto a ricoprire il ruolo di interprete se il 12 gennaio 2024 hai pubblicato un disco omaggio ai 50 anni di carriera musicale di Angelo Branduardi, sempre in collaborazione con Alessandro Russo, omaggio composto da 8 brani che è stato intitolato Guardate com’è rossa la sua bocca, un verso estratto da Sotto il tiglio. Perché, dopo Franco Battiato hai deciso di interpretare Angelo Branduardi?

Sì sì, mi piace molto e devo dirti che questo progetto ce l'avevamo in cantiere da tanto tempo. È stato soprattutto Alessandro a spingermi; io ero un po’ restio per via del fatto che avevo già fatto uscire La voce del padrone ~ un adattamento gentile, ma lui, invece, ha insistito. Quindi ci siamo messi a lavorare e devo dirti che ci ho impiegato un po’ di tempo a fare uno studio approfondito, perché non è così semplice Branduardi. I suoi brani sono, da un punto di vista degli arrangiamenti, molto complessi e non sono facili da ridurre in solo pianoforte e voce; è stato necessario trovare quel quid che rende i pezzi emotivamente belli come sono quelli originali, lavorandoci tanto.

Quali sono state le difficoltà maggiori nel tradurre le complesse orchestrazioni di Branduardi per sola voce e pianoforte.

La difficoltà è proprio questa, nel senso che, quando si ascolta una canzone con gli arrangiamenti così complessi, barocchi, folk, celtici, come quelli di Branduardi, se si decide di fare una riduzione per pianoforte e voce, si deve trovare all'interno di armonia, melodia e ritmo quelle parti incastrate che riescano a tradurre tutto in un’unica linea melodico-armonica, quella che tu “senti" quando ascolti tutti gli strumenti. Non so se mi sono spiegato… Quindi bisogna mettersi lì piano piano e operare delle scelte, strumento per strumento. Allora si cerca di mettere insieme tutte le parti e far venir fuori un'unica linea che comprenda tutti gli strumenti, ma non è facile perché bisogna cercare con una specie di astrazione emotiva, ascoltare contemporaneamente in modo superficiale e approfondito, con il cuore aperto e la mente attenta. Poi il nostro punto di vista è quello di metterci completamente al servizio della canzone, di non toccare niente della scrittura del brano, di non modificare niente, neanche una nota, di non aggiungere niente di nostro, con un’impronta assolutamente classica. E poi cercando di essere il più possibile non dico distaccati, perché poi emotivamente ci siamo molto molto dentro, però di mettere un po’ da parte la personalità di ciascuno per non far uscire fuori una cover in cui uno ci mette del suo, e di comportarsi come un pianista classico che si mette a suonare un'opera classica.


Senza quindi andare a modificare la partitura.

Sì, senza andare a modificare la partitura. Questa è stata la sfida, la cosa più difficile. Spesso chi non è capace di rifare una canzone come l’originale se la modifica secondo le proprie capacità e possibilità: certamente può uscire qualcosa di buono, ma nella maggior parte dei casi si è molto al di sotto dell’originale. L’eccesso di personalismi spesso è scadente. (Se si ha questa voglia di esprimersi con le proprie idee, allora scrivi pezzi originali!) Invece, per rifarla esattamente com'è, bisogna confrontarsi con quel gigante che l'ha scritta. E questo è lo stesso lavoro che ho fatto per La Voce del Padrone ~ un adattamento gentile. Non ho toccato niente. Qualcuno mi ha detto “Ah, ma sai, le canzoni di Battiato sono molto alte di tonalità, forse ti conviene abbassarle”. E perché? Assolutamente no, se non riesco allora non le canto! Con Battiato poi ho anche la fortuna di avere un timbro che lo ricorda, quindi non è stato troppo difficile…

Se è per questo, anche in molti passaggi di questo nuovo progetto ricordi molto Branduardi.

Sì, ma perché siamo un po’ in quell'ambito lì, in quel modo modo di cantare, però non c'è nessuna imitazione, nessuna emulazione. C’è semplicemente il cercare di immedesimarsi in quelle canzoni ed è un lavoro abbastanza complesso, devo dire. essere se stessi è più facile che essere uno strumento. In questi tempi c’è un culto della penalità che non capisco molto e che non accetto. Ci si riduce a cercare dentro di sé il nulla, come se se le nostre risorse originali fossero infinite… Ma noi siamo contenitori e dobbiamo riempirci prima di poter elaborare ed esprimerci. Ci vengono spesso imposte personalità vuote e ci devono star bene solo perché sono tali? la personalità si forma prima per addizione  poi per sottrazione. Se non ti riempi di qualcosa potrai anche essere originale, ma sei povero e vuoto.
Ho cantato più volte le canzoni, cercando di trovare l'interpretazione più giusta, cercando di non fare patchwork, di non cantarle in maniera spezzettata, ma cercando sempre di fare un'unica take, di cantarle cioè dall'inizio alla fine.

Qual è il brano per cui hai avuto maggiori difficoltà nell’approccio?

Sono stati due. Confessioni di un malandrino: è un brano stupendo, abbastanza conosciuto ma complesso, il primo brano scritto interamente da Branduardi, il testo dice tante cose e ha un ritmo abbastanza incalzante. Il secondo è stato Alla fiera dell'est, perché è un brano famosissimo. Anche lì con Alessandro abbiamo detto “Tra i brani famosissimi di Branduardi, scegliamone soltanto uno” e quindi c'era da scegliere tra Cogli la prima mela, La pulce d'acqua, Alla fiera dell'est, Si può fare… Con le canzoni più famose è più difficile, perché è come se costituissero, in testa, una specie di regola infrangibile.

Certamente il criterio adottato per la scelta degli otto brani non è stata la notorietà.

Ah, esatto! non volevamo fare il disco The Best. Volevamo semplicemente cantare le canzoni che ci piacevano di più, quelle che ci sentivamo di più a cuore. Alla fine, abbiamo scelto solo Alla fiera dell'est, che però è un brano ripetitivo ed è stato quindi difficile cercare un approccio e un risultato che non fosse noioso. Abbiamo quindi inserito i cori e abbiamo utilizzato il pianoforte un po’ come fosse non uno strumento solo, ma tanti strumenti, quindi aggiungendo di volta in volta una parte.

Quale tra gli otto brani scelti, quello che più ti ha entusiasmato e perché?

Un brano che ho riscoperto, che mi è sempre piaciuto molto e che trovo peraltro simile un po’ alla scrittura di Battiato è Casanova, che è sul disco Si può fare. È un brano “minore”, nel senso che è veramente poco conosciuto, però ha una melodia e un testo molto belli. L’ho trovato dolcissimo. In questa versione pianoforte e voce, secondo me ha avuto anche una specie di fioritura in più, rispetto all'arrangiamento di Branduardi che si mescolava insieme a tutte le altre canzoni.


Beh, è molto bello anche il video di Fou de love, soprattutto perché mostra da una parte il rigore di una vostra registrazione, dall’altra il divertimento assoluto che ne scaturisce.

Sì, ma poi guarda, come diceva Sgalambro, “il divertimento è una cosa seria”. Quindi da quel punto di vista ci siamo divertiti seriamente, seriamente nel senso che, quando uno si diverte a fare le cose che gli piacciono non è il divertimento dello sballo che uno cerca, ma è un divertimento derivante dal fatto che mi sta piacendo molto quello che faccio. Volevamo che nel video si trasmettesse questa cosa, anche la tranquillità con cui abbiamo lavorato al disco io e Alessandro. È stata molto bella anche la scelta del titolo…

Ecco, perché è stato scelto proprio quel verso a rappresentare la raccolta e perché questa sobria copertina che tanto mi ricorda la collana Classici di Adelphi, forse perché un’opera come questa può considerarsi a tutti gli effetti un classico?

Il titolo. Ogni volta che arrivavamo a quel punto della canzone ci guardavamo in faccia io ed Alessandro e lo cantavamo un po’ assieme scherzando “Guardate come è rossa la sua bocca”! e quindi ci sembrava sempre un punto di arrivo. Alla fine, abbiamo detto “Beh, utilizziamo quella frase lì per titolo” perché sembrava quasi che fosse venuta da sé, che ci stesse un po’ chiamando e poi, devo dire, suona molto bene, e soprattutto racchiude un po’ tutto il mondo di Branduardi in qualche modo, …no? Quest'immagine di questa donna sotto il tiglio che ha questa bocca rossa, un pò come un fiore…


Direi molto fiabesca.

Sì sì, molto fiabesca. Ecco, quindi ci pareva buona come titolo. La copertina, invece, hai detto bene. Io sono un fan della Adelphi e volevo che il disco avesse questa veste classica perché classico è l'approccio, come abbiamo detto prima, e volevo che somigliasse un po’ anche agli spartiti della Ricordi. Non so se hai presente gli spartiti per pianoforte super classici, ecco, che sono un po’ così. In definitiva una via di mezzo tra gli spartiti della Ricordi con quel marroncino e i libri dell’Adelphi che hanno una veste così, rigorosa, sempre molto elegante. Il progetto grafico è il mio, poi un grafico ha elaborato tutto il layout. Molto semplice, ma funzionale.

Un progetto musicale come questo credi sia destinato ad un’attività concertistica esclusivamente teatrale? Hai in programma un tour?

L’assetto pianoforte e voce prevede un silenzio e un'attenzione che soltanto a teatro si può avere, a meno che non si va in dei locali appositi. Diciamo che i locali rumorosi non fanno il nostro caso, non siamo un band rock… Stiamo lavorando adesso, proprio in questi giorni, con il booking, per capire un po’ come muoverci con le date. Adesso ho due date, ma riguardano Battiato ancora, la prima a Messina il 13 marzo e l'altra a maggio ad Acireale, dove canterò la Messa Arcaica con l’orchestra e il coro del Conservatorio di Catania…, però sì, stiamo cercando di chiudere con il booking in modo che si parta poi con le date.

Come cantautore, invece, hai qualcosa che bolle in pentola?

Sì, io continuo a scrivere. Prima di questo avevo fatto già un altro disco che è Al blu mi muovo, uscito nel 2020, in piena pandemia. Adesso l'idea sarebbe, avendo fatto prima La voce del padrone e poi questo, quella di fare una trilogia; quindi, realizzare un altro disco come interprete, però non abbiamo ancora idee precise…


Hai già in mente qualcuno quindi?

Un cantautore che mi piace moltissimo e che vorrei interpretare è Herbert Pagani, ci sono delle sue canzoni stupende… È tutto da tutto da vedere però, è un'idea mia, ma magari in mezzo potrebbe essere che faccia un disco di inediti, invece. Vedremo…

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venerdì, febbraio 23, 2024

Davide Van De Sfroos – Manoglia, un disco arboreo, naturalistico, lieve ma capace di donare tante briciole

di Fabio Antonelli

Il 13 ottobre 2023, in pieno autunno, è stato pubblicato il nuovo disco di Davide Van De Sfroos intitolato “Manoglia” (BMG/MyNina, 2023). Un disco volutamente acustico con undici tracce inedite che hanno preso vita negli anni e sono rimaste gelosamente custodite da Davide probabilmente in un cassetto, o in una tasca come fossero amuleti, in attesa fosse maturo il tempo per venire alla luce e dare vita ad una rinascita, un nuovo cammino. Ecco cosa mi ha confidato in una lunga e piacevolissima chiacchierata.

Partirei dalla copertina dell’album che, un po’ come avviene per il package di un profumo o l’etichetta di un vino, rappresenta il biglietto da visita di un album discografico. In questo caso un disegno con un albero che ha penne di uccelli al posto dei rami e, al centro dove partono i rami o, meglio, le penne, una maschera che a poco a poco forse sparirà… Com’è nata e perché hai scelto Manoglia come titolo dell’intero lavoro? Può ritenersi in assoluto il tuo lavoro più intimo, in cui ti metti con grande coraggio più a nudo?

Innanzitutto, la penso come te. Le copertine degli album sono il primo invito all’ascolto. Nella storia dei miei dischi comperati, che sono stati veramente tanti, ci sono stati veramente moltissimi LP che sono finiti a casa proprio a scatola chiusa, solo per la bellezza della copertina. Quando vidi il disco di J.J. Cale, con l’immagine del pacchetto delle Gitanes, mi dissi “non può non essere un bel disco” e, infatti, è un disco stupendo. Poi, purtroppo, non sempre funziona così bene. In questo disco acustico il mio desiderio era quello di far intravedere una certa psichedelia, una psichedelia del periodo anni 60 e 70 e, originariamente, lo volevo ultra-colorato, se vogliamo dire anche un po’ in stile San Francisco. Però Michele Cerone, che abita vicino a Roma e che mi è stato proposto come grafico, aveva in serbo anche altre suggestioni, ovvero quella psichedelia più legata a Sgt. Pepper's e ad altri mondi. Quando ha ascoltato alcune tracce del disco e gli ho parlato di un disco che si sarebbe intitolato Manoglia, ha modificato un'immagine che aveva trovato su un vecchio erbario e mi sembrava veramente già un totem, con la maschera sotto, con tutto il resto della copertina libero. L’unica cosa che gli ho detto “se mi metti le piume al posto delle foglie, abbiamo la copertina” e così è stato. Ecco come è nata. Poi all'interno tutto si apre e tutto diventa anche molto in stile psichedelia anni 70, però la copertina, proprio perché è così semplice, diventa molto attrattiva e in un negozio di dischi, comunque, la noti. Per quanto riguarda il titolo Manoglia è il titolo di una canzone che era nata proprio sotto la grande magnolia, qui del paese, quando era finito il momento del lockdown pesante e io mi sono ritrovato con migliaia di foglie lì sotto, che nessuno ovviamente aveva ripulito ed erano proprio i simboli di tutti i miei ricordi dell'infanzia, di tutte le cose che avvenivano in quel luogo quando era un po’ il centro del paese. Da lì poi è nato il disco che è completamente arboreo, naturalistico, in cui ci sono ali di falco, il becco del merlo, in cui c'è tutta una ritualità tipica del camminatore per le piccole strade di paese, di montagna, che raccoglie visioni e le trasforma poi in canzoni. Si tratta di un disco nato da un taccuino privato e quindi, se vogliamo, è molto intimo ed ecco perché l'ho voluto lasciare il più acustico possibile.

Il disco si apre con La ballata del mascheraio, forse la canzone musicalmente più vicina al Davide che conosciamo. Una canzone che, se ascoltata con superficialità potrebbe sembrare la classica ballata folk che anche un ragazzino capirebbe senza difficoltà, poi però se la si ascolta bene emergono strati sottostanti, versi che fanno riflettere come “perché una maschera se mustra / intaant che sùta la nascuund…” o i bei versi finali “Per fa’ una maschera de bestia / pröeva a vardàss in del prufuund / Per fa’una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa a un ómm / Per fa’ una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa all’amuur…. Mi aiuti a decifrarla un po’ senza scomodare troppo la psicanalisi?

No, no, vabbè. È chiaro che è una canzone che può essere applicata alla vita di tutti i giorni, che prende in prestito la figura ancestrale della maschera che c'è sempre stata nella nostra cultura, fin da quando eravamo primitivi, poi però prende in prestito il demiurgo, il mascheraio, per arrivare a fare una metafora su tutto quello che noi di fatto siamo, queste maschere involontarie, che ci troviamo ad indossare quotidianamente, perché è un dato di fatto che noi cambiamo anche atteggiamento, non perché siamo falsi, ma cambiamo atteggiamento e cambiamo modo di porci a seconda di chi incontriamo. È molto differente il nostro atteggiamento con l'edicolante da quello con un bambino di quattro anni, quando arriva un ospite di un certo tipo oppure arriva una persona che magari ti sta scocciando, ecco, cambiano tutte le nostre modalità di maschera.  Come hai detto tu, questa canzone forse nasce come ballata, molto semplice, proprio perché deve arrivare a tutti, ma come tutte le canzoni apparentemente semplici, nasconde una parabola, una metafora, come Il pensare che per fare una maschera che ride lavorerai in un certo modo, mentre per quella triste, cioè quella arrabbiata, non deve sembrarti per forza quello che appare, perché sotto, probabilmente c'è una persona che ha sofferto e che usa questa maschera aggressiva per esorcizzare la paura o per proteggersi. Oppure perché non si fida più. Poi, alla fine, giustamente quando la canzone dice che per realizzare una maschera da donna devi pensare a una donna che pensa un uomo, è semplicemente perché la donna nella storia ha sempre dovuto combattere, relazionarsi con la figura dell'uomo che molte volte la dominava, la scoraggiava e, in qualche modo, la faceva passare in secondo piano, per non dire delle volte che doveva addirittura subirla la presenza maschile. Ancora oggi, purtroppo questa realtà non si è risolta. Quindi una donna che pensa un uomo non è semplicemente una donna che pensa all'innamorato, ma è la donna che deve continuare a rendersi conto che c'è anche una polarità maschile con la quale lei deve fronteggiarsi quotidianamente. Nella seconda frase, invece, la donna che pensa all’amore, l’amore che può essere l'amore per un uomo, per una donna, per un animale, per un padre, un figlio, per qualunque cosa. La donna che pensa all'amore è la maschera forse più bella e più ricca per disegnare quello che è il profilo femminile. È quindi una canzone molto simbolica.

Forsi, bellissima canzone manouche, sembra essere la canzone di chi si trova a fare i conti con il proprio passato, “E questa cràpa pièna de véent, questu quadernu che gùla via / l’è una furesta senza sentée, per fa’ fiadà ancamò la puesiia / Se sun vestii de aal de muscòn e de paròll che ho rubaa all’usteriia / ho racataa ogni tocch de rutàmm e adèss la rüggin me fa cumpagniia ché” ma che, ad un certo punto, accetta di essere così com’è “E FORSI…forsi passerà una naav / E FORSI…me resteroo ché… / Senza valiisa e senza bigliètt / senza piöe dumandàss el perché”. Quante volte ti sei sentito fuori sintonia con il mondo circostante?

Tantissime e questa canzone parla proprio anche della decisione di reagire, è una canzone ribelle. Tanto più che gioca, anche a partire dalla musica, con un tempo che non è il nostro. Non dico che è una canzone di nostalgia, ma è una canzone che si sente libera e non si vergogna di tante cose belle che ha vissuto in un passato nel quale uno si sentiva molto a suo agio. Abbiamo preso una musica manouche, protojazz, proprio per essere fuori dal tempo, come in un lungometraggio alla Buster Keaton, una roba del genere. Questa canzone è anche il rifiuto di salire sulla nave che tutti ti obbligano a dover popolare, perché oggi c'è questa velocità, perché oggi c'è questa tendenza e tu, invece, che sei stato abituato ad andare a prendere queste piccole cose, le ali di mosconi, le canzoni rubate all'osteria, tu che lascerai aperto il portone, lascerai passare tutta la processione, poi però chiuderai le finestre per trattenere fortemente la le tue canzoni, per non farle sfuggire e la tua poetica che è l'unica cosa che tu continui a ad inseguire. Una canzone, quindi, che si rifiuta di appartenere ad alcuni tempi che stiamo conoscendo, che ci stanno un po’ comprimendo e deprimendo. Nonostante abbia quasi sessant'anni non sono mai stato uno che screditava le cose nuove, mi sono appassionato sempre anche delle musiche, delle canzoni che ascoltano i miei figli. Mi piace vedere quando c'è arte, quando c'è credibilità, talento, quando c'è buona musica e ce n'è tantissima. Io non mi nascondo dietro a un disco di Dylan o dei Pink Floyd, né sto lì a dire che una volta era tutto bello e adesso tutto merda, anzi, io sono un grande ricercatore di tutti quelli che sono i nuovi Dylan, i nuovi geni, nuovi, grandi artisti.

È stato grazie a te, ad un tuo commento pubblico, che ho conosciuto ad esempio Mirko Menna ed il suo Nebbia di idee, per dire.

Questo è un esempio, un disco che Paolo Conte stesso, aveva citato e recensito benissimo con una frase. Tutte queste figure, però, bisogna avere anche il coraggio, la forza e la pazienza di andarle ad ascoltare, sennò, altrimenti, rimaniamo lì, con tutto il nostro bagaglio del passato e diventiamo dei bacchettoni ammuffiti che non ascoltano più niente. La canzone Forsi, comunque, è una canzone di ribellione.

Passiamo a Crisalide (Le ali del falco) che si apre con il magico pianoforte di Maurizio Fasoli fino al dispiegarsi di una dolce melodia, è indubbiamente una canzone che guarda verso l’alto, la definirei una canzone d’aria. Se penso ai versi “Ma me dumanderóo i aal del falco per un viàgg, per un viàgg / taant per regurdàss de vèss staa in voolt püssée de inscé, püssée de inscé / e se guleróo via salüdum cun la mànn / e pöe dii mè sacòcc vedaréet burlà föe tütt” mi sembra di capire che sia stata scritta dopo un periodo down, dico male? La crisalide è vista come segno di rinascita, di trasformazione?

Quella canzone, prima di diventare canzone, è stata una sorta di appunto che io mi sono scritto sul quaderno, in un momento in cui non mi trovavo bene, con i piedi nel fango, nelle sabbie mobili che mi risucchiavano. In quel momento io camminavo verso il santuario della Madonna del Soccorso di Ossuccio, quindi mi stavo innalzando, più salivo e più guardavo le farfalle, però sognavo addirittura le ali di un falco che in quel momento è passato, per poter essere un po’ più in alto, per poter fare una specie di meditazione da un altro punto di vista, una cosa più elevata, che mi permettesse di avere un punto di vista differente. E allora devo dire che quella lì era una cosa che stavo scrivendo proprio a me, come dire, per incoraggiarmi. Maurizio Fasoli è stato eccezionale. Io ho fatto togliere tutto il resto, chitarre e tutto il resto, perché doveva proprio essere un pezzo aereo, volatile, un pezzo d'aria.

Invece di parlare della canzone che dà il titolo al disco, se sei d’accordo, vorrei parlare di El Giuvanon (Il becco del merlo) perché nasce dalla stessa melodia di Crisalide, sebbene suoni molto diversa. La definirei una canzone di terra, qui non c’è il desiderio di volare in alto ma di scavare in profondità, dentro sé stessi, “Ma me dumanderóo el bècch del merlu, per fà un böecc, per fa un böecc / per truvà quii ròpp che’l téemp el m’ha scundüü sùta i radiis, sùta i radiis… / e quando troverò la cassa del tesoro, vi chiamerò con me e dopo l’aprirò…”. Una curiosità, El Giuvanon è frutto della tua fantasia o è realmente esistito?

El Giuvanon (Il becco del Merlo) è, invece, un brano profondamente legato alla terra ed è uno scavare nelle radici, con la figura del Giuvanon, proprio perché questo grande contadino è stato uno degli ultimi cowboys della nostra sponda del lago, cui era fortemente legato, fisicamente sempre più ricurvo su sé stesso, un uomo che era di una forza e di una statura di un certo tipo, che si è modificato con la vecchiaia seguendo proprio la terra. Queste due canzoni, dunque, sono diventate due facce del vivere, aria e terra.

Trovi sia stato più arduo volare verso l’alto o cercare dentro sé?

Non c'è una classifica, sono due viaggi che prima o poi uno deve fare e che costantemente ti chiamano, perché ci sono dei momenti in cui ti devi per forza elevare un po’, specialmente quando intorno a te tutto sta diventando palude, dall'altra parte però non puoi vivere appoggiato a una nuvola, perché tu sei un uomo della terra e perché la terra ti appartiene e tu appartieni a lei e dentro di te ci sono tutti quei simboli, tutti quei ricordi e tutti quei viaggi che uno deve ancora fare. Per cui quando tu chiedi in prestito il becco al merlo, il merlo è quello che è sempre giù nel prato, che scava, che scava per trovare i tesori che ti sono sfuggiti, quelli che hai dimenticato. Come mai eri così contento da bambino, anche solo per una pietra colorata, una biglia o un fumetto. Come mai adesso non va bene più niente? Come mai non ti accontenti più? Qual è il l'anello magico che hai perduto? È molto difficile, perché devi proprio scavare in profondità.

Riprendiamo a seguire l’ordine delle tracce e affrontiamo la title-track, che credo sia stata scritta dopo il duro periodo di lockdown durante la pandemia, almeno così mi sembra dai versi “Ho fümaa la nustalgiia, ché luntànn de tücc / Ho fümaa la nustalgiia e adèss me resta el mùcc”. I versi “Tel gìret e rigìret, te vöeret stravacàll / l’è el solito büceer ma rièset mea a finìll” mi sembrano descrivere un segno di rottura rispetto al prima, è così? Quanto è stato duro per te restare lontano da tutti durante quel periodo e che cicatrice ti ha lasciato?

No, è un pezzo modulabile, quindi la tua impressione può avere molto senso. Questo bicchiere che poi è il tuo bicchiere, quello nel quale ci sono tutte le tue cose, i tuoi ricordi, tu ogni tanto lo vorresti svuotare, lo vorresti bere tutto e dire “Basta! Adesso questo bicchiere di ricordi è finito”, però non riesci a svuotarlo, perché come abbiamo detto prima non puoi vivere nel passato, non puoi far finta che non ci sia stato. Il passato passa solo fino a un certo punto. Tu ce l'hai dentro, quello è il tuo bicchiere, sempre, può finire, può cambiare il contenuto, puoi riempirlo, puoi finirlo, però il tuo bicchiere è un po’ macchiato, macchiato dalle cose che hai pensato e un po’ sbeccato, da quello che non hai fatto, da quelle cose che sono i tuoi rimorsi, ciò che non è stato. È il tuo bicchiere e non puoi farci niente, è il contenitore nel quale qualsiasi liquido tu voglia andare a mettere, dovrai poi farci i conti. In merito al lockdown, dal punto di vista della sofferenza che c'era in quei momenti e delle perdite anche qui in paese, è stato drammatico perché era come una fucilazione settimanale, quindi questo è stato un aspetto che ci ha segnato e in un tempo in cui credevamo tutti, di essere diventati registi della nostra esistenza, molto supponenti e arroganti in quanto tecnologici, il dolore ci ha ricordato, invece, una fragilità devastante per un qualcosa di invisibile e un qualcosa di incomprensibile all'inizio. Dal punto di vista, invece, della clausura, io devo dire che qui è avvenuto qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto, sembrava di essere su una nave famigliare, immersa in un posto bellissimo che era diventato all'esterno un paradiso, con il lago fermo come uno specchio, un cielo nitido, animali che si erano rimpossessati del territorio e la vegetazione che la faceva da padrona. Questo vivere tutti insieme un tempo così lungo ci ha regalato una resistenza incredibile, perché noi, io, mia moglie e i miei tre figli, eravamo proprio tutti i giorni a contatto diretto su di una nave, in una lunga crociera. Il problema era che, se guardavi fuori dalla finestra di casa, vedevi il paradiso, se accendevi l'altra finestra che era quella della televisione, vedevi l'inferno… Da un certo punto di vista è stato splendido, il vivere tutti insieme, magari leggendo libri, giocando, guardando film, riappropriandoci di un ritmo di vita che avevamo perduto, non avrei però voluto viverlo a quel prezzo. Però quando l'ho vissuto, sarei stato un'ipocrita se avessi detto che stavo male. Anche quando abbiamo preso tutti e cinque insieme il Covid, che era già la variante inglese, stavamo chiusi in casa e guardavamo Sanremo. Non stavamo particolarmente male, era un'influenza come un'altra e grazie a Dio non ci ha lasciato segni. Poi sì, è vero che un po’ di strascichi psicologici queste esperienze le lasciano, perché poi rimani un po’ indebolito da questa cosa. C'è voluto un po’ per tornare alla normalità, però niente di drammatico e quindi, in definitiva, l'abbiamo vissuta come dei veri e propri naufraghi ma su una nave che era ben salda.

La canzone che non c’è, stile western, narra lo sforzo e la fatica del partorire una canzone ed uso volutamente il verbo partorire.  “Bagna la tua penna nel catrame del tuo fondo, / se vuoi regalare un pianto mentre scriverai cantando” mi sembra la sintesi perfetta di questo disco, solo se sai guardarti dentro con estrema sincerità puoi regalare intense emozioni a chi ascolterà le tue canzoni? È così?

Hai detto esattamente. È la canzone che parla dell'inseguire la canzone che non c'è ancora, come il fotografo che cerca la foto che non ha ancora scattato, il pittore che vuol dipingere il ritratto che non ha ancora dipinto. In fondo sei sempre alla ricerca di qualcosa che non c'è, sennò altrimenti sarebbe tutto finito. La canzone che non c'è è quella che tutti inseguiamo, la preda che non hai ancora preso, il pesce più grosso che non hai ancora catturato nelle tue reti. Ecco, il pescatore non andrebbe mai a pescare se non pensasse di prendere il pesce più grande e poi, anche se quello pescato fosse gigantesco, ne vorrebbe prendere un altro con altre caratteristiche…

Shandemé è un crogiuolo di strumenti anche insoliti come duduk, ney, baÄŸlama, suonati da Andrea Cusmano, una melodia orientale, un ritornello “Scià’n’de mé Regina Del Tütt, tègnum per la mànn… / Scià’n’de mé Regina Del Tütt, tègnum per la mànn…” che si fa mantra. Una preghiera, un’esperienza spirituale. Quanto è importante per te la spiritualità e quanto la natura è elemento portante della tua spiritualità?

Questa canzone penso che, come mantra, è rimasta negli archivi veramente per decenni e poi gli ho dato una struttura, gli ho dato un testo. Ho voluto proprio che ci fossero degli strumenti non riconducibili a noi, a questa nostra terra. Proprio come queste cose un po’ spirituali, doveva avere assolutamente un suono distante, etnico, lontano, che sapesse di viaggi incredibili e tante altre cose. È stata una di quelle cose che abbiamo potuto fare grazie alla collezione di strumenti di Andrea Cusmano e grazie alla sua capacità di poterli anche suonare. In merito alla tua domanda sulla spiritualità, io penso che anche nei momenti in cui sono apparentemente distaccato o poco spirituale, in realtà sto lavorando sempre alla ricerca di spiritualità, come un camminatore, come un viaggiatore. Ancora oggi, tutte le volte che ho tempo, mi trovo a viaggiare con determinate musiche nelle cuffie, salendo verso monti o verso rive, scendendo santuari, vecchie chiese, vecchi templi. Non è tanto la “religione” ad attrarmi, anche se ho studiato svariate religioni, anche dal punto di vista antropologico e devo dire che mi affascinano tutte e tutte contengono un buon tentativo di cercare di crescere spiritualmente, però, è proprio la spiritualità, invece, quella cosa che cerco, indipendente da quanto uno sia un belivero, un credente oppure no È però un viaggio che tu devi costantemente fare. Se io non avessi questa impronta probabilmente sarei già disperso. Sarei perduto, sarei sotto un ponte fatto solo di dubbio, invece, tutte le volte che c'è un'apertura, tutte le volte che c'è uno spiraglio per cercare di volare un po’ più in alto, ci provo. Questa cosa è fondamentale, anche questo mio continuo indagare su riti, miti, credenze, leggende. Gli spiriti li vedo o li percepisco ovunque, ma non i fantasmi con il lenzuolo, proprio l'idea di geist, l'idea di spirito delle cose, anche un po’ shintoista se vogliamo, vecchi oggetti, ambienti, vecchie case nelle quali sono accadute cose. È come se tutto fosse lì, anche nella canzone Manoglia lo dice, anche lì non c'era più nessuno, c'erano solo gatti, però era tutto popolato da fantasmi, che erano importantissimi perché c'erano stati e perché avevano caratterizzato il mio passato, la mia infanzia, il mio essere cresciuto in un paese del genere, quindi, vedi che custodisco tutto inzuppato della stessa materia, fatta di natura, spirito e alla fine dei conti uomo.

Zia Nora credo nasca dal desiderio di omaggiare una persona che ti è stata te molto cara. Musicalmente è una canzone folk alla vecchia maniera, zeppa di ricordi, che si chiude con i versi “Ma il suo foulard lo sa, mia zia ritornerà / Nei giorni un po’ a metà, dirà qualcosa piano poi mi saluterà… / Mia zia ritornerà……”. A volte basta un foulard, un oggetto della persona per farla rinascere dentro di noi…

Zia Nora è un'allegra nostalgia. Mentre ti sto parlando ho qui una sua foto e la percepisco dentro di me. È una canzone che io stupidamente tenevo soltanto per me, la cantavo qualche volta a mia mamma perché era sua zia, sorella di sua madre. Questa zia Nora che non aveva mai avuto marito, che era rimasta sempre quella, uno spirito anche un po’ libero, se vogliamo, aveva lavorato in giro per il mondo, era andata, viaggiato e mi ha e mi ha trasmesso, nelle lunghe passeggiate, nelle lunghe giornate in casa sua tutte quelle possibilità del curvare la realtà con la forza della fantasia, oppure ripescando vecchi miti vecchi, vecchie abitudini, credenze, cose che potrebbero essere scambiate anche semplicemente per superstizioni, ma che erano travestite più da rito magico e queste cose si sono depositate pesantemente sul mio fondo e sono sempre rimaste lì presenti. Probabilmente zia Nora è stata un'iniziatrice di quella latitudine un po’ sciamanico creativa, che mi permetteva di co-creare un mondo fatto anche di cose che mi somigliavano molto da dentro. Laddove non mi piaceva o non mi bastava una cosa, io lì la battezzavo, la facevo diventare altro. L'essere poi cresciuto in mezzo a boschi, giardini, montagne, acque, terre, sassi e valli, mi ha permesso di dare un nome alle entità, a vederle sotto forma di qualcosa che veniva proprio dal mio profondo. Intingevo davvero il pennello dentro la natura. Un albero, un semplice platano era diventato per me un un'entità di un certo tipo con la quale dialogare, guardando se stesse bene, se stesse male, vivendo a contatto non solo con le persone, ma anche cose visibili e invisibili della natura.

Quel verso finale “mia zia ritornerà” mi pare però pieno di fiducia. È così?

È il fatto che ritorna nei giorni in cui magari puoi avere un problema, i suoi tentacoli spirituali non smetteranno di sostenerti perché lei c'è stata e fortemente è ancora ancorata al tuo ricordo, così come lo è mio padre, i nonni o altra gente. In questo caso la canzone è dedicata a lei e come nel caso del Giuvanon, anche lei fa parte di un qualcosa che non può essere trascurato.

“E anca incöö…e anca incöö…ghè una strana canzón / scundüüda nel fiöemm / E ghè un föej de fuschiia che incarta la löena / e un cùlp de campana sempru püssee luntana…” mi sembrano descrivere perfettamente quella strana canzone che si intitola Ankainkoo, un titolo che sembra già un miracolo, una canzone che alterna due parti recitate tra loro diversissime, al ritornello. La prima narra dell’affannarsi quasi senza senso delle persone dal momento che si alzano a quando vanno a letto, abbandonandosi al sonno. La seconda narra di un viaggio in un mondo di boschi, funghi, grilli, salamandre, immerso nella natura, in un sogno profondo, la vita ideale. Com’è nata questa bellissima e intensa canzone?

Bravo. Questa canzone è stata scritta perché tutte le mattine e ancora oggi lo faccio per mia figlia quella più piccola che ha sedici anni, portavo tutti alla mattina presto alle 06:30 a prendere la corriera giù in paese, quindi, era il momento in cui vedevi tutte queste persone intabarrate nel buio, alla ricerca della luce, del bar, del panificio. Qualcuno stava già fumando la prima sigaretta, il primo caffè e tutti sembravano palombari appena usciti dal sonno e pronti a dover affrontare una cosa oscura, strana, che era la giornata. Però la prima parte della canzone sembra quasi uno sforzo per arrivare a sera, come un'arrampicata durante la giornata per poi riportare a casa tutto quello che è successo e rinfilarsi in questo mistero del sonno. La seconda, invece, ti fa vedere come uno potrebbe vivere la giornata nel momento in cui trasforma, co-crea, come dicevo prima. Perché ci sono anche quelli, invece, che la giornata non gli basta timbrare, timbrare, timbrare e portare a casa e fare tutte quelle che sono le mansioni solite. C’è anche colui che guarda oltre il divino stupore, il divino stupore tipico di quelli che sono coloro che hanno lo sguardo più aperto verso il miracolo che ci circonda. E allora ecco grilli, ecco salamandre, ecco tutte queste cose. E alla fine la canzone lo dice, ecco che sul fondo tutto quello che c'è, questo fiume, è per chi domani ha ancora voglia di ripartire. Che cos'è il più grande dono che tu puoi avere? È quello di andare a letto, contento di riposare, il meritato riposo, si spera sempre di dormire un po’ di ore serenamente, però con idea che domani tu sei pronto per andare. Quando non hai voglia di alzarti al mattino è l'inizio della depressione, l'inizio dell'ansia. Io li ho provati questi malesseri e quindi ho dovuto combattere e tutte le volte, l'unico modo per proteggersi, per venirne fuori era, con l'aiuto della poetica e con l'aiuto della visione, guardare al di là di tutto quello che è il cemento che ti chiude dentro, l'abitudine a dover obbedire a determinati ritmi che diventano per te sempre più incredibili, Il non riconoscere tutto quello che avviene. Se uno si basa soltanto sul telegiornale, su un giornale, letto anche distrattamente, tutti gli input che gli arrivano sono tossici, sono velenosi, perché non ci sono notizie urlate poi così belle. Però se tu chiudi il giornale e guardi fuori, anche se abiti in un luogo non naturale, non bello come il lago di Como, puoi vedere comunque dei piccoli miracoli avvenire, il tuo gatto, un fiore che sta spaccando il cemento, un piccione che arriva in un certo modo, una persona che ha attraversato tutta una fila di anni e la vedi ancora che sta prendendo con una certa fierezza il suo autobus con la sua borsetta della spesa, ci sono tante piccole cose che ti incoraggiano, se le guardi. Certo, se apri il giornale, da una guerra passi a un'altra guerra, da una strage in famiglia, passi a un'altra strage in famiglia. Un mondo che si sta dissanguando anche per colpa nostra, soprattutto per colpa nostra, governi che non funzionano mai bene, perché poi comunque noi viviamo sempre appoggiati su due piatti di bilancia, no? Qualunque cosa si voglia guardare, non saremo mai tutti da una parte del piatto e questo forse è anche un bilanciamento che serve. Anche politicamente, non saranno mai tutti a destra, non saranno mai tutti a sinistra. Calcisticamente non saranno mai tutti dell'Inter, mai tutti del Milan, altrimenti finirebbe il senso del campionato. Non saranno mai tutti credenti, non saranno mai tutti atei. Vedi che è sempre tutto bipolare? Tutto si divide almeno in due parti. Qualcuno è per la natura, qualcuno non ne vuol sapere. Qualcuno vive ancora per la compagnia, il mangiare, il bere, il sociale, qualcuno per l'isolamento per cui siamo proprio divisi e questa cosa qui probabilmente è anche la grande bilancia che ci permette di non di non cappottare. Poi oggi c'è anche il bastian contrario per partito preso, perché dire che una cosa è semplicemente bella e accontentarsi di ciò che ci sta arrivando, sembra quasi qualcosa di scontato e allora bisogna trovare subito il veleno, bisogna trovare subito il complotto dietro.

A frequentare i social, poi, emerge solo questo.

Ma i social mi stanno veramente amareggiando ogni giorno di più. A parte le fake news urlate su tutti i nostri colleghi dello spettacolo, sembra veramente un mattatoio mediatico solo per farti cliccare, per farti aprire e per vedere poi una fila di cose che non dicono niente, piene di pubblicità. Però anche come la gente interagisce. Io credo che i social, che dovevano servire per unire le persone, per far ritrovare le persone, sono diventate invece delle piattaforme per duelli di scorpioni da tastiera. Forse qualche piattaforma è ancora abbastanza libera da questo, ma altre sono diventate addirittura infrequentabili perché poi sono anche degli obitori dove, purtroppo, più amici hai e più vedi notizie di persone che vengono a mancare, anniversari continui e quindi non c'è più il bello di trovarsi, di condividere una cosa. Io credo che non ci sia niente di male se uno fotografa la pastasciutta e la vuol far vedere ai suoi trenta amici “quest'oggi un bel piatto di pasta” e tutti gli dicono “Ah buon appetito!”. È una gran cazzata, però può far piacere, può far compagnia. Se però uno nella pastasciutta, mette dentro un po’ di carne, allora ecco che arrivano subito anche i vegani, i vegetariani o quelli che ti scrivono “Che schifo mangi i cadaveri” e allora entra quello che scrive “merde, io mangio quello che voglio” e diventa subito guerra per una cosa stupida. Se tu scrivi “Buongiorno” ti dicono “Buongiorno un cazzo. Oggi ho già litigato all'assemblea condominiale”, quindi non va più bene niente e lo sappiamo, è un mondo difficile. Allora lì si capisce la canzone Forsi per chi ha voglia di svincolarsi da tutto questo.

Veniamo a El mekanik, racconto psichedelico di uno strano personaggio, un “meccanico che sistema i pezzi che la vita ti spacca…”. La chiave di lettura credo sia nei versi “sono un segugio e non riesci a capire se piango o se abbaio, / ma sono bravo a trovare le tracce del male imboscato, / la mia vendetta non crede all’invidia per chi ha avuto un passato / la mia vendetta è farti avere quello che non mi hanno dato...”.

È la storia di tutte quelle persone che ho conosciuto che, pur avendo avuto un'infanzia magari dura, hanno fatto in modo di usare tutte le loro forze che avevano in serbo per poter far sì che ad altri non accadesse la stessa cosa. Qualche volta erano anche medici, psicologi, qualche volta erano semplicemente persone, operai dell'anima o persone ben disposte nei confronti dell'aiuto a chi, magari, non aveva neanche il coraggio di chiederlo. Quelle persone che ti trasmettono forza, una serenità, una possibilità, quelle che ti salvano anche un po’ la giornata, i riparatori di un destino. Ho visto gente distogliere persone che erano sulla brutta strada benché loro venissero da strade ancora più brutte, per convincendole che quella non era assolutamente la via da seguire, che quella non era assolutamente la cosa da fare. I meccanici sono stati tanti, io ne ho conosciuti, qualche volta probabilmente lo sono stato anch'io…

Indubbiamente, anche attraverso le tue canzoni, i tuoi racconti, le tue poesie, no?

Ecco, io magari non me ne sono reso conto… C’è un film bellissimo ambientato nel deserto sudamericano, si chiama El Cristo siego, Il Cristo cieco, è un film dove questo ragazzino che ha avuto delle visioni mistiche da bambino, sa che un suo amico ha avuto un problema ad una gamba e non può più lavorare e lui decide di attraversare a piedi nudi il deserto, lui si sente quasi santo, attraversa il deserto e durante questo viaggio accadono tante cose. E lui senza rendersi conto solo con quel viaggio lì, solo incontrando le persone, ha già dato in giro speranze, cose, situazioni, ma lui ha in mente solo di guarire il suo amico. Andrà da lui, imporrà le mani, non riuscirà a guarirlo. Torna indietro incazzato e deluso ed è convinto di non essere niente, di non essere santo e, invece, si rende conto che sulla strada di ritorno c'è tanta gente che già parla di un nuovo Cristo che è andato in giro, ha fatto miracoli, ha fatto star bene le persone e lui si rende conto che ha fatto tutto senza rendersene conto. Ecco, a volte noi siamo meccanici inconsapevoli, crediamo di non valer niente, di non essere niente, andiamo in cerca di qualcosa di esaltante da fare per poter fare qualcosa di buono e, invece, lo stiamo già facendo proprio nelle piccole cose, ma non ce ne rendiamo conto. Ecco, El Mekanik è proprio una canzone che poi ha avuto dei suoni psichedelici tali che mi hanno convinto a metterlo nell'album ed è anche una delle più insolite, ma anche una delle più efficaci dal punto di vista forse della sua diversità. Proprio perché si parla di un meccanico che deve entrare negli ingranaggi mi piacevano questi suoni tipici anche della musica un po’ psichedelica, un po’ progressive, che cambia, e anche lì vedi che poi alla fine dici ascolto i grilli e loro non smettono mai di trafiggere il buio, non smettono mai di continuare a mandarti un messaggio e allora il meccanico è come uno di questi grilli che non smette mai, facendo quello che fa con il suo transito. Del resto, continua a portare in giro qualcosa che a questo mondo sempre di più serve, il capire dove c’è il male, spostare la gente da lì e cercare di rimpastarla. Quanta gente ha spostato dalla droga pur essendo stata drogata magari o in un ambiente pieno di droga. Ecco, pensiamo, pensiamo al famoso film Taxi Driver. Questo pazzo, questo Travis che arriva a casa dal Vietnam, non si trova, è un disadattato, è uno psicosociale, non riesce ad avere una vita normale e finisce per salvare una giovane prostituta da un ambiente pazzesco e distruttivo, mettendo quasi a repentaglio la sua stessa vita. Anche lui è un Cristo cieco. E tante figure come queste.

Mi viene in mente anche Gran Torino.

Gran Torino, sicuramente, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo. Un pazzo come McMurphy entra dentro in una in un contenitore di pazzi e fa capire che così pazzi loro non sono, sono vittime di un sistema che li sta schiacciando. E lui invece, pur venendo poi annichilito, l'indiano che scappa alla fine è come se portasse avanti il suo nome e la sua vittoria e questa è una speranza nel guardare che c'è gente che vola più alto. Quindi adesso noi abbiamo scomodato la storia del cinema, però queste canzoni sono fatte di poco, ma sono profonde che ti possono fare entra nel tanto. Il disco è lieve ma ti porta tante briciole.

Ogni tuo disco si chiude sempre con una canzone dedicata al vento, qui troviamo Foglie al vento, una sorta di invocazione a quattro foglie diverse: castagno, salice, sambuco e noce. Una canzone che ad un certo punto si trasforma, attraverso la ripetizione di nomi di alberi, in una specie di mantra su un tappeto di musica ambient. Tradizione rispettata ma con un’apertura, dal punto di vista musicale, verso suoni più internazionali. Un po’ come tutto il disco, non credi?

Questa è stata una grande trovata di Alessandro Gioia. Doveva essere semplicemente la parte due della Preghiera delle quattro foglie, queste erano quattro altre foglie, sempre nate nel bosco e via dicendo. In questo caso però, cosa è successo? È successo che il disco quando arriva sul punto di finire non finisce ed è come se non finisse mai, perché con questa apertura giustamente ambient, che è una musica che io ascolto tantissimo, ha cominciato a creare un'apertura, è come una sigla finale per cui l’ascoltatore non ha la fine di un disco classico, ma un mantra sonico che va… Dobbiamo ringraziare Alessandro Gioia che ha lavorato su tantissimi ai miei dischi del passato. Alessandro ci ha detto “Adesso mettetevi lì e suonate liberamente degli accordi strani di chitarra, un po’ di violino, aloni e, rivolgendosi a me, ha “recitami queste parole di questi nomi di pianta” e dentro tutto questo ha cominciato a muoversi il tutto e sembrava di vederle proprio volare via queste foglie nel vento ed era il finale che uno poteva sognare per un disco del genere.

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