mercoledì, febbraio 15, 2012

Intervista a Folco Orselli intorno a “Generi di conforto”

Intervista a Folco Orselli intorno a “Generi di conforto”
di Fabio Antonelli

Folco Orselli, quarantenne cantautore milanese, alle spalle già tre album e un triplo premio al Musicultura nel 2008 (primo premio assoluto, la targa della critica e il riconoscimento per il miglior testo) con la canzone d’amore “L’amore ci sorprende”, è appena tornato all’attivo con un nuovo album d’inediti, intitolato “Generi di conforto”, pubblicato per la sua neonata etichetta Muso Record. La sua può essere considerata a tutti gli effetti una vera e propria sfida in questo mercato discografico a dir poco asfittico. Vediamo allora quali sono le armi, messe in campo da Folco per questa coraggiosa impresa.




Sai Folco, vorrei cominciare questa intervista da una semplice constatazione: prima dell’uscita di questo nuovo disco ne avevi già all’attivo tre (“La stirpe di Caino”, “La spina” e “MilanoBabilonia”), una miriade di concerti, alcuni importanti riconoscimenti da parte della critica, tra cui nel 2008 il Musicultura, grazie alla splendida canzone d’amore “L’amore ci sorprende”. Possibile che per pubblicare questa nuova fatica discografica, che s’intitola “Generi di conforto”, hai dovuto persino creare una tua etichetta, la Muso Records? 

La creazione dell’etichetta è venuta da una semplice constatazione: perché dovrei dare royalties e edizioni a etichette che non mi garantiscono né promozione né booking né management? Ho compiuto quarant'anni il 6 dicembre e preferisco immaginarmi un futuro di vera indipendenza. Se avrò ragione, potrò, con il ricavato, continuare a produrre musica mia e altrui senza scendere a nessun compromesso, gettando le basi per una mia piccola rivoluzione: sottrarre la creatività degli artisti al tritacarne mainstream dimostrando così che il successo di un disco dipende dal suo peso specifico qualitativo e non dalle balle che ci propinano sui gusti della gente.

Non è però ancora giunto il momento di parlare delle canzoni del disco, mi soffermo sulla copertina, un dipinto che ti ritrae e firmato da Renzo Bergamo? Perché questa scelta? 

Renzo Bergamo, prima di essere il grande artista che il mondo prima o poi scoprirà sia stato, era uno dei miei migliori amici. Un maestro nell’arte dell’ascolto della stupefacente meraviglia che questa Terra ci mette davanti agli occhi. Un uomo che ha saputo attraversare i tormenti e le gioie della creatività uscendone con gli occhi pieni di risposte. Il ritratto che mi fece un giorno nel suo studio ora è diventato la copertina di “Generi di conforto” ed io, da lì, lo sento fischiettare il trombone come spesso faceva. Mi manca molto.

Ancora un piccolo passo, il titolo “Generi  di conforto” mi ricorda in qualche modo “L’indispensabile” di Vinicio Capossela. Qui, meno pretenziosamente, la scelta sembra alludere a tutto ciò di cui una volta fatta l’esperienza, è vero che ne può anche fare a meno però, ad avere la possibilità …

Se non ricordo male il disco cui ti riferisci era un best off. Questo è un album d’inediti. I generi di conforto che in filigrana percorrono tutto il disco fanne parte di un codice emozionale che riguarda la mia esistenza fino ad ora. Consegnando a chi ascolta questo bagaglio, cerco vibrazioni simpatiche che mi facciano sentire meno solo nella ricerca permanente della felicità.

“Generi di conforto” è, a tutti gli effetti, un’altra bella sterzata lungo il tuo percorso artistico, se con "MilanoBabilonia" e il suo rock-funky avevi abbandonato quello stile di canzone d’autore che ti aveva portato anche critiche negative, per il solito gioco stupido e tutto italiano per cui se uno ha la voce roca assomiglia per forza a Conte o Capossela, qui cambi nuovamente strada e confidi, per l’occasione, anche all’Orchestra Cantelli. Quale potrà essere la reazione della critica e soprattutto del tuo pubblico pensi di fregartene in ogni caso? 

Si, con “MilanoBabilonia” il gioco degli accostamenti è cessato del tutto. La scelta sonora e compositiva era tutto tranne che un linguaggio cantautorale e la critica se n’è accorta. La gente che mi seguiva da “La spina” è rimasta spiazzata ma, conoscendomi, succederà ancora. Con quest’ultimo lavoro ho esplorato la mia capacità di essere diretto e sincero, anche nell’uso della voce che, comunque, io continuo a considerare uno strumento e come tale libero di essere distorto, contorto o ripulito rispetto alla suggestione che si vuole trasmettere.

E’ innegabile che, soprattutto gli archi, abbiano donato a questi dieci brani un’atmosfera molto cinematografica, potrebbero essere benissimo le colonne sonore di altrettanti cortometraggi o essere loro stessi quasi delle sceneggiature per loro carattere descrittivo, penso però che un contributo particolare per gli arrangiamenti e alcune scelte musicali sia da attribuirsi soprattutto a Vincenzo Messina, com’è nata questa vostra collaborazione?

Vincenzo ha fatto parte del “MilanoBabilonia Tour” e durante quelle date abbiamo trovato quelle “affinità elettive” che avrebbero poi portato alla collaborazione per “Generi di conforto”. La sua è stata la prima esperienza arrangiativa con un ensemble orchestrale e, devo dire, è stato eccezionale sotto tutti gli aspetti. La pre-produzione è stata una sorta di magia. Nel giro di un paio di settimane mi ha fatto avere le prime idee che nell’80% sono rimaste quelle. Stiamo già pensando al lato B.

E’ ora di guardare un po’ più da vicino il disco, che parte con una grande canzone d’amore “In caccia di te”, con questo brano punti a un altro Musicultura?

No, non credo sia giusto. Ho vinto tre premi nel 2008… largo ai giovani. “In caccia di te” l’ho scritta circa cinque anni fa su un vecchio pianoforte Clement molto scordato, che tenevo in camera in una mia vecchia casa. Il mio amico Pepe Ragonese ci dormiva sempre sotto con un materasso per terra. Non ho mai capito perché lo preferisse al letto… non il mio … ce n’erano due nella mia stanza… se no l’avrei capito.

E’ davvero compito arduo dire quale tra le dieci tracce sia la più bella in assoluto, io dico solo che quella che più mi commuove, a ogni nuovo ascolto, è “La ballata del Paolone”, com’è nata questa perla?  

"La ballata del Paolone" è stata scritta in un pomeriggio d’inverno dopo essere rientrato da un concerto in treno. Alla stazione mi avvicinò un barbone e chiedendomi qualche moneta mi raccontò brevemente di come gli mancasse l’amore della sua vecchia vita. Il farfuglio era sconclusionato ma io capii cosa volesse dire e, non so come, mi ci immedesimai completamente e immaginai il rimpianto e la tenerezza del suo ricordo. Ho sceneggiato l’idea e ne è venuta fuori “La ballata del Paolone”. La feci sentire per primo al mio amico Gianluca de Angelis che ci vide una continuazione di “El purtava i scarp del tennis” di Jannacci. Non ci avevo pensato. Mi piacque ancora di più.

Un’altra canzone che mi piace molto, per quel suo swing un po’ retrò è “La ballata di piazzale Maciachini”, ho forse il chiodo fisso per le ballate? Scherzi a parte, quanto è stato difficile cogliere della bellezza in questa periferica piazza di Milano? 

E’ il mio inno all’antimovida. Basta con questi luoghi comuni della Milano aperitivi e cocaina, andate in piazzale Maciachini, in una giornata fresca di maggio, portatevi i panini e sedetevi sul ceppo con un amore allegro tra le mani. Traffico e filobus, mignotte e tombini, una bella birra fresca e va a da via al cu! (come si dice da quelle parti).

Prima ancora che uscisse il disco, hai fatto girare su Youtube, quasi fosse il lancio di un singolo, un vero e proprio antipasto musicale, il brano “Manila”, perché proprio questo brano? 

Volevo partire dal fondo, infatti, Manila è il pezzo che chiude l’album. C’è un po’ tutto quello che volevo arrivasse: archi, piano, ricordi, hammond, tromba sognante (Pepe quando suona alla Chet alza il pelo anche ai gatti randagi).

Ti dico poi due brani che stanno un po’ all’opposto nella mia scala di ascolti, “In equilibrio (cadendo nel blues)” ha un fascino direi molto anni ’40 ’50 che me lo fa amare follemente (mirabile la tromba di Pepe Ragonese) e, se si fosse trattato di un vinile, ne avrei già consumati i solchi, mentre “Inno alla follia”, che paradossalmente con quel titolo avrei dovuto amare senza limiti, non mi convince fino in fondo, forse perché troppo autobiografico? A te il compito di invertire o riequilibrare le sorti di queste tracce.

In “In equilibrio” sono i tromboni di Luciano Macchia non la tromba (tranquillo capita di confondersi quando suonano su registri alti), colgo l’occasione per ringraziare anche Daniele Moretto alle restanti trombe e ai corni, un musicista eccezionale che si commuove durante le session di registrazione. Amore per la musica. La canzone è di quelle che non creano mai problemi, si è presentata con una personalità da gran signora dai provini. Per me la regina indiscussa del disco. Inno alla follia fa parte di quel filone teatrale che scorre in me ed è dedicata a tutti gli artisti che rischiano camminando sul filo del burrone. Non ci sono sorti da invertire, ogni canzone possiede chiavi che aprono e chiudono.

In questo disco, come s’è detto, c’è una forte essenziale presenza dell’orchestra, questa scelta, però dal punto di vista dei concerti temo sia difficile da sostenere (sia come logistica sia come costi), come stai gestendo quest’aspetto anzi, a proposito di live, c’è qualche ghiotta occasione in vista, per vedere come questo disco, sontuosamente vestito in studio, regga anche in versione live?

Le canzoni sono state scritte pianoforte e voce e così devono reggere, altrimenti significa che sono artificiose e fragili. Live le presentiamo con un combo jazz (piano, contrabbasso, batteria) con, in aggiunta, chitarra elettrica e un jolly di nome Fulvio Arnoldi che sintetizza l’orchestra con una tastiera. Ti assicuro che la resa è all’altezza del disco. Provare per credere il 23 febbraio 2012 alla Salumeria della musica di Milano.




Sito ufficiale di Folco Orselli

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