Il 14 ottobre è uscito “Franco
Califano – Il Prévert di Trastevere” (2024 Warner Music Italy), il nuovo disco di
Giangilberto Monti in cui l’artista milanese reinterpreta 12 canzoni del
Califfo. Si tratta in realtà di un radio-disco uscito in contemporanea con la
prima messa in onda da parte della Radio Svizzera Italiana dell’omonimo
originale radiofonico, scritto da Giangilberto Monti con Vito Vita, contenente
un QR-code che permette l'ascolto del radiodramma musicale sulla app RSI PLAY. Incuriosito dall’operazione ho subito
contattato Giangilberto ed ecco cosa mi ha gentilmente raccontato.
Il 17 marzo ha visto la luce "Ricordati di te" (2024, autoproduzione) il quarto disco in tredici anni dal suo
esordio con “Sconosciuti e imperfetti” (2011, autoproduzione) di Gerardo Pozzi,
cantautore bergamasco da sempre molto schivo nel far conoscere le proprie
creazioni musicali, spesso gelosamente custodite nel cassetto. Ne consegue che,
quando finalmente si decide a pubblicare qualcosa, è perché davvero vale la
pena mettersi tranquilli a sedere e ascoltare con attenzione le sue canzoni.
Partirei come mia consuetudine
dalla copertina del tuo nuovo disco Ricordati di te. Non si tratta di
una fotografia ma di un disegno, una semplice spirale su un fondo verde, verde
come la speranza. La spirale è un antico simbolo universale di amore e crescita
e, per chi ti conosce, credo non sia così tanto enigmatico ma la naturale
rappresentazione del tuo modo di intendere l'esistenza, purché non si perda mai
di vista se stessi, proprio come suggerisce il titolo, quasi un avviso per non
perdersi. È così o è solo una mia farneticazione?
Come sempre mi vedi e mi
percepisci in profondità. La spirale, simbolo di amore e di crescita come dici
giustamente tu, è anche simbolo dell'infinito, della vita che era prima, è ora
e sarà avanti, anche "oltre" secondo me. E in tutto questo mistero ci
siamo noi, magnificamente imperfetti, a fare parte di questa cosa incredibile.
Le canzoni le ho scritte durante il lock-down, e mi sono accorto solo dopo che
molte parlavano d'amore, di vita e di morte, quasi che il mio corpo (o una
parte di me) sapesse a cosa sarei andato incontro quasi tre anni dopo,
affrontando il tumore. Non so mai cosa io voglia dire, con una canzone, perché
raramente nasce da un ragionamento. Il più delle volte (se togli Sergej,
che vuole esprimere un concetto e una riflessione precisa) è qualcosa di
pancia, che esce da qualche parte di profondo che ciascuno di noi ha. Per
questo mi capita di dare una locazione solo tempo dopo ad alcune cose che mi
escono. Però sia il simbolo che il verde (speranza, sì, assolutamente!) è in
strettissima unione con il non dimenticarci di noi stessi. Sento più forte che
mai, in questi tempi, il distacco delle persone da loro stesse, la mancanza di
auto-consapevolezza: questo può sfociare nel narcisismo più dissoluto ma anche
nel suo contrario, nel dimenticarci della nostra dignità e lasciarci calpestare
da persone o situazioni che invece non avrebbero, altrimenti, alcun potere. È un invito soprattutto a chi si sente o si è sentito
emarginato, non visto, non voluto, non desiderato: ricordati di te,
ricordati che esisti, che davvero sei importante per tante persone, anche per
lo sconosciuto che saluti al supermercato. Senza il tuo saluto, magari la
giornata di quello sconosciuto sarebbe stata peggiore. In questo, sono certo,
siamo tutti legati.
Il disco si apre con Addapassà,
un brano molto intimo, perché affronta il momento in cui ci si abbandona
totalmente al sonno ristoratore, in cui la ragione perde il controllo diretto
delle nostre emozioni, dove affiorano immagini a volte incomprensibili
"Spiragli dalle finestre / facevano presagire / tre visite indiscrete / di
demoni invidiosi senza ragione", forse frutto delle nostre paure.
Personalmente, forse per la mia particolare situazione di salute, sogno spesso
di essere in ospedale per un improvviso peggioramento, ma credo tu abbia
ragione quando concludi con i versi "Scendo dal letto ogni giorno / la
gioia cercala dentro e guardala fuori". Come diceva il grande Eduardo
"adda passà a nuttata", da cui credo tu abbia tratto ispirazione per
il titolo. Si può dire che questo brano rappresenti il punto di partenza di
questo percorso di rinascita?
Parlare con te, Fabio, è un
piacere enorme perché davvero mi sento, come ti dicevo, molto compreso. Sì, il
titolo è preso dall'espressione "Adda passà 'a nuttata", per dire che
se teniamo duro, se ci colleghiamo con la nostra tenacia, poi il nostro
resistere ci ripaga di luce e stupore. Questa canzone è l'unica che è stata
scritta non durante il periodo covid, ma moltissimi anni prima. Ero davvero
molto giovane quando l'ho scritta, e neanche me la ricordavo, assolutamente. I
miei "provini" all'epoca li registravo su un registratorino portatile
che mi avevano regalato, con delle audiocassette, che oggi difficilmente si
riescono ad ascoltare. Recentemente, strimpellando al pianoforte, chissà quale
giro ha fatto la mia mente, la mia memoria, ma mi è ricomparsa in un lampo
questa canzone, persino parte del testo (le prime due strofe). La musica mi è
uscita dalle dita esattamente com'era quando l'avevo composta da ragazzo. Pensa
tu, i giochi della memoria. È stato invece un bene che non ricordassi le parole
delle due strofe successive, così ho potuto finire la canzone con quel che
avevo davanti agli occhi e nel cuore: un piccolo dipinto di origine orientale,
dove un Buddha colorato di verde medita, tenendosi il polso con una mano (certamente
deve avere un significato, come tipico di ogni arte pittorica) e il cranio di
plastica su cui ho studiato anatomia, con colori diversi per ogni osso che
compone il cranio. Da qui sono ritornato alla sensazione di fatica del prendere
sonno, a quel mistero che è la notte ed è il sogno, e poi la considerazione che
comunque ogni giorno ci alziamo ed affrontiamo i nostri demoni. E che la gioia
sì, certo, va cercata dentro di noi, ma un grandissimo aiuto (fondamentale
direi) ci arriva anche e soprattutto dagli altri, dai rapporti umani, così come
da un fiore o dallo scodinzolare affettuoso di un cane.
Affrontiamo dunque Sergej,
la canzone apparentemente più leggera e scherzosa dell'intero disco, almeno
nella costruzione musicale ma che, in realtà è tra le più profonde, proprio
come quel mare che inghiotte tutto, cui accenni nel verso finale, quella
domanda che non può lasciarci indifferenti "Ma chi che ha figlio in fondo
al mare?". Sergej rappresenta ogni straniero denigrato e sfruttato nello
stesso tempo e mette in luce tutta la nostra ipocrisia nell'affrontare il
problema immigrazione. Io la trovo meravigliosa nella sua semplicità, nel
metterci dinanzi le nostre meschinità. Com'è nata?
Sergej è nata per caso, ed
è l'unica delle mie canzoni che ha avuto un parto molto lungo. Diversi anni fa,
una cara amica aveva in affido un ragazzino della Bielorussia, che passava
tutte le estati da lei. Era un bimbo vivace, e una volta, parlandomi di lui,
nell'intercalare disse: "E' Sergej..." e aggiunse qualcosa che lo
riguardava. Il modo in cui ha pronunciato “è Sergej” è stato come un fulmine:
ho pensato subito "posso giocare col nome Sergej e col suono equivocante
che può dare il pronunciarlo, scrivendo una canzone che parli di tutte le
situazioni di discriminazione e di emarginazione ". Essendo però una cosa
pensata e non di pancia, l'ho lasciata decantare per anni. A volte provavo
qualcosa al piano ma non mi veniva nulla. Non volevo forzare la cosa ed ho
aspettato che venisse lei. Giochicchiando col pianoforte, un giorno mi è venuto
da iniziare con un omaggio alla canzone Johnny Bassotto cantata da Bruno
Lauzi, e da lì ho proseguito citando tutti i luoghi comuni tipici che si usano
contro le persone discriminate, chiunque esse siano. E in due minuti è nato
questo pezzo. Mi piacerebbe fosse un faro per tutti quelli che si sono sentiti
messi da parte, non visti, denigrati. Una delle più belle canzoni a riguardo
credo resti Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano. Avevo paura che
Sergej venisse mal interpretata, ma finora invece è stata molto
compresa, e sono davvero contento di questo. Molto aiuta il non essere
conosciuti, perché allo stato attuale, se un artista famoso cantasse canzoni
del genere rischierebbe il linciaggio da "entrambi i lati"
dell'estremismo. Oggi sembra che il non perdono ed il giudizio totalitario a
prescindere siano le uniche forme di espressione, e questo mi rende davvero
molto triste.
Con Anna Göldi, invece,
affronti alla tua maniera un tema attualissimo come quello dei femminicidi
partendo da un fatto storico risalente al 13 giugno 1782, giorno in cui Anna
Göldi, ultima donna in Europa ad essere accusata di stregoneria, fu
ghigliottinata a Glarona in Svizzera. La canzone si apre con questi versi
"Sono passati quasi 226 anni dalla tua testa mozzata. / Dicono che gli
Svizzeri sono precisi come gli orologi: mi sembra una cazzata" e si chiude
con questa amarissima constatazione "Mi spiace dirtelo, e tanto più con
una canzone pensata sul divano. / Ma la tua morte, le torture ignobili, la
testa ruzzolata... / È stato tutto vano. È stato tutto invano". Cosa ci
sta in mezzo, che è forse ancora peggio visto che siamo nel 2024? Lo lascio dire
a te e alla tua sensibilità.
In mezzo c'è ancora tanto,
tantissimo. Da qualche anno giro con uno spettacolo, fortemente voluto dalla
mia amica Erica Boschiero (bravissima cantautrice) e costruito insieme al Coro
Auser di Treviso (dell'Università della Terza Età) composto da sole donne. Lo
spettacolo racconta la storia della posizione e del ruolo della donna, circa da
inizio XX secolo sino ad oggi. La cosa pazzesca è che questo spettacolo si basa
su documenti e fatti realmente accaduti, e quelli che narrano gli anni '60 sono
stati vissuti direttamente da molte delle coriste. Non so dare una spiegazione
e non ho alcuna risposta, in merito alla questione della violenza contro le
donne, solo una profondissima e inquieta amarezza. Se però ci si concentra
anche sulle religioni, che mostrano la storia della cultura di un popolo e/o di
una zona del mondo, non ce n'è una che non abbia un'impronta patriarcale (come
si usa dire oggi). Forse invidia? Timore? Perché questa necessità
"maschile" di sottomettere la donna? Attenzione però: di una certa
parte maschile, voglio specificarlo, di qualcuno che ha avuto ed ha potere
decisionale. Non è un costrutto di ogni uomo. Le generalizzazioni mi fanno
sempre paura. La violenza è umana, non ha genere né confini geografici. Ma
quella contro le donne è palese, da sempre. La storia di Anna Göldi
ci insegna che dietro un assassinio di questo tipo c'è sempre qualcuno di
potente che deve nascondere qualcosa. Nel caso di Anna, il suo ultimo
"datore di lavoro", che nonostante sposato e con figlie (di cui
proprio Anna si occupava) si era invaghito di lei e non voleva che questa cosa
trapelasse, durante il falso processo insistette sino ad ottenere un documento
in cui lui specificava (a che pro?) che mai e poi mai aveva avuto una relazione
con Anna. E la cosa che più mi ha sorpreso, della vita e della morte di Anna Göldi,
è la sua riabilitazione sommessa solo dopo ben 226 anni dal suo omicidio. Oggi
sembra che i femminicidi siano in aumento, ma è soltanto perché c'è finalmente
in atto una sorta di ribellione (dico finalmente, ma purtroppo le conseguenze
sono quelle che sappiamo). Ai tempi delle mie nonne, i mariti picchiavano le
mogli, le mettevano incinta con dieci, undici figli, stavano sempre fuori casa,
andavano con altre donne, rientravano ubriachi e venivano serviti e riveriti
dalle loro mogli-schiave. Nessuna si ribellava, e ai mariti non
"conveniva" ucciderle. È una terribile espressione, lo so, ma è così.
Oggi, se l'oggetto di "tua proprietà" (perché è questo che si crede)
si ribella, se il giocattolo non vuole più funzionare con te, lo rompi o lo
butti. Non so da dove arrivi tutto questo, ma è un fatto che esiste. Ribadisco:
la violenza c'è in tutti. Io stesso ho subìto uno stalking violento molti anni
fa, da parte di una donna squilibrata. Ma questi sono casi singoli, psichiatrie
personali. La liceità di avere la proprietà su un altro essere umano, e nel
caso specifico sulla donna che accompagna la nostra vita, è invece
inammissibile, per me. Spero che la società, la politica, la sociologia e la
psicologia possano migliorare le cose, in un futuro che però non sia troppo
tardivo.
La successiva Caso mai
trovo sia meravigliosa, sin dal suo incipit. Sembra svilupparsi su tre piani,
il passato con i ricordi "Il senatùr voleva fare il cantante", il
presente con tristi visioni come "Il senatùr si è dato ormai alla macchia,
con il suo tripode allontana le zanzare / Mi sembra un vecchio raccoglitore di
cotone / Con la chitarra che suona all'imbrunire / La sedia a dondolo che
dondola per tutti / Come bilancia, soppesa le stature" ed uno sguardo
allucinato verso il futuro "Se un giorno tutto sarà poi mai finito / ci
troveremo tutti quanti nelle piazze / come fratelli a sventolar bandiere. / I
più spavaldi ne avranno a due colori: / un lato rosse e l'altro lato
nere". Anche nel caso di una eventuale rinascita non mancheranno mai i
furbi... In che momento è stata scritta e cosa vorresti aggiungere per una
migliore interpretazione?
Casomai è un esempio di
come (mal)funziona la mia mente… Sono tutte impressioni, sensazioni, immagini
che sono confluite in un’unica canzone, che comunque è politica, di base. Era
il tempo del covid, e dall'iniziale situazione del "siete i nostri
eroi!" riferito al personale medico e paramedico, si stava iniziando a
passare al "ci volete ammazzare tutti!". Non era ancora ben chiaro il
passaggio, ma lo era per me. A volte capita che, se osservi attentamente la
società ed i tempi, il futuro ti si presenti molto chiaro, e così purtroppo è
andata. Come nel finale della canzone, prevedevo che la nostra memoria corta
(di cui Ennio Flaiano ben ci istruiva) ci avrebbe fatto scordare tutte le
bassezze toccate in quel periodo, da qualsiasi lato estremistico fossero arrivate.
Leggo ora questa canzone (come ti dicevo, scrivendo di pancia e di getto, certe
cose mi si chiariscono solo tempo dopo) come una associazione di idee sui
paradossi di noi esseri umani. La mia testa è partita col ricordo di quando il
fondatore della Lega voleva fare il cantante, ma essendo stato scartato ha
virato verso la politica, che a sua volta gli ha voltato le spalle non appena
ammalato. Cosa c'è dietro tutto questo bisogno di arrivare, a prescindere da
cosa siamo nella realtà, tanto che se non divento famoso in una cosa voglio
diventarlo in qualsiasi altra? Che mancanze ci sono, in situazioni come queste?
E come si fa a vivere in una realtà come quella della politica di chi ci
governa, fatta di così tanta ipocrisia e distacco emozionale e relazionale? Poi
i miei pensieri sono andati a chi aveva il terrore del covid, poi verso coloro
che denigravano chi ne aveva paura, poi ho pensato al lato positivo del blocco
di ogni lavoro: erano diminuiti/scomparsi anche certi delitti, certi
regolamenti di conti, visto che i bar erano chiusi e nessun motociclista col
casco e col mitra poteva ammazzare nessuno. Poi ho appunto immaginato che alla
fine avremmo (come forse è giusto?) dimenticato tutto quanto, saremmo ancora
scesi nelle piazze "amandoci" tutti quanti, e tra i tanti, molti
avrebbero nascosto -come spesso- i due lati della politica, per poter salire in
ogni caso sul carro del vincitore. È un po' una fotografia di certe
caratteristiche di noi italiani. In fondo, critico o provoco solo se non
comprendo gli atteggiamenti di chi amo. E le persone, nonostante ne abbia una
paura infame, sono la cosa più preziosa nella mia vita. Con l'espressione
"...politica di chi ci governa" intendo tutta la politica, non un
partito o una posizione. Ho l'impressione (senza rischiare di diventare
generalista) che molti di quelli che aspirano ad arrivare così in alto abbiano
questo come obiettivo, non il bene degli italiani. Lo stesso vale per ogni
ambito dove esista una gerarchia e si debba "scalare" per arrivare
alla vetta. Questo scalare comporta quasi sempre lo schiacciare, l'eliminare
chi ti era vicino sino a poco prima. Che personalità devi avere, per farti
piacere un mondo così?
Passiamo a Sciabola.
Musicalmente ha un andamento continuamente mutevole, come mutevole è il
paesaggio per chi è abituato a muoversi in bicicletta, magari non con il
passamontagna come il protagonista, ma "Di solito è così, col
passamontagna, che la sera / vanno in giro i pazzi". Il testo narra di un
incontro tra il "pazzo" in bicicletta e una donna che deve averlo
sentito arrivare e per questo è uscita in strada, c'è un saluto quasi urlato da
parte di lui e il "terrore" sul volto di lei. Il protagonista prosegue
imperterrito "oltre il fosso / a bestemmiarmi addosso". Sembra di
essere dentro un thriller. Quanto ti senti incompreso, considerato un pazzo e,
perché hai intitolato questa canzone Sciabola?
Mi sono sentito molto incompreso,
in passato, a causa della storia che ho avuto e dell'ambiente in cui sono
cresciuto. Oggi meno, oggi cerco di volermi un poco di bene (me lo devo imporre
però) e allora mi sento anche un po' meno incompreso. Artisticamente mi
piacerebbe che questo fragile mondo che ho dentro arrivasse un po' di più, ma
capisco che sia difficile, anche perché il mio modo di esprimermi non è che sia
proprio orecchiabile o estetico... Rispetto alla canzone, è nata da un fatto
grottesco che ho vissuto in prima persona, del quale sono fautore in tutto e
per tutto. Devi sapere che nelle zone dove abito io, il saluto è più raro della
moltiplicazione dei pani e dei pesci. A me hanno insegnato a salutare chiunque
incontri, ancor più se sconosciuti, è un bel modo per augurare salute (salutare
è proprio questo, etimologicamente parlando), ma nelle mie zone se saluti
qualcuno che non ti conosce, quello o ti guarda con superiorità, o con
preoccupazione, del tipo "Cosa vorrà questo, da me? Di certo vuole rubarmi
qualcosa!". Quella sera in cui sono uscito in bici, conciato come non so
cosa, e per il freddo avevo anche un passamontagna, ho incontrato l'unica
persona che avrebbe anche risposto al mio saluto, ma immaginati questa signora
anziana che esce di casa, si trova davanti uno in bici tutto imbacuccato, col
passamontagna e in più (ti giuro!) che sta parlando da solo a voce alta. In
realtà stavo ripetendo "Andare camminare lavorare" di Piero Ciampi,
ma senza cantarla (per la signora sarebbe stato molto meno pauroso, credo);
stavo ripetendo il testo a voce, ad alta voce per giunta, per darmi un ritmo
nella pedalata, fa un po' tu... La signora si è ritrovata davanti uno come me,
ed io (che ero in imbarazzo per stare parlando da solo ad alta voce col testo di
Ciampi) l'ho salutata con ancora più enfasi, per mascherare il mio imbarazzo.
La signora ha pure risposto al mio saluto (cosa, come ti dicevo, rara, qui) ma
lo ha fatto con un volto terrorizzato, è come se avesse risposto
"buonasera" con la voce, ma gli occhi chiedevano "pietà! non mi
ammazzi!"... Poverina, l'unica persona gentile l'ho spaventata a morte.
Non poteva che nascere una canzone, e così al mio rientro a casa è nata Sciabola,
il cui titolo ricorda il momento veloce con cui è successo tutto. Per esteso, i
momenti di invisibile incomprensione che abbiamo così spesso tra noi esseri
umani...
Personalmente la successiva
canzone Dov'è finito l'amore del mondo è di una bellezza lacerante, non
c'è volta in cui io l'ascolti e riesca a non piangere, la triste melodia che
affonda i colpi nel cuore si fonde con dei versi che da una parte sottolineano
un incredibile desiderio di amore "Sono venuto a cercarti anche in chiesa,
amore mio / Sono venuto anche in chiesa ma non mi ha aperto nessuno",
dall'altra descrivono momenti di apparente assenza totale dell'amore
"C'eran camini che fumavano di carne mai vissuta / e quest'aria assassina
e muta noi la respiriamo ancora". Immagini tragiche che però non ci hanno
insegnato nulla. Direi quasi rassegnati i versi finali "Se ti sei
nascosto, Amore Mio, lo sai che ti ho capito?". Non voglio aggiungere
altro, per me è poesia allo stato puro...
Ti ringrazio tanto, Fabio. Grazie
per quel che mi scrivi e per come lo scrivi. C'è qualcosa che anima questo
mondo, queste nostre vite. Che lo si chiami Dio, Energia o in qualunque altro
modo. Io credo semplicemente sia l'Amore. E noi, nonostante tutte le
discrepanze, i paradossi, le oscenità di cui siamo capaci, e forse anche per
tutte queste cose, ci siamo dentro, in questa sorta di amore infinito che muove
l'universo. Ne facciamo parte, ne siamo parte. È anche in noi. Se l'abbiamo
perduto, è in noi che lo possiamo ritrovare. In noi e nei rapporti con gli
altri esseri umani, con la natura, con gli animali e tutto ciò che fa parte di
questo mistero. Una delle cose più belle che ho letto è che "Uno è Tutto e
Tutto è Uno". Potessimo ricordarcelo più spesso...
Se l'Amore a volte sembra
davvero difficile da riscontrare, il male no, quello lo si incrocia quasi
quotidianamente, anche se a volte si maschera molto bene. Battiato cantava che
"Il diavolo è mancino, e subdolo. E suona il violino". Tu, in Fangù,
pur dicendo di voler credere al bene lo vedi nella gente che "si fa furba
e sorridente / mentre con la terza mano lei ti sfila piano piano / tutto il
cuore che ti invidia...". Per fortuna, però, la maturità ti ha portato a
concludere la canzone così "Ora posso anche scordarti. / Io non voglio più
vederti... E adesso posso!". Posso non coincide con riesco, quante volte
capita di farsi fregare comunque dal male. In fondo, sin dal titolo, la canzone
sembra essere più un'esortazione... È così?
Sì, è così. Ci si trova sommersi
tra lo stupore di fin dove possano arrivare certe azioni della gente, ed il
cercare a tutti i costi di voler comprenderne gli eventuali significati
reconditi, che però spesso, semplicemente, non ci sono. Qualcuno definiva
l'invidia una evidente manifestazione di inferiorità. Paolo Villaggio sosteneva
che l'invidia era un sentimento umano, e per tanto appartenente a tutti, e su
questo è impossibile non essere d'accordo. Ma ci sono invidie e invidie. Un
conto è voler avere quella bella caratteristica di qualcuno che ammiri, un
conto è volere che questa persona fallisca per poter gioire del suo dolore.
Purtroppo, ci sono persone così irrisolte che si sentono vive solo quando
vedono gli altri a terra. A mio avviso è sempre una questione di disturbi della
personalità, ma ad ogni modo si manifestano con questa umana ferocia. A un
certo punto però, l'attaccamento a quella persona o situazione o dolore può (e
deve) anche andarsene. Dove, lo dice tra le righe il titolo della canzone...
Pienamente d'accordo. Eccoci
arrivati ad Actarus, dolcissima canzone sospesa tra la nostalgia di un
passato irrecuperabile "Actarus nel cielo si spiaccica sul muro / Nella
stanza dei miei sogni non vola più nessuno / Ci sono solo fari e sirene sempre
accese / che puntano negli occhi illusioni mai sospese" e il desiderio mai
sopito di ricevere amore "Le cime delle cime han profili profanati / sono
cinquant'anni e imploro ancora amore". Ë proprio vero che il passare degli
anni non affievolisce mai il desiderio di amore e, chi è più sensibile di altri
credo ne soffra maggiormente la mancanza, vero?
Vero. La fame e la sete di amore,
di affetti, credo che non finisca mai. Se poi non ti sono arrivati quando ne
avevi bisogno (quando eravamo bimbi, fragili e senza protezioni), allora questa
fame e sete atavica ti accompagnerà finché vivi. E difficilmente qualcosa potrà
colmarla. È un fatto che rasenta l'incomprensibile, ma fatto rimane. Una
solitudine interiore difficilmente spiegabile. L'essere umano è una dicotomia
tra il bisogno d'amore e la sua stessa paura. Di amare e di essere amato. E
magari la vita vola alla velocità di uno starnuto e ti accorgi a cinquant'anni
che questo bisogno è ancora vivo. Però se ti guardi intorno, non dico in te
stesso (non tutti riescono) ma anche solo intorno, e ti permetti di accettarlo,
di amore ce n'è davvero tanto. Nei gesti piccoli, in un sorriso, un saluto, una
frase che diamo per scontata ma scontata non è: l'amore c'è. L'amore vive.
Siamo in dirittura d'arrivo,
perché La vita va, intercalata dalla brevissima Ricordati di te
(quasi un appunto, ma di vitale importanza), prima di una dolcissima ripresa
del ritornello da parte delle tue figlie, rappresenta direi la chiusura del
cerchio. La vedo quasi come una cantilena consolatoria, un antidoto da cantare
nei momenti di debolezza in cui si rischia di ricadere nei soliti errori.
"La vita va, è una candela / ci soffia sopra un vento di infelicità / La
vita va, traballa sempre / ma lei è testarda, forse non si spegnerà"
recita il ritornello, intercalato dalla constatazione di un male interiore che
ti trascini da sempre, con la consapevolezza però, di voler finalmente cambiare
e il disco, con la ripresa del ritornello da parte delle tue figlie, che
rappresentano ovviamente il futuro, non poteva desiderare miglior finale, non
credi?
È esattamente così. La vita corre
veloce, fragile e zoppicante, ci porteremo per sempre dentro di noi le
conseguenze di mancanze, di presenze, di ferite a freddo, senza anestetico. Eppure,
così come siamo, esattamente così come siamo, possiamo chiudere con una certa
parte della nostra storia (che non vuole dire che non abbia più effetti su di
noi, ma che possiamo conviverci pienamente e con senso) e ricominciare.
Nasciamo e rinasciamo in continuazione. E ogni volta è una speranza in più. E i
bimbi, e tutti quelli che verranno dopo di noi, continueranno molto più e molto
meglio di noi. Ho letto dell'esistenza di una tribù dove, quando uno compie un
errore, viene messo al centro di un cerchio di persone, e a turno queste
persone gli dicono tutte le bellezze che ha, tutte le ricchezze, i pregi, le
caratteristiche positive e uniche. Che bellezza poterlo fare anche noi. Con gli
altri ma anche e soprattutto con noi stessi (in questo caso gli altri sarebbero
una conseguenza naturale). Perciò sì, guardiamo con amore a questi meravigliosi
bimbi che sono il futuro e il presente. E ricordiamoci di noi!
Il 12 gennaio 2024 è stato
pubblicato “Guardate com’è rossa la sua bocca” (AMS Records, 2024), il nuovo
album pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo, uno splendido
omaggio ai cinquanta anni di carriera di Angelo Branduardi. L'album è stato inoltre
accompagnato dall'uscita in contemporanea del videoclip del singolo “Fou de
love”.
Se fossi d’accordo, prima di
buttarci a capofitto dentro quest’ultimo progetto, vorrei partissimo dal tuo
incontro con il pianista e compositore Alessandro Russo che risale a parecchi
anni fa, dato che era già presente nel tuo secondo album Il minuto secondo
del 2012, in veste di pianista ed arrangiatore. Direi che il vostro è un solido
sodalizio artistico più che solido …
Sì, noi ci siamo incontrati in
quell'anno lì o forse qualche anno prima. Alessandro mi era stato proposto da
un amico cantautore romano che mi aveva detto “Guarda che c'è un pianista molto
in gamba, che ha fatto una tesi su Battiato e che potrebbe fare il tuo caso” e
quindi ci siamo conosciuti, ci siamo subito trovati in sintonia, abbiamo gli
stessi gusti, un po’ la stessa estetica musicale, lo stesso modo di pensarla.
Inizialmente abbiamo suonato parecchio dal vivo e poi c'è stata la
collaborazione per il mio secondo album Il minuto secondo. In seguito,
abbiamo suonato ancora tanto dal vivo e, sempre insieme, abbiamo aperto alcuni
concerti di Franco Battiato dell’Apriti Sesamo Tour. Abbiamo davvero
suonato tanto assieme in quei primi anni e già da lì cominciavamo a suonare i
pezzi di Branduardi, ma per noi, per conto nostro. Finché siamo arrivati al
punto di dire “Beh, queste canzoni in qualche modo funzionano abbastanza. Se ci
mettessimo un po’ di impegno e facessimo uno studio un po’ più approfondito,
forse potrebbero essere buone per essere messe su disco”. Ecco, questa è in
sintesi la storia tra me e Alessandro, siamo molto in sintonia e siamo
diventati anche molto amici.
A questo punto possiamo dire
che tutto è partito da Battiato…
È partito tutto da Battiato? Sì,
il deus ex machina è Battiato.
La tua attività, invece, è
partita in veste di cantautore con l’esordio discografico, all’età di 33 anni,
rappresentato da L’esempio delle mele, per poi volgere pian piano nel
tempo lo sguardo anche all’interpretazione, con la riedizione nel 2018 di La
voce del padrone, capolavoro del 1981 di Franco Battiato, con il quale hai
vinto la Targa Tenco per la categoria “Interprete di canzoni”.
In realtà fui già interprete
anche nel mio secondo album Il minuto secondo, perché quel disco era in
realtà diviso in due parti e, nella seconda parte, interpretavo lied e canzoni
non mie, però era una cosa un po’ diversa… Poi, invece, quando ho vinto la
Targa Tenco come miglior interprete, lì ho capito che forse avrei potuto sfruttare
la voce anche al di fuori del mio contesto cantautorale ed effettivamente,
proprio come in questi giorni, peraltro, sto cantando le canzoni di un album di
un cantautore che vive in Australia, un disco progressive. Ho prestato la voce
anche nel disco di Fabio Zuffanti, come interprete puro.
Tornando a La voce del
padrone, cosa hai provato nel mettere mano ad un disco epocale come quello
e nel vincere poi questo prestigioso riconoscimento, cosa ha rappresentato per
te la Targa Tenco 2018 di Migliore Interprete?
Hai detto bene, un disco epocale
come quello! Beh, all’inizio devo dire che l'ho fatto un po’ per gioco, nel
senso che mi sono messo a lavorare con gli arrangiamenti più che altro perché
mi ero stancato di stare lì a fare le mie cose, volevo confrontarmi con
un'opera colossale, proprio come quella di Battiato. Ricordo benissimo che poi
ci fu in quel periodo una cena qui a casa mia con quelli che poi hanno fatto
uscire il disco: discografici, produttori, eccetera, che in quell’occasione mi
hanno detto “L'idea è molto buona, se te la senti di farlo uscire, ti diamo una
mano”. Io ero un po’ titubante, perché pensavo di prendermi fondamentalmente
delle gran bastonate, perché a toccare un'opera così si rischia davvero grosso.
Ma siccome ci ho messo veramente un grande rispetto nel farlo, mi sono detto
“Vabbè, proviamo, vediamo che succede” ed è andata molto bene infine, fino ad
arrivare poi a vincere la Targa Tenco, una vittoria che è stata completamente
inaspettata. Tra l’altro, qualche anno prima, nel 2014, avevo scritto una
lettera aperta al Club Tenco in cui mi lamentavo un po’ del meccanismo di
votazione, e lì scoperchiai un vaso di Pandora e ci furono poi delle grosse
critiche nei miei confronti. Per cui, a valle di quel fatto, mi dissi che avrei
potuto mettere una pietra tombale sulla Targa Tenco per quanto mi riguardava, e
che non avrei mai potuto vincerla. Poi, invece, nel 2018 sono stato votato ed
ho vinto; non mi aspettavo neanche lontanamente di poterla vincere perché
pensavo di essere tagliato fuori proprio in virtù di quella lettera aperta. È
stata un'esperienza meravigliosa, è stato bello essere invitato al Tenco a
suonare e ritirare la Targa, Targa che mi ha dato molte possibilità. Il disco,
poi, è uscito quando Franco ancora era vivo, nel 2018, ma riuscì ad ascoltarlo
e gli piacque, anche se non stava già bene, quindi non sono riuscito a
parlargli. In seguito, sono stato chiamato sia dall'orchestra della Magna
Grecia - per rifare quelle canzoni con i miei arrangiamenti -, sia dalla band
originale di Franco Battiato, cioè dalla da Angelo Privitera e dal Nuovo
Quartetto Italiano con il quale ho fatto molte date (e ne farò altre…). Tutto
ciò è avvenuto perché hanno ascoltato il mio adattamento de La voce
del padrone. Per me è stata una grande conquista.
Quindi la Targa ti ha portato
fortuna.
È stato un privilegio vincerla,
sono stato molto contento, soprattutto, ripeto, perché non me l'aspettavo ed
ero completamente disilluso, non so come dire, non ero lì in attesa… poi,
quando mi è arrivata la notizia che ero nella cinquina mi sono detto “Come mai?
cosa è successo?”. Poi ho pensato di essere entrato solo tra i finalisti e che
finisse lì, invece, poi, una mattina mi chiama l'ufficio stampa e mi dice
“Guarda che hai vinto!”. Ero completamente fuori di me e incredulo, non me
l'aspettavo. Ecco è stato molto bello. Adesso vediamo con questo che succede…
Devi comunque averci preso
gusto a ricoprire il ruolo di interprete se il 12 gennaio 2024 hai pubblicato
un disco omaggio ai 50 anni di carriera musicale di Angelo Branduardi, sempre
in collaborazione con Alessandro Russo, omaggio composto da 8 brani che è stato
intitolato Guardate com’è rossa la sua bocca, un verso estratto da Sotto
il tiglio. Perché, dopo Franco Battiato hai deciso di interpretare Angelo
Branduardi?
Sì sì, mi piace molto e devo
dirti che questo progetto ce l'avevamo in cantiere da tanto tempo. È stato
soprattutto Alessandro a spingermi; io ero un po’ restio per via del fatto che
avevo già fatto uscire La voce del padrone ~ un adattamento gentile, ma
lui, invece, ha insistito. Quindi ci siamo messi a lavorare e devo dirti che ci
ho impiegato un po’ di tempo a fare uno studio approfondito, perché non è così
semplice Branduardi. I suoi brani sono, da un punto di vista degli
arrangiamenti, molto complessi e non sono facili da ridurre in solo pianoforte
e voce; è stato necessario trovare quel quid che rende i pezzi emotivamente
belli come sono quelli originali, lavorandoci tanto.
Quali sono state le difficoltà
maggiori nel tradurre le complesse orchestrazioni di Branduardi per sola voce e
pianoforte.
La difficoltà è proprio questa,
nel senso che, quando si ascolta una canzone con gli arrangiamenti così
complessi, barocchi, folk, celtici, come quelli di Branduardi, se si decide di
fare una riduzione per pianoforte e voce, si deve trovare all'interno di
armonia, melodia e ritmo quelle parti incastrate che riescano a tradurre tutto
in un’unica linea melodico-armonica, quella che tu “senti" quando ascolti
tutti gli strumenti. Non so se mi sono spiegato… Quindi bisogna mettersi lì
piano piano e operare delle scelte, strumento per strumento. Allora si cerca di
mettere insieme tutte le parti e far venir fuori un'unica linea che comprenda
tutti gli strumenti, ma non è facile perché bisogna cercare con una specie di
astrazione emotiva, ascoltare contemporaneamente in modo superficiale e
approfondito, con il cuore aperto e la mente attenta. Poi il nostro punto di
vista è quello di metterci completamente al servizio della canzone, di non
toccare niente della scrittura del brano, di non modificare niente, neanche una
nota, di non aggiungere niente di nostro, con un’impronta assolutamente
classica. E poi cercando di essere il più possibile non dico distaccati, perché
poi emotivamente ci siamo molto molto dentro, però di mettere un po’ da parte
la personalità di ciascuno per non far uscire fuori una cover in cui uno ci
mette del suo, e di comportarsi come un pianista classico che si mette a
suonare un'opera classica.
Senza quindi andare a
modificare la partitura.
Sì, senza andare a modificare la
partitura. Questa è stata la sfida, la cosa più difficile. Spesso chi non è
capace di rifare una canzone come l’originale se la modifica secondo le proprie
capacità e possibilità: certamente può uscire qualcosa di buono, ma nella
maggior parte dei casi si è molto al di sotto dell’originale. L’eccesso di
personalismi spesso è scadente. (Se si ha questa voglia di esprimersi con le
proprie idee, allora scrivi pezzi originali!) Invece, per rifarla esattamente
com'è, bisogna confrontarsi con quel gigante che l'ha scritta. E questo è lo
stesso lavoro che ho fatto per La Voce del Padrone ~ un adattamento gentile.
Non ho toccato niente. Qualcuno mi ha detto “Ah, ma sai, le canzoni di Battiato
sono molto alte di tonalità, forse ti conviene abbassarle”. E perché?
Assolutamente no, se non riesco allora non le canto! Con Battiato poi ho anche
la fortuna di avere un timbro che lo ricorda, quindi non è stato troppo
difficile…
Se è per questo, anche in
molti passaggi di questo nuovo progetto ricordi molto Branduardi.
Sì, ma perché siamo un po’ in
quell'ambito lì, in quel modo modo di cantare, però non c'è nessuna imitazione,
nessuna emulazione. C’è semplicemente il cercare di immedesimarsi in quelle
canzoni ed è un lavoro abbastanza complesso, devo dire. essere se stessi è più
facile che essere uno strumento. In questi tempi c’è un culto della penalità
che non capisco molto e che non accetto. Ci si riduce a cercare dentro di sé il
nulla, come se se le nostre risorse originali fossero infinite… Ma noi siamo
contenitori e dobbiamo riempirci prima di poter elaborare ed esprimerci. Ci
vengono spesso imposte personalità vuote e ci devono star bene solo perché sono
tali? la personalità si forma prima per addizionepoi per sottrazione. Se non ti riempi di
qualcosa potrai anche essere originale, ma sei povero e vuoto.
Ho cantato più volte le canzoni, cercando di trovare l'interpretazione più
giusta, cercando di non fare patchwork, di non cantarle in maniera spezzettata,
ma cercando sempre di fare un'unica take, di cantarle cioè dall'inizio alla
fine.
Qual è il brano per cui hai
avuto maggiori difficoltà nell’approccio?
Sono stati due. Confessioni di
un malandrino: è un brano stupendo, abbastanza conosciuto ma complesso, il
primo brano scritto interamente da Branduardi, il testo dice tante cose e ha un
ritmo abbastanza incalzante. Il secondo è stato Alla fiera dell'est,
perché è un brano famosissimo. Anche lì con Alessandro abbiamo detto “Tra i
brani famosissimi di Branduardi, scegliamone soltanto uno” e quindi c'era da
scegliere tra Cogli la prima mela, La pulce d'acqua, Alla
fiera dell'est, Si può fare… Con le canzoni più famose è più
difficile, perché è come se costituissero, in testa, una specie di regola
infrangibile.
Certamente il criterio
adottato per la scelta degli otto brani non è stata la notorietà.
Ah, esatto! non volevamo fare il
disco The Best. Volevamo semplicemente cantare le canzoni che ci piacevano di
più, quelle che ci sentivamo di più a cuore. Alla fine, abbiamo scelto solo Alla
fiera dell'est, che però è un brano ripetitivo ed è stato quindi difficile
cercare un approccio e un risultato che non fosse noioso. Abbiamo quindi
inserito i cori e abbiamo utilizzato il pianoforte un po’ come fosse non uno
strumento solo, ma tanti strumenti, quindi aggiungendo di volta in volta una
parte.
Quale tra gli otto brani
scelti, quello che più ti ha entusiasmato e perché?
Un brano che ho riscoperto, che
mi è sempre piaciuto molto e che trovo peraltro simile un po’ alla scrittura di
Battiato è Casanova, che è sul disco Si può fare. È un brano
“minore”, nel senso che è veramente poco conosciuto, però ha una melodia e un
testo molto belli. L’ho trovato dolcissimo. In questa versione pianoforte e
voce, secondo me ha avuto anche una specie di fioritura in più, rispetto
all'arrangiamento di Branduardi che si mescolava insieme a tutte le altre
canzoni.
Beh, è molto bello anche il
video di Fou de love, soprattutto perché mostra da una parte il rigore
di una vostra registrazione, dall’altra il divertimento assoluto che ne
scaturisce.
Sì, ma poi guarda, come diceva
Sgalambro, “il divertimento è una cosa seria”. Quindi da quel punto di vista ci
siamo divertiti seriamente, seriamente nel senso che, quando uno si diverte a
fare le cose che gli piacciono non è il divertimento dello sballo che uno
cerca, ma è un divertimento derivante dal fatto che mi sta piacendo molto
quello che faccio. Volevamo che nel video si trasmettesse questa cosa, anche la
tranquillità con cui abbiamo lavorato al disco io e Alessandro. È stata molto
bella anche la scelta del titolo…
Ecco, perché è stato scelto
proprio quel verso a rappresentare la raccolta e perché questa sobria copertina
che tanto mi ricorda la collana Classici di Adelphi, forse perché un’opera come
questa può considerarsi a tutti gli effetti un classico?
Il titolo. Ogni volta che
arrivavamo a quel punto della canzone ci guardavamo in faccia io ed Alessandro
e lo cantavamo un po’ assieme scherzando “Guardate come è rossa la sua bocca”!
e quindi ci sembrava sempre un punto di arrivo. Alla fine, abbiamo detto “Beh,
utilizziamo quella frase lì per titolo” perché sembrava quasi che fosse venuta
da sé, che ci stesse un po’ chiamando e poi, devo dire, suona molto bene, e
soprattutto racchiude un po’ tutto il mondo di Branduardi in qualche modo, …no?
Quest'immagine di questa donna sotto il tiglio che ha questa bocca rossa, un pò
come un fiore…
Direi molto fiabesca.
Sì sì, molto fiabesca. Ecco,
quindi ci pareva buona come titolo. La copertina, invece, hai detto bene. Io
sono un fan della Adelphi e volevo che il disco avesse questa veste classica
perché classico è l'approccio, come abbiamo detto prima, e volevo che somigliasse
un po’ anche agli spartiti della Ricordi. Non so se hai presente gli spartiti
per pianoforte super classici, ecco, che sono un po’ così. In definitiva una
via di mezzo tra gli spartiti della Ricordi con quel marroncino e i libri
dell’Adelphi che hanno una veste così, rigorosa, sempre molto elegante. Il
progetto grafico è il mio, poi un grafico ha elaborato tutto il layout. Molto
semplice, ma funzionale.
Un progetto musicale come
questo credi sia destinato ad un’attività concertistica esclusivamente
teatrale? Hai in programma un tour?
L’assetto pianoforte e voce
prevede un silenzio e un'attenzione che soltanto a teatro si può avere, a meno
che non si va in dei locali appositi. Diciamo che i locali rumorosi non fanno
il nostro caso, non siamo un band rock… Stiamo lavorando adesso, proprio in
questi giorni, con il booking, per capire un po’ come muoverci con le date.
Adesso ho due date, ma riguardano Battiato ancora, la prima a Messina il 13
marzo e l'altra a maggio ad Acireale, dove canterò la Messa Arcaica con
l’orchestra e il coro del Conservatorio di Catania…, però sì, stiamo cercando
di chiudere con il booking in modo che si parta poi con le date.
Come cantautore, invece, hai
qualcosa che bolle in pentola?
Sì, io continuo a scrivere. Prima
di questo avevo fatto già un altro disco che è Al blu mi muovo, uscito
nel 2020, in piena pandemia. Adesso l'idea sarebbe, avendo fatto prima La
voce del padrone e poi questo, quella di fare una trilogia; quindi,
realizzare un altro disco come interprete, però non abbiamo ancora idee
precise…
Hai già in mente qualcuno
quindi?
Un cantautore che mi piace
moltissimo e che vorrei interpretare è Herbert Pagani, ci sono delle sue
canzoni stupende… È tutto da tutto da vedere però, è un'idea mia, ma magari in
mezzo potrebbe essere che faccia un disco di inediti, invece. Vedremo…
Il 13 ottobre 2023, in pieno autunno,
è stato pubblicato il nuovo disco di Davide Van De Sfroos intitolato “Manoglia”
(BMG/MyNina, 2023). Un disco volutamente acustico con undici tracce inedite che
hanno preso vita negli anni e sono rimaste gelosamente custodite da Davide
probabilmente in un cassetto, o in una tasca come fossero amuleti, in attesa
fosse maturo il tempo per venire alla luce e dare vita ad una rinascita, un nuovo
cammino. Ecco cosa mi ha confidato in una lunga e piacevolissima chiacchierata.
Partirei dalla copertina dell’album
che, un po’ come avviene per il package di un profumo o l’etichetta di un vino,
rappresenta il biglietto da visita di un album discografico. In questo caso un
disegno con un albero che ha penne di uccelli al posto dei rami e, al centro
dove partono i rami o, meglio, le penne, una maschera che a poco a poco forse sparirà…
Com’è nata e perché hai scelto Manoglia come titolo dell’intero lavoro?
Può ritenersi in assoluto il tuo lavoro più intimo, in cui ti metti con grande
coraggio più a nudo?
Innanzitutto, la penso come te. Le
copertine degli album sono il primo invito all’ascolto. Nella storia dei miei dischi
comperati, che sono stati veramente tanti, ci sono stati veramente moltissimi
LP che sono finiti a casa proprio a scatola chiusa, solo per la bellezza della
copertina. Quando vidi il disco di J.J. Cale, con l’immagine del pacchetto
delle Gitanes, mi dissi “non può non essere un bel disco” e, infatti, è un
disco stupendo. Poi, purtroppo, non sempre funziona così bene. In questo disco
acustico il mio desiderio era quello di far intravedere una certa psichedelia,
una psichedelia del periodo anni 60 e 70 e, originariamente, lo volevo ultra-colorato,
se vogliamo dire anche un po’ in stile San Francisco. Però Michele Cerone, che
abita vicino a Roma e che mi è stato proposto come grafico, aveva in serbo
anche altre suggestioni, ovvero quella psichedelia più legata a Sgt.
Pepper's e ad altri mondi. Quando ha ascoltato alcune tracce del disco e
gli ho parlato di un disco che si sarebbe intitolato Manoglia, ha modificato
un'immagine che aveva trovato su un vecchio erbario e mi sembrava veramente già
un totem, con la maschera sotto, con tutto il resto della copertina libero.
L’unica cosa che gli ho detto “se mi metti le piume al posto delle foglie, abbiamo
la copertina” e così è stato. Ecco come è nata. Poi all'interno tutto si apre e
tutto diventa anche molto in stile psichedelia anni 70, però la copertina,
proprio perché è così semplice, diventa molto attrattiva e in un negozio di
dischi, comunque, la noti. Per quanto riguarda il titolo Manoglia è il
titolo di una canzone che era nata proprio sotto la grande magnolia, qui del
paese, quando era finito il momento del lockdown pesante e io mi sono ritrovato
con migliaia di foglie lì sotto, che nessuno ovviamente aveva ripulito ed erano
proprio i simboli di tutti i miei ricordi dell'infanzia, di tutte le cose che
avvenivano in quel luogo quando era un po’ il centro del paese. Da lì poi è
nato il disco che è completamente arboreo, naturalistico, in cui ci sono ali di
falco, il becco del merlo, in cui c'è tutta una ritualità tipica del
camminatore per le piccole strade di paese, di montagna, che raccoglie visioni
e le trasforma poi in canzoni. Si tratta di un disco nato da un taccuino
privato e quindi, se vogliamo, è molto intimo ed ecco perché l'ho voluto
lasciare il più acustico possibile.
Il disco si apre con La ballata del
mascheraio, forse la canzone musicalmente più vicina al Davide che
conosciamo. Una canzone che, se ascoltata con superficialità potrebbe sembrare
la classica ballata folk che anche un ragazzino capirebbe senza difficoltà, poi
però se la si ascolta bene emergono strati sottostanti, versi che fanno
riflettere come “perché una maschera se mustra / intaant che sùta la nascuund…”
o i bei versi finali “Per fa’ una maschera de bestia / pröeva a vardàss in del
prufuund / Per fa’una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa a un ómm /
Per fa’ una maschera de dóna / pensa a una dóna che pensa all’amuur…. Mi aiuti
a decifrarla un po’ senza scomodare troppo la psicanalisi?
No, no, vabbè. È chiaro che è una
canzone che può essere applicata alla vita di tutti i giorni, che prende in
prestito la figura ancestrale della maschera che c'è sempre stata nella nostra
cultura, fin da quando eravamo primitivi, poi però prende in prestito il
demiurgo, il mascheraio, per arrivare a fare una metafora su tutto quello che
noi di fatto siamo, queste maschere involontarie, che ci troviamo ad indossare
quotidianamente, perché è un dato di fatto che noi cambiamo anche
atteggiamento, non perché siamo falsi, ma cambiamo atteggiamento e cambiamo
modo di porci a seconda di chi incontriamo. È molto differente il nostro
atteggiamento con l'edicolante da quello con un bambino di quattro anni, quando
arriva un ospite di un certo tipo oppure arriva una persona che magari ti sta
scocciando, ecco, cambiano tutte le nostre modalità di maschera. Come hai detto tu, questa canzone forse nasce
come ballata, molto semplice, proprio perché deve arrivare a tutti, ma come
tutte le canzoni apparentemente semplici, nasconde una parabola, una metafora,
come Il pensare che per fare una maschera che ride lavorerai in un certo modo,
mentre per quella triste, cioè quella arrabbiata, non deve sembrarti per forza
quello che appare, perché sotto, probabilmente c'è una persona che ha sofferto
e che usa questa maschera aggressiva per esorcizzare la paura o per
proteggersi. Oppure perché non si fida più. Poi, alla fine, giustamente quando la
canzone dice che per realizzare una maschera da donna devi pensare a una donna
che pensa un uomo, è semplicemente perché la donna nella storia ha sempre
dovuto combattere, relazionarsi con la figura dell'uomo che molte volte la
dominava, la scoraggiava e, in qualche modo, la faceva passare in secondo
piano, per non dire delle volte che doveva addirittura subirla la presenza
maschile. Ancora oggi, purtroppo questa realtà non si è risolta. Quindi una
donna che pensa un uomo non è semplicemente una donna che pensa all'innamorato,
ma è la donna che deve continuare a rendersi conto che c'è anche una polarità
maschile con la quale lei deve fronteggiarsi quotidianamente. Nella seconda
frase, invece, la donna che pensa all’amore, l’amore che può essere l'amore per
un uomo, per una donna, per un animale, per un padre, un figlio, per qualunque
cosa. La donna che pensa all'amore è la maschera forse più bella e più ricca
per disegnare quello che è il profilo femminile. È quindi una canzone molto
simbolica.
Forsi,
bellissima canzone manouche, sembra essere la canzone di chi si trova a fare i
conti con il proprio passato, “E questa cràpa pièna de véent, questu quadernu
che gùla via / l’è una furesta senza sentée, per fa’ fiadà ancamò la puesiia /
Se sun vestii de aal de muscòn e de paròll che ho rubaa all’usteriia / ho
racataa ogni tocch de rutàmm e adèss la rüggin me fa cumpagniia ché” ma che, ad
un certo punto, accetta di essere così com’è “E FORSI…forsi passerà una naav /
E FORSI…me resteroo ché… / Senza valiisa e senza bigliètt / senza piöe
dumandàss el perché”. Quante volte ti sei sentito fuori sintonia con il mondo
circostante?
Tantissime e questa canzone parla
proprio anche della decisione di reagire, è una canzone ribelle. Tanto più che
gioca, anche a partire dalla musica, con un tempo che non è il nostro. Non dico
che è una canzone di nostalgia, ma è una canzone che si sente libera e non si
vergogna di tante cose belle che ha vissuto in un passato nel quale uno si
sentiva molto a suo agio. Abbiamo preso una musica manouche, protojazz, proprio
per essere fuori dal tempo, come in un lungometraggio alla Buster Keaton, una
roba del genere. Questa canzone è anche il rifiuto di salire sulla nave che
tutti ti obbligano a dover popolare, perché oggi c'è questa velocità, perché
oggi c'è questa tendenza e tu, invece, che sei stato abituato ad andare a prendere
queste piccole cose, le ali di mosconi, le canzoni rubate all'osteria, tu che
lascerai aperto il portone, lascerai passare tutta la processione, poi però
chiuderai le finestre per trattenere fortemente la le tue canzoni, per non
farle sfuggire e la tua poetica che è l'unica cosa che tu continui a ad
inseguire. Una canzone, quindi, che si rifiuta di appartenere ad alcuni tempi
che stiamo conoscendo, che ci stanno un po’ comprimendo e deprimendo.
Nonostante abbia quasi sessant'anni non sono mai stato uno che screditava le
cose nuove, mi sono appassionato sempre anche delle musiche, delle canzoni che
ascoltano i miei figli. Mi piace vedere quando c'è arte, quando c'è
credibilità, talento, quando c'è buona musica e ce n'è tantissima. Io non mi
nascondo dietro a un disco di Dylan o dei Pink Floyd, né sto lì a dire che una
volta era tutto bello e adesso tutto merda, anzi, io sono un grande ricercatore
di tutti quelli che sono i nuovi Dylan, i nuovi geni, nuovi, grandi artisti.
È stato grazie a te, ad un tuo
commento pubblico, che ho conosciuto ad esempio Mirko Menna ed il suo Nebbia
di idee, per dire.
Questo è un esempio, un disco che
Paolo Conte stesso, aveva citato e recensito benissimo con una frase. Tutte queste
figure, però, bisogna avere anche il coraggio, la forza e la pazienza di
andarle ad ascoltare, sennò, altrimenti, rimaniamo lì, con tutto il nostro
bagaglio del passato e diventiamo dei bacchettoni ammuffiti che non ascoltano
più niente. La canzone Forsi, comunque, è una canzone di ribellione.
Passiamo a Crisalide (Le ali del
falco) che si apre con il magico pianoforte di Maurizio Fasoli fino al dispiegarsi
di una dolce melodia, è indubbiamente una canzone che guarda verso l’alto, la
definirei una canzone d’aria. Se penso ai versi “Ma me dumanderóo i aal del
falco per un viàgg, per un viàgg / taant per regurdàss de vèss staa in voolt
püssée de inscé, püssée de inscé / e se guleróo via salüdum cun la mànn / e pöe
dii mè sacòcc vedaréet burlà föe tütt” mi sembra di capire che sia stata
scritta dopo un periodo down, dico male? La crisalide è vista come segno di
rinascita, di trasformazione?
Quella canzone, prima di diventare
canzone, è stata una sorta di appunto che io mi sono scritto sul quaderno, in
un momento in cui non mi trovavo bene, con i piedi nel fango, nelle sabbie
mobili che mi risucchiavano. In quel momento io camminavo verso il santuario
della Madonna del Soccorso di Ossuccio, quindi mi stavo innalzando, più salivo
e più guardavo le farfalle, però sognavo addirittura le ali di un falco che in
quel momento è passato, per poter essere un po’ più in alto, per poter fare una
specie di meditazione da un altro punto di vista, una cosa più elevata, che mi
permettesse di avere un punto di vista differente. E allora devo dire che
quella lì era una cosa che stavo scrivendo proprio a me, come dire, per
incoraggiarmi. Maurizio Fasoli è stato eccezionale. Io ho fatto togliere tutto
il resto, chitarre e tutto il resto, perché doveva proprio essere un pezzo aereo,
volatile, un pezzo d'aria.
Invece di parlare della canzone che dà
il titolo al disco, se sei d’accordo, vorrei parlare di El Giuvanon (Il becco
del merlo) perché nasce dalla stessa melodia di Crisalide, sebbene suoni molto
diversa. La definirei una canzone di terra, qui non c’è il desiderio di volare
in alto ma di scavare in profondità, dentro sé stessi, “Ma me dumanderóo el
bècch del merlu, per fà un böecc, per fa un böecc / per truvà quii ròpp che’l
téemp el m’ha scundüü sùta i radiis, sùta i radiis… / e quando troverò la cassa
del tesoro, vi chiamerò con me e dopo l’aprirò…”. Una curiosità, El Giuvanon è
frutto della tua fantasia o è realmente esistito?
El Giuvanon (Il becco del Merlo) è,
invece, un brano profondamente legato alla terra ed è uno scavare nelle radici,
con la figura del Giuvanon, proprio perché questo grande contadino è stato uno
degli ultimi cowboys della nostra sponda del lago, cui era fortemente legato, fisicamente
sempre più ricurvo su sé stesso, un uomo che era di una forza e di una statura
di un certo tipo, che si è modificato con la vecchiaia seguendo proprio la
terra. Queste due canzoni, dunque, sono diventate due facce del vivere, aria e
terra.
Trovi sia stato più arduo volare verso
l’alto o cercare dentro sé?
Non c'è una classifica, sono due
viaggi che prima o poi uno deve fare e che costantemente ti chiamano, perché ci
sono dei momenti in cui ti devi per forza elevare un po’, specialmente quando
intorno a te tutto sta diventando palude, dall'altra parte però non puoi vivere
appoggiato a una nuvola, perché tu sei un uomo della terra e perché la terra ti
appartiene e tu appartieni a lei e dentro di te ci sono tutti quei simboli,
tutti quei ricordi e tutti quei viaggi che uno deve ancora fare. Per cui quando
tu chiedi in prestito il becco al merlo, il merlo è quello che è sempre giù nel
prato, che scava, che scava per trovare i tesori che ti sono sfuggiti, quelli
che hai dimenticato. Come mai eri così contento da bambino, anche solo per una
pietra colorata, una biglia o un fumetto. Come mai adesso non va bene più
niente? Come mai non ti accontenti più? Qual è il l'anello magico che hai
perduto? È molto difficile, perché devi proprio scavare in profondità.
Riprendiamo a seguire l’ordine delle
tracce e affrontiamo la title-track, che credo sia stata scritta dopo il duro
periodo di lockdown durante la pandemia, almeno così mi sembra dai versi “Ho
fümaa la nustalgiia, ché luntànn de tücc / Ho fümaa la nustalgiia e adèss me
resta el mùcc”. I versi “Tel gìret e rigìret, te vöeret stravacàll / l’è el
solito büceer ma rièset mea a finìll” mi sembrano descrivere un segno di
rottura rispetto al prima, è così? Quanto è stato duro per te restare lontano
da tutti durante quel periodo e che cicatrice ti ha lasciato?
No, è un pezzo modulabile, quindi la
tua impressione può avere molto senso. Questo bicchiere che poi è il tuo
bicchiere, quello nel quale ci sono tutte le tue cose, i tuoi ricordi, tu ogni
tanto lo vorresti svuotare, lo vorresti bere tutto e dire “Basta! Adesso questo
bicchiere di ricordi è finito”, però non riesci a svuotarlo, perché come
abbiamo detto prima non puoi vivere nel passato, non puoi far finta che non ci
sia stato. Il passato passa solo fino a un certo punto. Tu ce l'hai dentro,
quello è il tuo bicchiere, sempre, può finire, può cambiare il contenuto, puoi
riempirlo, puoi finirlo, però il tuo bicchiere è un po’ macchiato, macchiato
dalle cose che hai pensato e un po’ sbeccato, da quello che non hai fatto, da
quelle cose che sono i tuoi rimorsi, ciò che non è stato. È il tuo bicchiere e
non puoi farci niente, è il contenitore nel quale qualsiasi liquido tu voglia andare
a mettere, dovrai poi farci i conti. In merito al lockdown, dal punto di vista
della sofferenza che c'era in quei momenti e delle perdite anche qui in paese,
è stato drammatico perché era come una fucilazione settimanale, quindi questo è
stato un aspetto che ci ha segnato e in un tempo in cui credevamo tutti, di essere
diventati registi della nostra esistenza, molto supponenti e arroganti in
quanto tecnologici, il dolore ci ha ricordato, invece, una fragilità devastante
per un qualcosa di invisibile e un qualcosa di incomprensibile all'inizio. Dal
punto di vista, invece, della clausura, io devo dire che qui è avvenuto
qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto, sembrava di essere su una nave
famigliare, immersa in un posto bellissimo che era diventato all'esterno un
paradiso, con il lago fermo come uno specchio, un cielo nitido, animali che si
erano rimpossessati del territorio e la vegetazione che la faceva da padrona.
Questo vivere tutti insieme un tempo così lungo ci ha regalato una resistenza
incredibile, perché noi, io, mia moglie e i miei tre figli, eravamo proprio
tutti i giorni a contatto diretto su di una nave, in una lunga crociera. Il
problema era che, se guardavi fuori dalla finestra di casa, vedevi il paradiso,
se accendevi l'altra finestra che era quella della televisione, vedevi
l'inferno… Da un certo punto di vista è stato splendido, il vivere tutti
insieme, magari leggendo libri, giocando, guardando film, riappropriandoci di
un ritmo di vita che avevamo perduto, non avrei però voluto viverlo a quel
prezzo. Però quando l'ho vissuto, sarei stato un'ipocrita se avessi detto che
stavo male. Anche quando abbiamo preso tutti e cinque insieme il Covid, che era
già la variante inglese, stavamo chiusi in casa e guardavamo Sanremo. Non
stavamo particolarmente male, era un'influenza come un'altra e grazie a Dio non
ci ha lasciato segni. Poi sì, è vero che un po’ di strascichi psicologici queste
esperienze le lasciano, perché poi rimani un po’ indebolito da questa cosa. C'è
voluto un po’ per tornare alla normalità, però niente di drammatico e quindi, in
definitiva, l'abbiamo vissuta come dei veri e propri naufraghi ma su una nave
che era ben salda.
La canzone che non c’è, stile
western, narra lo sforzo e la fatica del partorire una canzone ed uso
volutamente il verbo partorire. “Bagna
la tua penna nel catrame del tuo fondo, / se vuoi regalare un pianto mentre
scriverai cantando” mi sembra la sintesi perfetta di questo disco, solo se sai
guardarti dentro con estrema sincerità puoi regalare intense emozioni a chi
ascolterà le tue canzoni? È così?
Hai detto esattamente. È la canzone
che parla dell'inseguire la canzone che non c'è ancora, come il fotografo che
cerca la foto che non ha ancora scattato, il pittore che vuol dipingere il
ritratto che non ha ancora dipinto. In fondo sei sempre alla ricerca di
qualcosa che non c'è, sennò altrimenti sarebbe tutto finito. La canzone che non
c'è è quella che tutti inseguiamo, la preda che non hai ancora preso, il pesce
più grosso che non hai ancora catturato nelle tue reti. Ecco, il pescatore non
andrebbe mai a pescare se non pensasse di prendere il pesce più grande e poi,
anche se quello pescato fosse gigantesco, ne vorrebbe prendere un altro con
altre caratteristiche…
Shandemé è un crogiuolo
di strumenti anche insoliti come duduk, ney, baÄŸlama, suonati da Andrea
Cusmano, una melodia orientale, un ritornello “Scià’n’de mé Regina Del Tütt,
tègnum per la mànn… / Scià’n’de mé Regina Del Tütt, tègnum per la mànn…” che si
fa mantra. Una preghiera, un’esperienza spirituale. Quanto è importante per te
la spiritualità e quanto la natura è elemento portante della tua spiritualità?
Questa canzone penso che, come mantra,
è rimasta negli archivi veramente per decenni e poi gli ho dato una struttura,
gli ho dato un testo. Ho voluto proprio che ci fossero degli strumenti non
riconducibili a noi, a questa nostra terra. Proprio come queste cose un po’ spirituali,
doveva avere assolutamente un suono distante, etnico, lontano, che sapesse di
viaggi incredibili e tante altre cose. È stata una di quelle cose che abbiamo
potuto fare grazie alla collezione di strumenti di Andrea Cusmano e grazie alla
sua capacità di poterli anche suonare. In merito alla tua domanda sulla spiritualità,
io penso che anche nei momenti in cui sono apparentemente distaccato o poco
spirituale, in realtà sto lavorando sempre alla ricerca di spiritualità, come
un camminatore, come un viaggiatore. Ancora oggi, tutte le volte che ho tempo,
mi trovo a viaggiare con determinate musiche nelle cuffie, salendo verso monti
o verso rive, scendendo santuari, vecchie chiese, vecchi templi. Non è tanto la
“religione” ad attrarmi, anche se ho studiato svariate religioni, anche dal
punto di vista antropologico e devo dire che mi affascinano tutte e tutte
contengono un buon tentativo di cercare di crescere spiritualmente, però, è
proprio la spiritualità, invece, quella cosa che cerco, indipendente da quanto
uno sia un belivero, un credente oppure no È però un viaggio che tu devi
costantemente fare. Se io non avessi questa impronta probabilmente sarei già
disperso. Sarei perduto, sarei sotto un ponte fatto solo di dubbio, invece,
tutte le volte che c'è un'apertura, tutte le volte che c'è uno spiraglio per
cercare di volare un po’ più in alto, ci provo. Questa cosa è fondamentale,
anche questo mio continuo indagare su riti, miti, credenze, leggende. Gli
spiriti li vedo o li percepisco ovunque, ma non i fantasmi con il lenzuolo, proprio
l'idea di geist, l'idea di spirito delle cose, anche un po’ shintoista se
vogliamo, vecchi oggetti, ambienti, vecchie case nelle quali sono accadute
cose. È come se tutto fosse lì, anche nella canzone Manoglia lo dice, anche
lì non c'era più nessuno, c'erano solo gatti, però era tutto popolato da
fantasmi, che erano importantissimi perché c'erano stati e perché avevano
caratterizzato il mio passato, la mia infanzia, il mio essere cresciuto in un
paese del genere, quindi, vedi che custodisco tutto inzuppato della stessa
materia, fatta di natura, spirito e alla fine dei conti uomo.
Zia Nora credo
nasca dal desiderio di omaggiare una persona che ti è stata te molto cara.
Musicalmente è una canzone folk alla vecchia maniera, zeppa di ricordi, che si
chiude con i versi “Ma il suo foulard lo sa, mia zia ritornerà / Nei giorni un
po’ a metà, dirà qualcosa piano poi mi saluterà… / Mia zia ritornerà……”. A
volte basta un foulard, un oggetto della persona per farla rinascere dentro di
noi…
Zia Nora è
un'allegra nostalgia. Mentre ti sto parlando ho qui una sua foto e la
percepisco dentro di me. È una canzone che io stupidamente tenevo soltanto per
me, la cantavo qualche volta a mia mamma perché era sua zia, sorella di sua
madre. Questa zia Nora che non aveva mai avuto marito, che era rimasta sempre
quella, uno spirito anche un po’ libero, se vogliamo, aveva lavorato in giro
per il mondo, era andata, viaggiato e mi ha e mi ha trasmesso, nelle lunghe
passeggiate, nelle lunghe giornate in casa sua tutte quelle possibilità del
curvare la realtà con la forza della fantasia, oppure ripescando vecchi miti
vecchi, vecchie abitudini, credenze, cose che potrebbero essere scambiate anche
semplicemente per superstizioni, ma che erano travestite più da rito magico e
queste cose si sono depositate pesantemente sul mio fondo e sono sempre rimaste
lì presenti. Probabilmente zia Nora è stata un'iniziatrice di quella latitudine
un po’ sciamanico creativa, che mi permetteva di co-creare un mondo fatto anche
di cose che mi somigliavano molto da dentro. Laddove non mi piaceva o non mi
bastava una cosa, io lì la battezzavo, la facevo diventare altro. L'essere poi
cresciuto in mezzo a boschi, giardini, montagne, acque, terre, sassi e valli, mi
ha permesso di dare un nome alle entità, a vederle sotto forma di qualcosa che
veniva proprio dal mio profondo. Intingevo davvero il pennello dentro la
natura. Un albero, un semplice platano era diventato per me un un'entità di un
certo tipo con la quale dialogare, guardando se stesse bene, se stesse male,
vivendo a contatto non solo con le persone, ma anche cose visibili e invisibili
della natura.
Quel verso finale “mia zia ritornerà”
mi pare però pieno di fiducia. È così?
È il fatto che ritorna nei giorni in
cui magari puoi avere un problema, i suoi tentacoli spirituali non smetteranno
di sostenerti perché lei c'è stata e fortemente è ancora ancorata al tuo
ricordo, così come lo è mio padre, i nonni o altra gente. In questo caso la
canzone è dedicata a lei e come nel caso del Giuvanon, anche lei fa parte di un
qualcosa che non può essere trascurato.
“E anca incöö…e anca incöö…ghè una
strana canzón / scundüüda nel fiöemm / E ghè un föej de fuschiia che incarta la
löena / e un cùlp de campana sempru püssee luntana…” mi sembrano descrivere
perfettamente quella strana canzone che si intitola Ankainkoo, un titolo
che sembra già un miracolo, una canzone che alterna due parti recitate tra loro
diversissime, al ritornello. La prima narra dell’affannarsi quasi senza senso
delle persone dal momento che si alzano a quando vanno a letto, abbandonandosi
al sonno. La seconda narra di un viaggio in un mondo di boschi, funghi, grilli,
salamandre, immerso nella natura, in un sogno profondo, la vita ideale. Com’è
nata questa bellissima e intensa canzone?
Bravo. Questa canzone è stata scritta
perché tutte le mattine e ancora oggi lo faccio per mia figlia quella più
piccola che ha sedici anni, portavo tutti alla mattina presto alle 06:30 a
prendere la corriera giù in paese, quindi, era il momento in cui vedevi tutte
queste persone intabarrate nel buio, alla ricerca della luce, del bar, del
panificio. Qualcuno stava già fumando la prima sigaretta, il primo caffè e tutti
sembravano palombari appena usciti dal sonno e pronti a dover affrontare una
cosa oscura, strana, che era la giornata. Però la prima parte della canzone
sembra quasi uno sforzo per arrivare a sera, come un'arrampicata durante la
giornata per poi riportare a casa tutto quello che è successo e rinfilarsi in
questo mistero del sonno. La seconda, invece, ti fa vedere come uno potrebbe
vivere la giornata nel momento in cui trasforma, co-crea, come dicevo prima. Perché
ci sono anche quelli, invece, che la giornata non gli basta timbrare, timbrare,
timbrare e portare a casa e fare tutte quelle che sono le mansioni solite. C’è
anche colui che guarda oltre il divino stupore, il divino stupore tipico di
quelli che sono coloro che hanno lo sguardo più aperto verso il miracolo che ci
circonda. E allora ecco grilli, ecco salamandre, ecco tutte queste cose. E alla
fine la canzone lo dice, ecco che sul fondo tutto quello che c'è, questo fiume,
è per chi domani ha ancora voglia di ripartire. Che cos'è il più grande dono
che tu puoi avere? È quello di andare a letto, contento di riposare, il meritato
riposo, si spera sempre di dormire un po’ di ore serenamente, però con idea che
domani tu sei pronto per andare. Quando non hai voglia di alzarti al mattino è
l'inizio della depressione, l'inizio dell'ansia. Io li ho provati questi
malesseri e quindi ho dovuto combattere e tutte le volte, l'unico modo per
proteggersi, per venirne fuori era, con l'aiuto della poetica e con l'aiuto
della visione, guardare al di là di tutto quello che è il cemento che ti chiude
dentro, l'abitudine a dover obbedire a determinati ritmi che diventano per te
sempre più incredibili, Il non riconoscere tutto quello che avviene. Se uno si
basa soltanto sul telegiornale, su un giornale, letto anche distrattamente,
tutti gli input che gli arrivano sono tossici, sono velenosi, perché non ci
sono notizie urlate poi così belle. Però se tu chiudi il giornale e guardi
fuori, anche se abiti in un luogo non naturale, non bello come il lago di Como,
puoi vedere comunque dei piccoli miracoli avvenire, il tuo gatto, un fiore che
sta spaccando il cemento, un piccione che arriva in un certo modo, una persona
che ha attraversato tutta una fila di anni e la vedi ancora che sta prendendo
con una certa fierezza il suo autobus con la sua borsetta della spesa, ci sono
tante piccole cose che ti incoraggiano, se le guardi. Certo, se apri il
giornale, da una guerra passi a un'altra guerra, da una strage in famiglia,
passi a un'altra strage in famiglia. Un mondo che si sta dissanguando anche per
colpa nostra, soprattutto per colpa nostra, governi che non funzionano mai bene,
perché poi comunque noi viviamo sempre appoggiati su due piatti di bilancia, no?
Qualunque cosa si voglia guardare, non saremo mai tutti da una parte del piatto
e questo forse è anche un bilanciamento che serve. Anche politicamente, non
saranno mai tutti a destra, non saranno mai tutti a sinistra. Calcisticamente
non saranno mai tutti dell'Inter, mai tutti del Milan, altrimenti finirebbe il
senso del campionato. Non saranno mai tutti credenti, non saranno mai tutti
atei. Vedi che è sempre tutto bipolare? Tutto si divide almeno in due parti.
Qualcuno è per la natura, qualcuno non ne vuol sapere. Qualcuno vive ancora per
la compagnia, il mangiare, il bere, il sociale, qualcuno per l'isolamento per
cui siamo proprio divisi e questa cosa qui probabilmente è anche la grande
bilancia che ci permette di non di non cappottare. Poi oggi c'è anche il
bastian contrario per partito preso, perché dire che una cosa è semplicemente
bella e accontentarsi di ciò che ci sta arrivando, sembra quasi qualcosa di
scontato e allora bisogna trovare subito il veleno, bisogna trovare subito il
complotto dietro.
A frequentare i social, poi, emerge
solo questo.
Ma i social mi stanno veramente
amareggiando ogni giorno di più. A parte le fake news urlate su tutti i nostri
colleghi dello spettacolo, sembra veramente un mattatoio mediatico solo per
farti cliccare, per farti aprire e per vedere poi una fila di cose che non
dicono niente, piene di pubblicità. Però anche come la gente interagisce. Io
credo che i social, che dovevano servire per unire le persone, per far
ritrovare le persone, sono diventate invece delle piattaforme per duelli di scorpioni
da tastiera. Forse qualche piattaforma è ancora abbastanza libera da questo, ma
altre sono diventate addirittura infrequentabili perché poi sono anche degli obitori
dove, purtroppo, più amici hai e più vedi notizie di persone che vengono a
mancare, anniversari continui e quindi non c'è più il bello di trovarsi, di condividere
una cosa. Io credo che non ci sia niente di male se uno fotografa la
pastasciutta e la vuol far vedere ai suoi trenta amici “quest'oggi un bel
piatto di pasta” e tutti gli dicono “Ah buon appetito!”. È una gran cazzata, però
può far piacere, può far compagnia. Se però uno nella pastasciutta, mette
dentro un po’ di carne, allora ecco che arrivano subito anche i vegani, i
vegetariani o quelli che ti scrivono “Che schifo mangi i cadaveri” e allora
entra quello che scrive “merde, io mangio quello che voglio” e diventa subito
guerra per una cosa stupida. Se tu scrivi “Buongiorno” ti dicono “Buongiorno un
cazzo. Oggi ho già litigato all'assemblea condominiale”, quindi non va più bene
niente e lo sappiamo, è un mondo difficile. Allora lì si capisce la canzone Forsi
per chi ha voglia di svincolarsi da tutto questo.
Veniamo a El mekanik, racconto psichedelico
di uno strano personaggio, un “meccanico che sistema i pezzi che la vita ti
spacca…”. La chiave di lettura credo sia nei versi “sono un segugio e non riesci
a capire se piango o se abbaio, / ma sono bravo a trovare le tracce del male
imboscato, / la mia vendetta non crede all’invidia per chi ha avuto un passato
/ la mia vendetta è farti avere quello che non mi hanno dato...”.
È la storia di tutte quelle persone
che ho conosciuto che, pur avendo avuto un'infanzia magari dura, hanno fatto in
modo di usare tutte le loro forze che avevano in serbo per poter far sì che ad
altri non accadesse la stessa cosa. Qualche volta erano anche medici,
psicologi, qualche volta erano semplicemente persone, operai dell'anima o
persone ben disposte nei confronti dell'aiuto a chi, magari, non aveva neanche
il coraggio di chiederlo. Quelle persone che ti trasmettono forza, una serenità,
una possibilità, quelle che ti salvano anche un po’ la giornata, i riparatori
di un destino. Ho visto gente distogliere persone che erano sulla brutta strada
benché loro venissero da strade ancora più brutte, per convincendole che quella
non era assolutamente la via da seguire, che quella non era assolutamente la
cosa da fare. I meccanici sono stati tanti, io ne ho conosciuti, qualche volta
probabilmente lo sono stato anch'io…
Indubbiamente, anche attraverso le tue
canzoni, i tuoi racconti, le tue poesie, no?
Ecco, io magari non me ne sono reso
conto… C’è un film bellissimo ambientato nel deserto sudamericano, si chiama El
Cristo siego, Il Cristo cieco, è un film dove questo ragazzino che
ha avuto delle visioni mistiche da bambino, sa che un suo amico ha avuto un
problema ad una gamba e non può più lavorare e lui decide di attraversare a
piedi nudi il deserto, lui si sente quasi santo, attraversa il deserto e
durante questo viaggio accadono tante cose. E lui senza rendersi conto solo con
quel viaggio lì, solo incontrando le persone, ha già dato in giro speranze,
cose, situazioni, ma lui ha in mente solo di guarire il suo amico. Andrà da
lui, imporrà le mani, non riuscirà a guarirlo. Torna indietro incazzato e
deluso ed è convinto di non essere niente, di non essere santo e, invece, si
rende conto che sulla strada di ritorno c'è tanta gente che già parla di un
nuovo Cristo che è andato in giro, ha fatto miracoli, ha fatto star bene le
persone e lui si rende conto che ha fatto tutto senza rendersene conto. Ecco, a
volte noi siamo meccanici inconsapevoli, crediamo di non valer niente, di non
essere niente, andiamo in cerca di qualcosa di esaltante da fare per poter fare
qualcosa di buono e, invece, lo stiamo già facendo proprio nelle piccole cose,
ma non ce ne rendiamo conto. Ecco, El Mekanik è proprio una canzone che
poi ha avuto dei suoni psichedelici tali che mi hanno convinto a metterlo
nell'album ed è anche una delle più insolite, ma anche una delle più efficaci
dal punto di vista forse della sua diversità. Proprio perché si parla di un
meccanico che deve entrare negli ingranaggi mi piacevano questi suoni tipici
anche della musica un po’ psichedelica, un po’ progressive, che cambia, e anche
lì vedi che poi alla fine dici ascolto i grilli e loro non smettono mai di trafiggere
il buio, non smettono mai di continuare a mandarti un messaggio e allora il
meccanico è come uno di questi grilli che non smette mai, facendo quello che fa
con il suo transito. Del resto, continua a portare in giro qualcosa che a
questo mondo sempre di più serve, il capire dove c’è il male, spostare la gente
da lì e cercare di rimpastarla. Quanta gente ha spostato dalla droga pur
essendo stata drogata magari o in un ambiente pieno di droga. Ecco, pensiamo,
pensiamo al famoso film Taxi Driver. Questo pazzo, questo Travis che arriva a
casa dal Vietnam, non si trova, è un disadattato, è uno psicosociale, non
riesce ad avere una vita normale e finisce per salvare una giovane prostituta
da un ambiente pazzesco e distruttivo, mettendo quasi a repentaglio la sua
stessa vita. Anche lui è un Cristo cieco. E tante figure come queste.
Mi viene in mente anche Gran Torino.
Gran Torino,
sicuramente, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo. Un pazzo come
McMurphy entra dentro in una in un contenitore di pazzi e fa capire che così
pazzi loro non sono, sono vittime di un sistema che li sta schiacciando. E lui
invece, pur venendo poi annichilito, l'indiano che scappa alla fine è come se
portasse avanti il suo nome e la sua vittoria e questa è una speranza nel
guardare che c'è gente che vola più alto. Quindi adesso noi abbiamo scomodato
la storia del cinema, però queste canzoni sono fatte di poco, ma sono profonde
che ti possono fare entra nel tanto. Il disco è lieve ma ti porta tante
briciole.
Ogni tuo disco si chiude sempre con
una canzone dedicata al vento, qui troviamo Foglie al vento, una sorta
di invocazione a quattro foglie diverse: castagno, salice, sambuco e noce. Una
canzone che ad un certo punto si trasforma, attraverso la ripetizione di nomi
di alberi, in una specie di mantra su un tappeto di musica ambient. Tradizione
rispettata ma con un’apertura, dal punto di vista musicale, verso suoni più
internazionali. Un po’ come tutto il disco, non credi?
Questa è stata una grande trovata di
Alessandro Gioia. Doveva essere semplicemente la parte due della Preghiera
delle quattro foglie, queste erano quattro altre foglie, sempre nate nel
bosco e via dicendo. In questo caso però, cosa è successo? È successo che il
disco quando arriva sul punto di finire non finisce ed è come se non finisse
mai, perché con questa apertura giustamente ambient, che è una musica che io
ascolto tantissimo, ha cominciato a creare un'apertura, è come una sigla finale
per cui l’ascoltatore non ha la fine di un disco classico, ma un mantra sonico
che va… Dobbiamo ringraziare Alessandro Gioia che ha lavorato su tantissimi ai
miei dischi del passato. Alessandro ci ha detto “Adesso mettetevi lì e suonate
liberamente degli accordi strani di chitarra, un po’ di violino, aloni e,
rivolgendosi a me, ha “recitami queste parole di questi nomi di pianta” e
dentro tutto questo ha cominciato a muoversi il tutto e sembrava di vederle
proprio volare via queste foglie nel vento ed era il finale che uno poteva
sognare per un disco del genere.