mercoledì, dicembre 23, 2020

Fabrizio Consoli e la sua personalissima professione di fede

di Fabio Antonelli

Fabrizio Consoli è senza dubbio un cantautore atipico. Per chi non lo conoscesse, grave mancanza, inizia la sua carriera nella musica degli anni ottanta come chitarrista al fianco di diversi artisti di primo piano della scena musicale italiana, quali Eugenio Finardi, Alice, Cristiano De André, Mauro Pagani, PFM e molti altri. Ad un certo punto (1993) pubblica un album che porta il suo nome ed approda così nel 1995 a Sanremo con “Quando saprai”. Non ha la fortuna sperata o forse sì, perché nel 2004 pubblica “18 piccoli anacronismi”, quello sì forse il suo vero esordio nella canzone d’autore. Seguono due gran bei dischi “Musica per ballare” nel 2009 e “10” nel 2016. Tra questi un primo live “Live in Capetown” nel 2012 ed ora il secondo live “Con Certo Jazz - Live from the Heart of Europe” (Vrec / Audioglobe distribuzione), una splendida fotografia del tour seguito all’uscita di “10”, il disco che è stato un viaggio laico all’interno dei dieci comandamenti. Sempre in bilico tra Italia e Centro Europa, un po’ come Pippo Pollina, pur vivendo in Italia, vale la pena sentire cosa ci racconta in merito a questa sua ultima fatica discografica.



Sarà forse per la mia grande passione per la fotografia, per ciò che sa trasmettere, ma un disco con una copertina come il tuo "Con certo jazz" lo comprerei ad occhi chiusi. Perché non ci sono i colori a distrarre l'occhio, perché la foto che ti ritrae trasmette energia, passionalità, intensità e, perché hai scelto un titolo molto significativo, un gioco di parole che è anche un manifesto programmatico? Devo cambiare occhiali o c'è del vero in queste mie impressioni? Poi mi piace quel "Live from the Heart of Europe", in questo momento in cui c'è tanto bisogno di un’Europa, di una Europa di cuore. Ho già detto troppo, lascio spazio a te.

Al di là della comune passione per la Fotografia, direi che hai assolutamente colto nel segno. Immaginare la copertina di un disco è, dal mio punto di vista, un processo fondamentale ... è la faccia che dai al tuo lavoro. Di più. La copertina di un disco dovrebbe, più semplicemente possibile, riassumerne l'anima. Ti confesso una cosa. Sai che le copertine dei miei dischi in studio sono molto particolari. Da anni, per vari motivi, pubblico solo concept album. Bene, molto spesso ancor prima di avere le canzoni che finiranno nell'album, io ho già visivamente chiara quella che ne sarà la copertina, e questo prima ancora di averla, o poterla realizzare fisicamente, solitamente in maniera, direi, empirica … Nel caso della copertina di 10, per esempio, abbiamo dato realmente fuoco all'omino di carta che legge il libro sacro ... Ovviamente, prima abbiamo dovuto costruire sia l'omino che il libro e la sua etichetta. Per quanto riguarda la copertina di Con Certo Jazz, nasce da uno scatto decisamente fortunato (di Jessica Panattoni, per l'ultimo tour in Russia N.d.R.), ed ho difeso subito la scelta di usare sia la fotografia sia la tipica grafica Blue Note degli anni 50/60, con quel suo non so che di sensazionalistico ... Unita all'energia, quasi futurista, dello scatto, si crea un insieme di grande effetto, che a mio avviso calza perfettamente la proposta musicale contenuta nell'album. Questo risulta ancora più evidente nella versione in vinile. E, si, hai ragione, se una bella copertina dovrebbe svelare l'anima di un’opera, il suo titolo dovrebbe esserne la voce, in qualche modo illuminare il senso dell'immagine scelta ... aggiungerei solo che, pur in chiave minimale, un buon titolo dovrebbe anche raccontarti qualcosa del carattere dell'artista, lasciandoti la voglia di conoscerlo di più. Con Certo Jazz, in questo senso, mi piace molto... cosi come il suo “sottotitolo”. Se pensi che si tratta di un Live concepito e registrato a Zurigo - in una Svizzera che non condivide il progetto politico Europeo - pur essendone il “cuore” geografico, capisci che si tratta chiaramente di un messaggio e, insieme, una professione di “fede”.


Fede. Ecco, forse ci vuole anche quella per affrontare un viaggio musicale come il tuo se, come dici all'interno della copertina del disco "Contaminare con certo jazz la mia musica, mi ha restituito la meraviglia di salire sul palco senza sapere cosa succederà". Quanto credi abbiano contribuito i musicisti di cui ti sei circondato a quello che, in fondo, può definirsi una splendida fotografia del tour che è seguito al tuo ultimo lavoro discografico 10, intorno al quale ruota tutto lo spettacolo dal vivo?

Tornando al parallelo metaforico del significato di copertina e titolo per un album, se il front man è per forza di cose faccia e voce narrante - così come energia, traino e denominatore comune - di quando succede su un palco, i musicisti ne sono il corpo. E se ci pensi, immaginare una band come un unicum, spiega i diversi livelli di energia che sa trasmettere così come la differenza, il salto di qualità (così come, a volte la disarmonia) che il cambiare anche un solo membro può apportare al risultato espressivo del gruppo. Non si tratta solo di tecnica naturalmente. Per come concepisco il live, si tratta soprattutto di generosità, e capacità di mettersi in gioco, di osare ... Questa capacità, insieme alla sensibilità necessaria a portare sul palco la propria vita, è in fondo ciò che distingue un artista da un mestierante.  Ed è la cosa che più mi fa apprezzare generi come il jazz, in cui nei suoi momenti alti, non senti differenza tra chi suona, e la voce del suo strumento. Quindi, la risposta alla tua domanda è, e sarà sempre: in maniera totalmente determinante. Ma, va ricordato e sottolineato, che nessuno fa un concerto da solo. Altrimenti si chiama “suonare davanti allo specchio”. Il pubblico, per me, è l'altra metà del cielo 😉 e il concerto si fa sempre in due: noi, la band, più (o contro) loro, l'audience. Il concerto perfetto, a qualsiasi livello, avrà sempre una grande band e un grande pubblico. Sempre.



Poi, ovviamente ci sono le tue canzoni, soprattutto, come si è detto, tratte dal tuo ultimo disco, 10, un concept incentrato sui 10 comandamenti, visti però in un'ottica personale e del tutto attuale. Ti ritieni soddisfatto dell'attenzione rivolta a questo progetto di grande profondità dalla critica italiana? Perché io ho avuto la sensazione che, almeno in Italia, non sia stato apprezzato come avrebbe meritato, ma forse è vero che nessuno è profeta in patria...

A partire dal presupposto che, se nessuno conosce il tuo lavoro, difficilmente potrà farsene un’idea, positiva o negativa che sia, credo di aver imparato a convivere con la convinzione che l'essere apprezzati o non apprezzati, purtroppo dipenda poco dal merito... 10 ha avuto un coro pressoché unanime di critiche fortemente positive, è finito tra i 50 dischi più belli dell'anno per il Tenco, e dalla sua pubblicazione in Germania (Set. 2016) è stato rappresentato per più di 100 concerti. Da noi la critica che ruota intorno al mondo della canzone di un certo tipo, è ormai costituita da giornalisti che fanno leva più sulla propria passione che sulla convinzione che sarà possibile scoprire un nuovo De André e, purtroppo, la possibilità di rompere il guscio che dalla critica porta al grande pubblico, essendo venute a mancare tutta una serie di possibilità mediatiche importanti (parlo di radio e programmi tv musicali), è stata relegata al web ... Ma è illusorio pensare che la rete dia una possibilità a tutti, perché non è così ... Basti pensare come TikTok o Instagram, solo per esempio, facilitino la creazione di video virali, premiando chi asseconda cliché predeterminati e praticamente oscurando chi non lo fa. Capisci che il problema di chi, oggi in attività, non fosse stato già famoso negli anni '90 è ormai quasi radicale, e legato alla portata della proposta musicale e alla velocità con la quale viene consumata, direi bruciata, e dimenticata dal mondo contemporaneo... Una volta arrivare in studio di registrazione e fare un disco era e presupponeva un percorso importante, oggi non è più così. Chi arriva, con grande esperienza, a pubblicare un buon album, si troverà sullo stesso piano del ragazzino che, pur senza una preparazione musicale di qualche tipo, registra un album XY, magari, scimmiottando rappers d'oltreoceano... Ma il ragazzo potrà contare, per esempio, su una grande popolarità scolastica e farà più click e visualizzazioni di chi, senza un buon ufficio stampa (che solitamente lavora a tempo), rischia di non arrivare neppure a far sapere che esiste ... È come se un buon fruttivendolo improvvisamente, sognando di fare l'architetto, siccome la tecnologia lo permette, decidesse, di costruire una casa o un monumento in piazza (o un ponte!) contando sulla sua grande popolarità in paese ... Togliendo possibilità, che so, a un potenziale Bernini in erba. Io credo che l'unione tra un innegabile impoverimento culturale e la presunta democrazia della rete, stia generando una grande aridità.

Quello che dici è verissimo. Però se il web mette sullo stesso piano il fruttivendolo che vuol fare l'architetto e il Bernini. Se Radio e TV trasmettono solo musica commerciale, se un certo giornalismo osanna chiunque abbia successo, se anche l'attività live è preclusa per l'emergenza Covid che via resta da percorrere ad un Consoli che ha un buonissimo album live da fare conoscere? Fare il fruttivendolo? Secondo me tu, prima, parlando della critica hai centrato il tema. Ormai è costituita da appassionati, da visionari, da nostalgici, per lo più quasi totalmente inascoltati al pari dei lavori di cui scrivono, anche perché oggi se scrivi più di dieci righe credo tu abbia perso il 95% di potenziali lettori. Esagero?

… Direi che allora qui ci siamo persi tutto. J Quando distribuivano il dono della sintesi sono arrivato tardi J

Venendo alla possibile via percorribile, se non si inseguono numeri da rockstar planetaria, credo che un mercato esista ed esisterà ancora e che la possibilità, insieme alla capacità, di proporre un live di buon livello, possano ancora fare la differenza. Mi riferisco all'idea che proporsi a un pubblico, al di là dei valori “culturali” che si pensa di esprimere, voglia dire abbracciare la convinzione di fare anche e soprattutto entertainment, escludendo categoricamente l'idea che il pubblico ti debba qualcosa, o che sia un’entità da “prendere in ostaggio”. Ma, e qui entriamo nel vero, grande tema, e cioè quello che veramente manca, perché quasi totalmente estinta: la figura del talent/manager. Quello in grado di costruire un percorso di crescita per i suoi artisti. Di essere realmente un valore aggiunto, cioè, determinante. I manager veri, e ne ho conosciuto qualcuno, erano fondamentalmente dei super appassionati che, armati di talento e di una cultura musicale pazzesca, si erano, nel tempo, costruiti una solida credibilità. Credibilità che veniva messa a disposizione del talento e della sua crescita. Oggi è talmente difficile proporre e far crescere un artista, che questa figura si è trasformata in una sorta di osservatore di quanto succede nel mondo del “preconfezionato”, cioè della musica in TV: i talent. Si, perché in questo modo il lavoro di far “conoscere” un artista, è (o almeno, sembra) già fatto.
Ma far crescere un artista è un altro discorso ... Il discorso è molto più lungo, e non ha senso in questa sede approfondire. Dico solo che l'impressione che ne ricavo è che non ci sia più nessuno o quasi, che abbia voglia di rimboccarsi le maniche e lavorare. Questo in generale, ma soprattutto nella musica italiana - nel cui panorama non esiste neanche uno straccio di piccola scena in grado di produrre numeri dignitosi, in grado di sostenere chi fa il proprio lavoro, cosi come di formare a un palco vero le nuove generazioni - chiude il circuito vizioso in cui ci troviamo a dibatterci, molto prima che a sognare di operare ...



Concedimi un’ultima domanda o meglio duplice domanda. Il concerto in streaming come quello che hai appena tenuto presso la sede della Imagina Production Studio, credi possa essere un buon mezzo per promuovere un disco come il tuo che, per sua natura, è strettamente legato all’attività live e, azzardo, visto che per un musicista una volta pubblicato un disco si chiude un ciclo, hai già in mente qualcosa di nuovo?

Insieme al costituire un’esperienza importante (era la prima volta che davo un concerto in diretta streaming), l'evento agli Imagina Prod Studios è stato un modo molto “intimo” di salutare gli amici e una parte delle persone che, soprattutto dall'estero, segue i miei live e il mio lavoro, spesso affrontando viaggi per niente scontati. Si è trattato di una sorta di “ringraziamento”, uno dei motivi per cui ho preferito non chiedere un ticket di accesso di qualunque genere. Il concerto è stato un successo dal punto di vista della partecipazione, nel giro di 24 ore è stato visto, tra chi era presente alla diretta e chi lo ha poi visto in differita, da oltre 1000 persone. Non me lo aspettavo. Ma più che fornire un supporto promozionale al disco appena uscito (la formazione e l'imprinting sono stati completamente diversi da Con Certo Jazz), ha dato un segnale forte dell'esistenza e della buona salute del “progetto” Fabrizio Consoli... Se vogliamo trovarci un solo, ma sostanziale, grande demerito è che ... non si è trattato di un vero concerto. Vedi, non so quanto il pubblico sia consapevole che, a mio avviso, innegabilmente, non esiste un concerto, grande o piccolo, magico, stupendo o “insipido” che possa senza un pubblico essere: grande, piccolo, magico e stupendo. O insipido ;-) Un eccellente esibizione può essere annientata da un pubblico mal disposto, o disattento, o semplicemente “freddino”. È una questione di energia, che viene a crearsi rimbalzando tra audience e artisti. Laddove questo equilibrio viene meno, per qualunque motivo, c'è un calo di tensione, la band rischia di deconcentrarsi, lasciando ad esempio il front man più solo ... e un concerto da soli in circostanze simili può diventare un peso enorme da tirare. Ecco, tutto questo, semplicemente, non c'era. È stato strano, come abitare una casa senza il piano di sotto, mi sentivo come un pesce in una bolla d'acqua... Ma, in definitiva, in un momento come questo, si è trattato, naturalmente, di un fare di necessità virtù, che è già di per sé stesso indice di vitalità e, per usare una parola molto utile oggi, resilienza. Pur intuendo il potenziale supporto che lo streaming potrebbe dare a un determinato tipo di grandi concerti, credo che, se il futuro della Live Music fosse questo, cambierei mestiere. Perché, se è vero che l'uscita di un disco chiude un ciclo, è nello stato naturale di quel che “dovrebbe essere”, che ne apre uno nuovo. Quello in cui le canzoni, diventano grandi, cominciano a camminare con le loro gambe, e, conoscendo amore o fallimento, diventano sempre qualcosa che non avresti mai detto. Questo, solo grazie a un palco vero.



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venerdì, novembre 06, 2020

Marco Ongaro: Star Trek, un poetico viaggio nel presente per capire il futuro

 di Fabio Antonelli

A due anni dalla pubblicazione dell’album Il fantasma baciatore (D’autore - Azzurramusic) e a un anno dall’uscita del singolo “fuori programma” Hotel Bella Italia, che nel tradurre il classico degli Eagles (Hotel California) ne rilegge in chiaro la smaccata attualità nazionale, Marco Ongaro estrae dallo stesso disco l’estremo singolo Star Trek, video che vuol dare l’addio al denso lavoro pubblicato nel 2018 per annunciare l’avvio dei lavori per un nuovo album prodotto ancora da Gandalf Boschini, per D’autore - Azzurramusic.


Il 6 novembre è uscito il video di Star Trek, ultima traccia, quasi straniante, del tuo disco Il fantasma baciatore uscito ormai due anni fa. Com'è nata l'idea di farne un video e come è stata sviluppata?

Era necessario salutare un album denso come Il fantasma baciatore uscendone dal fondo, attraverso l’ultimo brano, quello che si chiude in farmacia. Ed è da questa farmacia, nella quale due anni più tardi siamo finiti tutti, che riprendo con l’idea di fare un nuovo disco che ci aiuti a uscirne. La casualità profetica del momento creativo è un patrimonio che si rivela utile a profezia avverata. La solitudine che trasuda dal brano, l’elenco delle cose, l’inventario di ciò che rimane una volta a casa, chiusi, senza socialità, è l’apertura di senso che solo ora comprendo si sviluppava nell’apparente chiusura dell’album. Fare un video significa estrarre un singolo. A questo punto la scelta era obbligata.

La canzone è nata da un testo del poeta Nicola Saccomani, cui tu hai rimesso mano e che hai musicato, con una melodia struggente che è un po' come un addio al resto del disco dichiaratamente rock, una melodia e dei versi che esprimono un senso di alienazione. Quel lungo elenco di oggetti quasi dimenticati... insomma un testo che si presta molto a una rappresentazione visiva. Il video alterna immagini in interni a immagini in ampi spazi aperti, dove è stato collocato geograficamente e perché proprio quei luoghi?

Il testo l’avevamo scritto insieme, Saccomani e io, una dozzina di anni prima. Al momento di raccogliere i brani dell’album me lo sono trovato davanti in tutta l’imperfezione di allora. Così ho preso a limarlo mentre lo musicavo, sistemavo versi, ne aggiungevo, spostavo la farmacia dall’inizio alla fine del brano. Poi naturalmente l’ho fatto ascoltare a Nicola, che ha approvato. Il video di Stefania Tramarin l’abbiamo girato tra Ferrara e il Delta del Po. Ci serviva un ambiente che amplificasse la solitudine, un deserto con cattedrali come i dintorni di Porto Tolle, e anche una città poetica come la dimora di Ariosto.


Quell’equipaggio di Star Trek evocato alla fine del brano, che prefigura un viaggio verso mondi sconosciuti, verso l'ignoto, anche se solo attraverso la mente, anche se scritto molto prima che prendesse piede questa maledetta pandemia, mi sembra però trasmettere perfettamente quel senso di alienazione in cui ci siamo sentiti calati un po' tutti quanti. Non credi?

Sì, in effetti l'equipaggio dell'Enterprise stavolta più che scoprire nuovi mondi si occupa di alieni già noti, dietro al banco della farmacia c'è la ciurma che ci guarda. Gli alieni siamo noi, attoniti, rifugiati in un luogo apparentemente protettivo, in cerca di una cura insostenibile, una sorta di ninna nanna ambientale che ci culli fino al sonno eterno. O ci riporti indietro a quando ci credevamo invincibili.

In fondo questo Star Trek, proprio come la nota serie di fantascienza, ha una funzione di traghettatore verso nuovi lidi, hai detto di avere in mente un nuovo disco che ci aiuti anche ad uscire da questa impasse. Come sarà questo disco? Musicalmente segnerà l'addio al mondo del rock? Ma soprattutto riuscirà ad avere in sé quella forza taumaturgica cui tutti ambiscono in questo periodo in cui tutti si sta un po' come d'autunno sugli alberi le foglie?

L'atto creativo è taumaturgico prima di tutto per chi crea. L'energia che si attiva è della frequenza più elevata e potente che esista. Certe mattine mi sento fortunato perché, qualunque casino possa esserci intorno e dentro me, nel momento in cui sono chiamato a creare tutto scorre più rapido e intenso, non c'è spazio per depressioni o ansie. Avere un progetto come un nuovo disco impegna qualche mese nelle sue varie fasi, una più appassionante dell'altra. Certo, abbandoneremo l'impianto rock del Fantasma baciatore per intraprendere nuove vie, come Gandalf Boschini mi sta suggerendo da tempo. E per questo gli lascerò stavolta la mano più libera di intervenire su suoni, arrangiamenti e concezione generale delle canzoni scelte. Sarà taumaturgico anche per il produttore esecutivo, immagino. Che poi sia taumaturgico pure per chi lo ascolta, beh, la speranza non costa molto.

Un'ultima domanda, visto che del nuovo disco, giustamente, hai rivelato poco o nulla. Vorrei tornare su Star Trek, sulla tua collaborazione con Nicola Saccomani. Curiosando in rete, ho trovato davvero poco di lui, ma ho visto che la sua recente scomparsa è stata accompagnata sul suo profilo Facebook da grandissimo affetto. Come è stato il tuo rapporto con lui? Cosa ti ha lasciato?

Nicola era frontman, insieme a Giuliana Bergamaschi e Luca Zevio, dei Ratatuia, mi par di ricordare, un gruppo che ha vinto l'Arezzo Wave anni fa. Un cantautore oltre che un poeta, un uomo ironico, spiritoso, distaccato e partecipe. Tormentato come lo sono i poeti. Nell'autunno del 2005 ci siamo avvicinati a lavorare su dei testi per non so quale suo progetto che non ha più preso piede. Avrebbe musicato lui il tutto, cosa mai più avvenuta, così come i testi sono rimasti fogli con versi sparsi, un po' ricomposti l'uno sull'altro, un po' sul suo quaderno un po' sul mio. Poi ci siamo persi di vista fino a che, in un momento di sua riemersione, nel 2018, ha scritto e presentato un libro di poesie, Scritti urbani. Sono andato al suo recital e gli ho detto della canzone, che l'avevo rimaneggiata ed era diventata Star Trek, ha approvato il titolo e il lavoro. Poi siamo rimasti in contatto per chat, saltuariamente, gli ho fatto avere il disco, mi ha scritto le sue emozioni, positive sebbene la sua concezione musicale e poetica fosse diversa dalla mia. Gli ho mandato il video Hotel Bella Italia e mi ha scritto belle parole anche su quello. Ma le parole più belle sono quelle delle sue poesie, come il distico riportato nel biglietto di ricordo al suo funerale, nell'ottobre del 2019, una poesia che ritrae perfettamente il tono dei suoi versi, la fulmineità della sua visione creativa, l'ironia tenera, al confine dello struggimento ma sempre distaccata: Tra un milione di virgolette / voglio dirti che ti amo.

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mercoledì, maggio 13, 2020

Francesca Romana Perrotta: la lunga quarantena mi ha fatto capire che conta solo ciò che è vero


di Fabio Antonelli

In una di queste sere di quarantena trascorse sul web, mi è capitato di imbattermi in un breve ma folgorante live Facebook di Francesca Romana Perrotta, tenuto dalla cantautrice salentina per "ECO DI DONNA Evolution", la prima Rassegna di Musica d'Autrice made in Rimini, con la Direzione Artistica di Chiara Raggi. Sono rimasto colpito sia da un inedito che, seppure eseguito in maniera casalinga alla tastiera, credo abbia notevoli chance una volta vestito ed arrangiato, sia per la sua interpretazione accorata “Bella ciao” a chiusura della diretta. Per questo ho voluto contattarla e scambiare qualche chiacchiera su questo strano periodo che ci accomuna tutti.



Durante questa lunga quarantena, di cui sembra sempre più difficile vederne la fine, tra i vari addetti al mondo della alla musica ci sono state reazioni molto differenti, c'è chi non se l'è sentita di cantare e suonare perché afflitto da questa tragedia, chi da subito ha reagito organizzando live attraverso i social, chi per scelta non ha voluto fare nulla attraverso i social in attesa di tempi migliori, tu come hai reagito? Come hai vissuto questo primo periodo di forzata clausura?

All'inizio della quarantena ero quasi felice di poter stare a casa. Ho pensato che avrei finalmente potuto scrivere in pace, senza farlo nei ritagli di tempo. Poi il silenzio mi è entrato dentro e non avevo note, non avevo parole... per un mese e più. Dopodiché sono arrivate delle proposte di suonare in diretta, dei piccoli live su Facebook, per i fans. Mi son sentita un po' in imbarazzo... strano per me suonare senza i miei musicisti!!! Una volta iniziato, però, ho visto che mi stavano ascoltando un sacco di persone, emozionate e felici di potermi riascoltare.  Per me è stato puro ossigeno... Mi sono rigenerata. Da quel primo live ho ripreso a scrivere, ne ho fatto un altro e ho capito che non mi sento di fermarmi. Farò musica, comunque, in qualche modo.

È proprio grazie all'ultimo tuo live sul profilo Facebook di Eco di donna, che ho avuto modo di ascoltare un tuo inedito, eseguito da te alla tastiera, un pezzo molto intenso, di quelli che ti entrano dentro sin dal primo ascolto. Quando e come è nato?

L' idea di questo brano, dal titolo Dentro un bar, è nata l'estate scorsa... tra letture su mare, marinai, il mio mondo salentino e persone profondamente legate al mare... un bar, all'incrocio di due oceani.  Che gente può frequentarlo un luogo così?... cosa sta accadendo una notte, durante una tempesta... in questo bar dall' aria felliniana? Sta accadendo qualcosa di speciale: c' è un uomo, seduto al bancone che beve rum e tequila.  È lì da tempo immemore, immerso in una dimensione spaziotemporale indefinita... Lui aspetta. Aspetta il momento in cui Lei tornerà, e quel momento è arrivato. Lui lo sa, ma resta immobile, non si volta indietro, anche se sa che Lei sta entrando in quel preciso istante... Lei sta entrando, lo vede. Anche Lei sa che Lui è assolutamente consapevole della sua presenza.  Lei respira profondamente, sa che nel momento in cui Lui si girerà, non potrà evitare ciò che deve accadere, da sempre.  Sa che cadrà ancora una volta tra le sue braccia... CHI SONO QUESTI DUE PERSONAGGI? Pensate ad una Penelope odierna...un Ulisse contemporaneo... si aspettano da sempre...ma questa volta Lei va direttamente da Lui, a cercarlo nel suo mondo. Una Penelope non più immobile, quindi. E questa volta è Lui che immobile in quel bar, la aspetta da tempo immemore... sapendo che prima o poi Lei arriverà.

Hai citato Penelope e, spesso, nelle tue canzoni ti sei ispirata a personaggi femminili del passato, penso a Salomè e al bellissimo video che hai realizzato, ma anche a Giovanna la pazza. Ma non solo femminili, penso a "Paolo" che adoro, ispirata al V Canto dell’Inferno di Dante, anche se Paolo, in fondo, parla di Francesca... Non credo sia uno sfuggire il presente, ma piuttosto il leggerlo attraverso le esperienze del passato. È così?

Sì, uso storie passate, di donne principalmente, per spiegare che purtroppo alcune dinamiche che ruotano attorno alla vita delle donne, sono sempre le stesse. Nonostante l'evoluzione, le leggi, le rivoluzioni ed i diritti ottenuti... Nel quotidiano, ci sono storie che si ripetono.  Nei secoli dei secoli... in giro per il mondo. Sì, Paolo parla di Francesca da Rimini.  Anzi. Nel brano è proprio Francesca che parla a lui...in una preghiera disperata dall'Inferno dantesco.


E sempre al centro di tutto c'è ancora la donna di Il grido, il brano che ti ha permesso nel 2016 di vincere il premio "Migliore testo" al Musicultura, anche qui una storia che purtroppo si ripete...

Sì, ne Il Grido la storia si ripete, questa volta in modo più sottile, intangibile   ma non per questo meno doloroso... e non ho remore nel dire che si tratta, purtroppo, di una storia autobiografica. Questo a dimostrazione che tutte le donne, anche chi come me lotta da sempre per difendere la dignità ed il rispetto del mio sesso, possono ritrovarsi in situazioni di sofferenza.

Questa tua affermazione mi offre lo spunto per chiederti come hai vissuto, come donna, questa lunga quarantena. Te lo chiedo perché ho come l'impressione che anche in questa occasione a soffrirne maggiormente siano comunque le donne, sia durante la prima fase, sia durante la seconda, dove per chi è tornata a lavorare si è trovata sulle proprie spalle tutta la famiglia, con un vuoto delle istituzioni. O è una mia impressione?

Io sono mamma e insegnante... quindi impegnata a 360 gradi durante la pandemia.  Difficile badare ai compiti e alla didattica online sia mia sia di una bambina delle elementari!! Spiegare ogni giorno che non si può uscire, né vedere gli amici, né andare a danza, etc. Un equilibrio precario ogni giorno tra apparecchi tecnologici e il bisogno di aria, movimento, decompressione... e poi la musica, l'assenza dai palchi, la lontananza dai miei musicisti, le sale prove vuote... Molto sulle mie spalle, tanto... a volte troppo. Ma inevitabile.  Una presa di coscienza e di responsabilità che faranno di questa nuova generazione forse qualcosa di meglio della nostra. Questi bambini stanno vivendo un'esperienza difficilissima che li forgerà, li abituerà al sacrificio e credo che questo sia un elemento necessario per diventare dei bravi adulti.  Forse a noi questo è mancato ed è per questa ragione che siamo un po' più fragili.  Tutto ciò per dire che sto pensando anche ad un risvolto positivo di questa situazione anomala e opprimente.

Tra i risvolti positivi di questa strana situazione c'è forse anche qualcosa che riguardi il tuo futuro dal punto di vista musicale? Nuovi progetti o nuove ispirazioni?

Sto pensando al mio nuovo album da tempo... sembra che questa volta abbia idee più varie... e in questo periodo di "fermo" ho capito che è giusto fare solo ciò che mi sento. Se sarà un album meno omogeneo non me ne preoccupo, sarà vario... e sicuramente sincero  vero. La lunga quarantena mi ha fatto capire che conta solo ciò che è vero.

Trovo molto condivisibile quest'ultima tua riflessione, vorrei chiudere con questa domanda: alla luce di questa dura esperienza che ha coinvolto tutti, c'è qualcosa nel tuo passato che vorresti cancellare? Ma soprattutto c'è nel tuo futuro qualcuno che ammiri particolarmente e con cui vorresti magari collaborare?

Cancellerei molte cose, soprattutto le situazioni troppo difficili e dolorose in cui mi sono infilata senza che ne valesse la pena, infierendo alla fine, su me stessa. Nel mio futuro vorrei solo scrivere belle canzoni sia sola che ben accompagnata. Ultimamente ho collaborato con Simone Cristicchi nella reinterpretazione di Ritornerai di Lauzi. Ecco... lui sarebbe un bel compagno artistico.




Francesca Romana Perrotta su Facebook
Francesca Romana Perrotta su Facebook (pagina pubblica)

lunedì, maggio 11, 2020

Rudy Marra: in apnea, tra "Morfina" e "Ridi Rudy che se non ridi ti rodi"


di Fabio Antonelli

Rodolfo Giovanni Marra, noto come Rudy Marra, originario di Galatina, è stato sin dai suoi esordi discografici nel lontano 1986 con “Telefonami/Prima o poi me la paghi”, un cantautore originale e fuori dagli schemi. In quasi trentacinque anni di attività artistica ha all’attivo cinque album, forse pochi, ma mai banali, in cui sicuramente non ha mai voluto rifare sé stesso e nel quale non mai avuto paura di dire la propria su tutto e tutti. Tra questi album poi, delle opere letterarie altrettanto interessanti. Proprio in questi giorni di forzata clausura mi è balzato poi all’occhio un suo post intitolato “Salvate il soldato musica!”. Da qui il desiderio di scambiare quattro chiacchiere con lui.



Direi di partire, come d’accordo, da questa situazione anomala, da questa infinita quarantena impostaci dalle istituzioni. Tra gli artisti c'è chi ha deciso di reagire con dirette Facebook, live virtuali, chi con aperitivi e cantate dai balconi e chi, invece, non ha più voluto cantare o, perché addolorato, o per protesta, ritenendosi dimenticato da questo stato. In mezzo ai due estremi una lunga serie di sfaccettature. Tu come ti poni, quale è stata la tua reazione?

Crocodile rock, sarebbe il pezzo giusto per questa situazione. Insopportabili i piagnistei degli artisti dimenticati dalle Istituzioni. Fino a ieri dove eravate? Qui mi riferisco soprattutto a quelli che contano, agli "Dei del microfono", insomma quelli che riempiono teatri, palasport, Stadi. La loro potenza mediatica e "contrattuale" li avrebbe dovuti portare già da tempo a fare brutto muso ai politicanti di turno per richiedere garanzie, assistenza, albo professionale, previdenza e quant'altro! E invece, il più delle volte, di riffa o di raffa, con i governanti e i loro derivati (gruppi economici, banche, giornali, tv, radio, multinazionali discografiche...) i suddetti Dei microfonati avevano di che spartire e quindi silenziosamente accondiscendenti. Gli altri, i canterini dei club, delle date sottocosto, dei ricattati da "quanta gente mi porti?" possono fare poco, anzi niente per essere onesti, se non far finta di avere uno spirito di corporazione mai esistito e così approfittare della situazione per avere il pretesto di mostrarsi e farsi sentire in qualche performance video musicale, nella maggior parte dei casi di scarsa qualità e gusto. Il silenzio è impossibile, è una finta presa di posizione alternativa, se tu non suoni ci sarà qualcun altro disposto a farlo, senza contare tutti i canali dove la musica non puoi fermarla. Per quel che riguarda i balconi è un discorso ancora più ampio, si toccano situazioni sociali e addirittura antropologiche, come il fare gruppo per paura di essere soli, associarsi per solo interesse davanti alla fiera malefica, alla bestia feroce... Va da sé che tutto ciò non ha nulla a che fare con la musica, una situazione spinta dai media e probabilmente da chi ha interesse a tenere compatta la popolazione in un momento di disgregazione, letale per chi gestisce il potere, facendo leva sui sentimenti e in particolare la paura! A me personalmente fanno cagare (se si può dire se no trova tu un sinonimo) tutti i "canti" di massa, che siano Volare, Bella ciao, Il cielo è sempre più blu oppure 'O sole mio ... Io non mi sono neanche posto il problema di che fare in questa situazione, ho sempre fatto quello che mi andava di fare, se ho voglia di suonare e cantare lo faccio, se mi va di stare in silenzio metto in mute, senza dover dar conto a nessuno. Potrei chiudere la risposta col verso di una mia canzone mai uscita su un disco ufficiale che però è parte di un bootleg live registrazione di un tour veramente underground del 2011 in cui cantavo "Si fa presto, si fa presto a farsi fottere!".



Direi che la tua conclusione non fa una piega. Hai citato un bootleg di un tour underground del 2011. So che ti sei sempre mosso per sentieri alternativi, spesso impervi, ma credo anche ricchi di soddisfazioni. Gli anni trascorsi dal tuo ultimo disco ufficiale "Sono un genio ma non lo dimostro" sono ormai tanti. È una strada che non vuoi più percorrere o, invece, qualcosa bolle in pentola?

Dopo l'uscita di Sono un genio ma non lo dimostro (Alabianca/Warner 2007) e un paio di anni di live per promuoverlo, la mia strada musicale ha preso una direzione inaspettata anche per me e, se vogliamo, in un certo senso incredibile. Ad un certo punto mi sono accorto che non ne potevo più della musica che mi circondava, la mia e quella degli altri del panorama italiano e spesso anche internazionale, non solo da un punto di vista tecnico musicale, ma anche proprio concettualmente. Sinceramente non sopportavo neanche tutto il contorno della musica nostrana, radio, giornalisti, musicologi, festival e premi d'autore, tradizione cantautorale vecchia, finto rock travestito da alternativa e tutta una serie di cose per me insopportabili, come paragoni, riferimenti costanti al testo poetico e meno poetico, accuse di non avere come altri una linea musicale ben individuabile, come dire che non facevo sempre la stessa canzone rigirata a mo’ di frittata, insomma, per auto citarmi, non ero mai stato "né pop, né rock, né jazz...". Cancellare tutto a parole è facile, in pratica è cosa complicata. Così sono partito da quello che mi pareva più naturale facendo musica, cioè sentire suoni diversi, magari utilizzare strumenti non usuali, non convenzionali. Deciso che la cornamusa era troppo difficile da imparare in breve tempo e che di elettroniche sofisticate capisco zero, mi sembrò più che naturale rivolgermi agli strumenti a corda che da sempre suono.  Una specie di tabula rasa della musica moderna mi ha portato a ricercare nel mondo primordiale, una indagine di suoni primitivi, in terre africane, in popolazioni non gravate da architetture armoniche e melodiche di cultura occidentale, ritmo e vibrazioni per stringere, suoni viscerali. Le corde di budello animale, le percussioni, il suono profondo di corni e di casse toraciche con emissioni basse baritonali, un mondo magico, psichedelico, rotolante "rock", l'origine di tutto alla fine, del blues e quindi di tutti i generi che poi si sono succeduti, tutto partiva da lì. Così smontai prima le due corde più sottili della mia chitarra, poi anche la terza corda (il sol) e cominciai a suonare come un misto di chitarra e basso.... Vado più in fretta che posso; cominciai a creare, grazie ad un amico liutaio, uno strumento elettrico a 3 corde che chiamai bassarra (ora sono arrivato ad un basso a due corde) con l'uso dello slide. Non solo il suono ora era diverso, ma cambiava proprio il concetto di fare musica, suonavo bi-corde, potevo accordare in maniera diversa per creare armonizzazioni e via dicendo. In questa maniera non aveva senso continuare a pensare alla canzone così come avevo fatto fino a quel momento, quando suoni ritmico, quasi percussivo, non puoi più permetterti di non esserlo anche con le parole, anzi con i suoni che emetti e non avere le corde sottili ti impedisce di fare melodia intesa come i soli, accenti vari e a tutto questo devi sopperire con la bocca e quindi anche con quello che dici. Lo so che forse non è di facile comprensione ai non addetti e forse è anche complicato da sentire la differenza, ma è un mondo totalmente diverso. Non me ne fregava più nulla delle parole, anzi le parole erano pesi superflui, ostacoli alla musica, questo non vuol dire che i concetti non erano forti come e più di prima, solo che cominciavo a superare il birignao retorico e stantio della canzone d'autore italiana. Da lì è stato tutto un crescendo fino a un episodio un po’ magico. Chiamai un amico e musicista che già aveva giocato con me, un trombonista, e gli spiegai che avevo voglia di mettere su una band con queste caratteristiche per fare un genere alternativo, con suoni ipnotici, cupi, ma ritmico, con vibrazioni ed energia, mi pareva che una chitarra a tre corde un trombone e una batteria fossero l'ideale. Da grande jazzista, ma anche da sperimentatore accettò volentieri e con un batterista cominciammo a provare e nacquero Rudy Marra & the M.o.b. (Member's of band) e fu lì che successe la magia. Un giorno Simone (Simone Pederzoli trombone ndr) durante alcune prove mi nominò una band che in qualche modo aveva un percorso simile a quello che stavamo facendo, si trattava dei Morphine, band cult americana degli anni '90, un alternative rock proprio da loro definito low rock. Io, sinceramente, non li conoscevo o forse avevo sentito qualcosa di passaggio, quindi andai a ricercare nella rete. Sconvolgimento totale, mi sembrava di vedere e sentire, in un certo senso, il mio sogno, i miei pensieri musicali, concretizzarsi, diventare reali, fattivi. Non conoscevo la storia del leader bassista (a due corde!) Mark Sandman e scoprire che era scomparso nel 1999 proprio in un tour in Italia mi prese ancora di più. In breve cercai il contatto dell'altro carismatico fondatore della band, il sax baritono Dana Colley e sarebbe troppo lungo raccontarlo ora, ma alla fine, nell'estate 2011, da Boston lui si unì a noi in Italia per una collaborazione musicale e direi spirituale che da quel momento mi ha preso totalmente. Lo so che è lunga la storia, ma non potevo spiegare altrimenti come poi, qualche anno dopo, siamo andati a finire in uno studio di registrazione di Roma, il Diapason, il cui sound engineer Simone Satta ha voluto diventare il produttore del progetto di Rudy Marra & the M.o.b. feat Dana Colley che dopo due anni e passa di registrazioni è pronto e caldo. Il problema è ora come, con chi, quando uscire, vista la situazione di decomposizione cadaverica della discografia italica. C'era una bozza di idea di uscita per il 1° maggio, ma come sai tutto è saltato per pandemia. Posso solo anticipare che si tratta di un concept album di 16 tracce dal titolo Morfina, un viaggio nel bisogno umano di trovare rimedi efficaci per i nostri dolori, fisici e dell’anima, senza correre il rischio di diventare dipendenti da qualcuno o qualcosa, insomma niente di stupefacente, pur essendo un disco assolutamente stupefacente! Musicalmente la vecchia strada musicale è per me superata, d'altronde se si vanno a sentire attentamente i miei dischi precedenti non era affatto una strada precisa, mi ha sempre annoiato rifare le stesse cose, con stessi schemi fissi, non amo neanche nella vita normale essere catalogato e schedato. Certo capisco, da tante dimostrazioni di affetto che ricevo, che quel mio passato è incancellabile, ed è giusto che sia così anche solo per i grandissimi musicisti che hanno lavorato e hanno collaborato con me nei miei lavori, per questo, oltre al nuovo disco, ho deciso di fare qualcosa per accontentare chi è ancorato al mio passato, però l'ho fatto scrivendo un recital dove ci saranno alcune di quelle vecchie canzoni, un attore sul palco e forse io farò da colonna sonora dal vivo. Anche in questo caso doveva concretizzarsi il tutto questa estate con qualche giro di prova, poi sappiamo il guaio successo... Aspettiamo fiduciosi... il titolo del recital? Ridi Rudy che se non ridi ti rodi che mi pare giusto per il momento.



Una storia fantastica direi, da farci un documentario, aspetterò fiducioso. Ma la tua attività letteraria, invece, rimarrà un episodio unico il tuo romanzo L'utente potrebbe avere il terminale spento? Perché credo che tu di cose da dire ne abbia parecchie, magari non gradite a tanti, ma sempre originali e contro mano, no?

Intanto ti/vi faccio sapere che i romanzi sono già 2, nel 2015 è uscito per Zona ed. "Le facce" un romanzo, meglio un racconto breve, che parla di incomunicabilità, con i suoi vari risvolti. In cassetto ho già pronto altro materiale letterario, ma, come per i dischi, anche nell'editoria finché non sei nel giro che conta è meglio aspettare il momento opportuno, per poterti almeno gestire da solo una promozione che sia un minimo degna, almeno farlo sapere ad una ristretta cerchia di amici, conoscenti, magari fare avere il libro  brevi manu a quelli che vengono a sentirti suonare, insomma non è un caso che anche tu non sapessi della mia seconda pubblicazione (suppongo sia ancora in vendita in rete). Aggiungo solo che il disco praticamente ultimato di cui ti ho accennato prima, "Morfina", ha molto a che vedere con le pagine scritte, non a caso il titolo ha vari riferimenti, un po’ gioca con la partecipazione di Dana Colley dei Morphine,  ovviamente il tema trattato, cioè, come ripeto, il tentativo vano di trovare rimedi istantanei al nostro mal di vivere, così come ci potrebbero illudere le droghe e, infine, anche, forse soprattutto, perché è un richiamo a Morfina, un racconto di Michail Bulgakov e, proprio come in quello, ogni canzone che compone l'album è presentata da un breve scritto, come fossero appunti giornalieri di un diario personale tenuto nell'arco di un anno intero, un anno in cui il protagonista lotta con il suo male, i suoi ricordi, la ricerca di una felicità risolutiva, un cadere e rialzarsi continuo, fino alla morte, al suo stesso funerale a cui partecipa serenamente come se tutto il percorso doloroso non fosse stato altro che paura di quell'evento finale, il paradosso base della nostra sofferenza umana, quello di nascere solo per morire. Però il diario racconta anche che la vita non è una linea retta, un punto A che arriva a un punto B finale, ma un cerchio che magicamente ricomincia, senza soluzione di continuità. Come vedi non so neanche io se ho fatto un disco di canzoni oppure un libro che suona.


Credo che non abbia alcuna importanza etichettare ciò che si produce, il voler poi incasellare un artista è, in fondo, il mal celato tentativo di toglierli libertà. In tutto questo lungo percorso che, proprio perché fuori da ogni logica di mercato e lontano anche dalla cosiddetta musica indipendente, sembrerebbe vederti isolato da tutto e da tutti, in realtà ci sono state collaborazioni musicali con altri artisti, penso a Tosca, a Cristiano De André, Giusy Ferreri, Paolo Belli. C'è qualcuno nel panorama italiano con cui vorresti, invece, collaborare all'interno di un tuo progetto discografico? Un po' come avvenuto con Dana Colley?

La risposta è semplicissima, Eugenio Finardi, il pezzo è già pronto, è il rifacimento, anzi uno stravolgimento di un suo classico, anche questo farebbe parte del nuovo progetto, il contatto c'è già positivamente stato, ma ovviamente finché non si concretizza discograficamente non posso coinvolgerlo più di tanto.

Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata con uno sguardo al futuro, non tanto del mondo discografico che, forse è già morto e sepolto, però sentiti libero di dire la tua sul suo stato di salute, ma soprattutto su quello di Rudy Marra artista a tutto tondo. Mi sembra che di carne al fuoco ce ne sia parecchia, come vedi la tua fase 3?

Parto immediatamente dal fatto che ti ho fatto sapere di miei progetti discografici, letterari, teatrali quando ancora nulla è sicuro, magari nessuno sarà interessato a pubblicarli o a farli andare in scena, cosa che qualche anno fa non avrei mai fatto nemmeno sotto tortura, almeno fino a quando non fossi stato sicuro di date, uscite con tanto di firme e controfirme contrattuali, questo proprio perché è saltato tutto, ormai ci sono praticamente solo autoproduzioni svincolate da qualsiasi contatto con il mercato, perché il mercato non esiste più o, quanto meno, si è ridotto a gestione di "personaggi televisivi" che hanno scadenze annuali, quei pochi (o molti, a secondo dei punti di vista) che galleggiano nelle major, parlo dei partecipanti ai Talent, quelli che fanno Sanremo nell’anno in corso, vecchi leoni nelle riserve di programmi tv Rai e super big prima dell'ennesimo tour estivo nelle arene, Stadi etc. Poi c'è tutto un sottobosco di cosiddette etichette indipendenti che sfornano artisti a ripetizione, con lo stampino e con un nome strano,  replica della replica della replica dei De Gregori, De Andrè, Rino Gaetano (ovviamente, per dati di fatto, replica del peggio), fino al fenomeno rap / trap con le sue varie accezioni, un elenco di nomi inutili che vanno ad ingrossare il panorama già troppo saturo. Nulla contro nessuno di questi generi, né contro alcuno di questi artisti, ricordo sempre che quelli della mia generazione di tendenza rock “schifavano” a prescindere la “musica da discoteca”, poi negli anni ci siamo accorti che dentro quella marmellata c’erano anche cose fortissime, The Chic, Earth Wind & Fire, Kool & the Gang… il problema sta nella testa di questo sistema marcio, di quelli che sono a capo, direttori artistici, manager, impresari che per incapacità o per esigenze di semplice fatturato imposto hanno stravolto il mondo musica portandola da dimensione prettamente artistica a dimensione “ufficio di collocamento per lavori alternativi” e accordi economici con gruppi editoriali extra-musicali. La mia fase 3, come per tutti, dipende purtroppo da questa situazione anomala: gli spazi nella discografia sono ristretti, anzi stitici, risicati i modi per promuovere un progetto, relegati per lo più alla rete e a circuiti digitali che hanno imbastardito l’educazione musicale, si tratta per lo più di vendere immagine, video da cliccare, insomma tutto è delegato alla capacità mediatica, a essere parte attiva dei mass-media, che poi vuol dire essere massa, ossia carne tritata, poltiglia da consumare. Resterebbe il circuito live, naturalmente club, associazioni culturali, qualche illuminato gestore di eventi e festival, ma, anche qui, ancora prima del Covid-19, la situazione era già disastrata, sempre più legata alle esigenze degli oberati conduttori, incassi, vendite delle bibite e dei panini e, quindi, spesso diretta e guidata dalla precedente esposizione mediatica, il cane che si morde la coda insomma. Bisogna essere chiari, il modo di fruire della musica, un po’ per tutto quello appena detto, ma anche per altro, è cambiato radicalmente: di questi artisti che hanno milioni di click in rete i loro fan conoscono a memoria la canzone, conoscono bene il look, gli argomenti che tratta, e basta. Chi ha suonato la chitarra nel suo disco? E la batteria? Ma c’è una batteria vera in quel disco? E la chitarra che sembra una chitarra è una chitarra davvero? Ma c’è qualcuno che suona ancora un qualsiasi strumento in questi dischi? Una volta non era così, la musica non era solo una canzone da sentire, era una storia da vivere, si viveva anche quello che accadeva dietro il proscenio, il sudore del batterista sui tamburi, le evoluzioni del chitarrista, bassista, pianista, chi era il produttore, la casa discografica etc. E si conoscevano le vite dietro quel prodotto, il sangue, compreso i vizi e le droghe usate. L’mp3 e la digitalizzazione hanno omologato la musica, tutto suona uguale, più o meno, questa compressione audio serve ai grandi gruppi (Apple, Windows…) a mettere infinite quantità di materiale nei loro dispositivi lanciati sul mercato (pc, smartphone, ipod…), quantità non qualità! Le radio devono suonare musica che abbia bit e bassi adatti agli impianti di ricezione. La musica si dice è diventata più democratica, tutti possono fare in casa un disco, un video clip e sbatterlo in rete e sperare nella buona stella, nel colpo di fortuna e lavorare per costruirselo. Si sa, il potere al popolo, la demo crazia, è sempre stato un inganno organizzato da pochi, dai tempi delle Polis ateniesi, basterebbe leggere La Repubblica di Platone e arrivare alla Fattoria degli animali di Orwell.  Io non ho mai pensato di fare musica per lavoro, a dire il vero ho perso tante occasioni perché non mi è mai andato molto di essere costretto per forza ad andare in giro a cantare, ho sempre fatto dischi o libri e sono andato a promuoverli da solo quando avevo voglia di dire la mia, di dire ad altri come vedevo il mondo in quel preciso momento. Questo è quello che continuo a fare, se e quando usciranno per il pubblico i miei nuovi progetti sarà mia premura cercare di farlo sapere a più persone possibili, nonostante gli ostacoli mediatici suddetti e, come sempre, chi già mi segue mi ritroverà, qualcuno che non mi conosceva mi conoscerà e a chi non interesso continuerà a non sapere della mia esistenza, almeno per il momento, perché la musica, digitalizzazione o non digitalizzazione, incapacità dei discografici o meno, a volte è talmente magica che arriva da sola dove le pare. L’unica cosa che sinceramente mi auguro è la possibilità di tornare a suonare in giro insieme ad altri musicisti compagni d’avventura, perché col tempo mi è venuta voglia di salire sui palchi, grandi o piccoli che possano essere, davanti a tanta o poca gente non è un problema che mi assilla più di tanto. Come dal tema trattato nel mio ultimo lavoro ancora inedito, io non voglio dipendere e non m’interessa che altri dipendano da me.




giovedì, maggio 07, 2020

Setak: “Blusanza” Zitta Zitte spunta un grande disco


di Fabio Antonelli

Quasi un anno fa, di questi tempi, uscì un disco che mi colpì molto da subito, si trattava di “Blusanza” del chitarrista e cantautore abruzzese Nicola Pomponi, in arte Setak. Un titolo originale, un dialetto, quello abruzzese o meglio di Penne, poco utilizzato nell’ambito della canzone d’autore e undici tracce che per la qualità dei pezzi sarebbero potuti benissimo essere undici singoli. Un disco d’esordio di grande maturità. È passato ormai un anno, lo ascolto ancora con piacere e, grazie anche a questa quarantena, ho pensato bene di andare a disturbarlo per una chiacchierata.



Questa emergenza coronavirus, la conseguente quarantena impostaci, per molti è stata anche motivo di riflessione sulla propria vita, sulla propria attività. Tu, personalmente, sei reduce dal tuo primo disco Blusanza, se dovessi fare un primo bilancio di questo esordio discografico che conclusioni trarresti?

Si, devo ammettere che la quarantena è stata anche una preziosa occasione per riflettere. Riguardo al disco sono davvero felice di come sia stato accolto. Essendo un progetto con un percorso tutto suo, mi dispiace che si sia fermato tutto perché stavano succedendo cose importanti proprio in questo periodo. Non ci resta che prendere il buono da questa situazione (e di cose buone ce ne sono molte) ed avere molta pazienza.

Ecco, credo valga la pena di parlare un po' di questo tuo primo disco che appena ho avuto tra le mani mi ha colpito sia per il titolo quel Blusanza che è un neologismo che unisce il blues alla transumanza, sia per la copertina che ti ritrae trattenuto desiderato da mani il cui colore tradisce origini diverse. Mi piacerebbe che mi spiegassi queste scelte comunicative.

Sì, l’idea era quella di trovare un nome che riuscisse a riassumere il concetto del disco che è nato dall’esigenza di sintetizzare tutte le mie esperienze musicali e umane, il rapporto con la mia terra e con il mio dialetto, tutta la musica con cui sono venuto a contatto. Blusanza, ovvero blues e transumanza, sentimento e appartenenza, è una miscela di influenze musicali (il blues, imprescindibile per la mia formazione che ho mischiato ad altre realtà musicali di varie parti del mondo). Su tutto questo ho innestato il dialetto della mia terra adeguandolo espressivamente a una mia personale esigenza di intimismo. Per quanto riguarda la copertina c’è da dire innanzitutto che è stata un’esperienza fortissima. Volevo qualcosa che traducesse in un’immagine il concetto di esperienza. Ho immaginato a delle mani su di me che rappresentassero la storia, i luoghi, le esperienze della mia vita. Poi ci sono io con l’espressione di uno che accetta con serenità tutto questo. È stata scattata a Lione dal mio amico fotografo Jacopo Butticè il quale, dopo avergli comunicato l’idea, si è occupato di trovare persone di diverse etnie ed età. Io ovviamente non conoscevo queste persone e volevo che fossi toccato e anche infastidito. Dopo i primi momenti di timidezza e imbarazzo, mi hanno letteralmente torturato. Si era creata una situazione surreale, non potevamo comunicare verbalmente per via della lingua ma c’era un’energia bellissima, giornata memorabile.



Dire che per via della lingua non potevate comunicare e scegliere di usare il dialetto per il tuo primo disco potrebbero sembrare una contraddizione. Il dialetto in campo musicale è per te un ostacolo alla diffusione del proprio mondo musicale o, al contrario, un arricchimento, il creare un legame stretto, inscindibile, con le proprie radici?

Si è vero, ho scritto che non potevamo comunicare verbalmente ma ho anche scritto che si era creata un’energia bellissima, memorabile. Questo è esattamente quello che vorrei succedesse con la mia musica. Io credo che il dialetto, almeno nel mio caso, non sia un elemento determinante ma semplicemente un pezzo del puzzle. Nelle mie canzoni parlo al mondo, racconto di cose in cui potrebbero rivedersi tutte le persone di qualsiasi parte del mondo e come mezzo di espressione ho usato la mia lingua d’origine, l’abruzzese.

Ricordo bene che il disco è stato anticipato dal singolo Alé Alessa’ con un video bellissimo, direi surreale, in cui tu sei su un ascensore e ad ogni piano si aggiungono strani personaggi, ognuno reclama spazio, ma ad un certo punto da delle borse porta strumenti vengono estratti come per magia chitarre, banjo, tamburelli e la musica sembra mettere tutti d'accordo in un clima festoso. È un po' quel messaggio di cui si vuol fare portavoce il disco stesso?

Si, prima dell’uscita del disco sono stati pubblicati tre pezzi e Alé Alessa’, in effetti, è stato l’ultimo. In realtà non ho mai pensato a questo e non ho questa presunzione però se a qualcuno dovesse trasmettere questa sensazione, ben venga!



Magari per qualcuno lo è stato, come accade nel video. Anche durante questa lunga emergenza ho notato che la musica per tanti è stata di aiuto. Le dirette Facebook, il cantare sui balconi ne sono degli esempi eclatanti. Non dico che un disco possa salvare la vita, ma un buon disco come il tuo può sicuramente renderla più piacevole. Se dovessi scegliere una canzone del disco cui non rinunciare per alcun motivo al mondo, quale sarebbe? E per quale motivo?

Cattiveria pura! Questo tipo di domande mi stendono, troppo difficile. Sarebbe come chiedere a un padre quale figlio salvare. Se mi chiedessero di salvare una canzone del disco in cambio della vita sceglierei molto probabilmente Dumane ha ‘ggià ‘rrivate. In quel pezzo c’è tutto.

Bellezza pura, in questa risposta c'è davvero tutto l'amore paterno per la propria creatura. Restiamo ancora al disco e precisamente al nuovo singolo appena pubblicato in questi giorni, ossia Pane e 'ccicorje, il cui tema è decisamente in tema con la separazione imposta in questa lunga quarantena. È nato con il contributo dei tuoi ammiratori se non sbaglio, mi racconti genesi del brano e del video appena realizzato?

Si rispondere non è stato facile perché questo non è uno di quei dischi in cui ci sono due singoli e il resto messo lì per riempire il vuoto. Ogni brano ha avuto una storia unica a cui ho dedicato tutto me stesso. Prima di parlare del nuovo disco (evento ovviamente rimandato) volevo porre l’attenzione su quei brani del disco che non hanno avuto la visibilità degli altri. Il primo è appunto Pane e ‘ccicorje (che casualmente tratta di un tema molto in sintonia col momento che stiamo vivendo) di cui avremmo dovuto girare il video proprio nei giorni dell’emergenza. A quel punto abbiamo chiesto aiuto ad amici, fan ed a tutti quelli a cui avrebbe fatto piacere partecipare. A mio avviso ne è uscito un lavoro davvero bello, mi sono emozionato la prima volta che l’ho visto.



Che sia proprio come dici tu, lo dimostra il fatto che nel gioco al massacro tu, sebbene a malincuore, abbia scelto di salvare la canzone che chiude il disco, segno che non si tratta di un riempitivo ma forse il brano che più ti rappresenta. Personalmente adoro Zitta zitte, sarà forse perché in quell'espressione sembra stare racchiuso un modo di pensare tipico degli abruzzesi, quel sottrarsi dai riflettori anche quando invece meriterebbero di essere illuminati dall'occhio di bue, un po' come quell’artista che ha scelto di chiamarsi Setak. Sarà forse il nuovo singolo?

Si, dici bene. Zitta zitte forse è il pezzo che più di tutti parla ai miei conterranei. Più che altro descrivo personaggi e situazioni molto frequenti nei contesti di paese. Un altro aspetto che hai colto sono i modi di dire come appunto “Zitta zitte” che caratterizzano il pezzo. Infatti quando uscì la canzone molte persone mi hanno chiesto a quali personaggi reali mi fossi ispirato e ovviamente questo rimarrà un segreto! Sicuramente sarà, se non il prossimo, uno dei pezzi su cui metteremo l’accento nei prossimi giorni. Riguardo al discorso sui riflettori devo ammettere che il progetto non aveva questo come obiettivo primario ma un’eventuale maggiore attenzione mediatica non la disdegnerei.

Per chiudere il discorso su Blusanza, ad inizio intervista hai detto di essere rimasto molto dispiaciuto che questa emergenza coronavirus abbia impedito lo svolgersi di alcuni eventi legati all'evoluzione del progetto, cosa stava bollendo in pentola?

Beh, oltre ai diversi concerti che non vedevo l’ora di fare in posti molto belli ci sarebbe stato l’evento più importante, ovvero l’uscita del secondo album.


Forse è prematuro parlarne, ma hai anche fatto cenno ad un nuovo disco, credo che guardare al futuro sia un'iniezione di fiducia per tutti. Mi dici qualcosa di più sul prossimo progetto?

La prima cosa che mi verrebbe da dire è un po’ quella che dicono tutti gli artisti prima dell’uscita di un loro lavoro. Sarà una bomba! Autoincensamenti a parte devo dire che sono davvero contento e non vedo l’ora di farlo uscire. Se dovessi trovare una diversità con il primo, questo è decisamente più estroverso e le tematiche hanno un valore ancora più universale. La cosa certa è che lo spirito è rimasto lo stesso del primo album.




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sabato, maggio 02, 2020

Rocco Rosignoli: “Canti Rossi”, perché il rosso è il colore dell’amore


di Fabio Antonelli

Il 20 aprile è uscito “Canti Rossi” il nuovo disco del cantautore e polistrumentista parmigiano Rocco Rosignoli, un disco che sin dalla copertina e dal titolo non lascia dubbi sulle tematiche e gli intenti dell’intero progetto che raccoglie ben quindici tracce, di cui l’undicesima è “Gappisti”, un inedito scritto per l’occasione dallo stesso Rosignoli. Il disco si dipana lungo un arco temporale di cento anni, con una varietà di arrangiamenti a dir poco sorprendente. Credo sia il caso non solo di ascoltarlo con attenzione, ma di addentrarcisi con il suo aiuto.



Proprio in questi tempi di paure, di incertezze sull'avvenire, sei uscito con un disco "Canti Rossi" che sin dalla copertina si schiera apertamente. Sono rossi i canti, è rossa la copertina, che nella sua semplicità, con quel sole nascente mi ha fatto tornare in mente quel sole posticcio che sorge nella scena finale di Palombella Rossa, ha ancora senso questo sole dell'avvenire?

Per cominciare, devo dire che tutta la mia attività di musicista è quella di un uomo apertamente schierato, e che non fa mistero di esserlo. I canti di questo disco sono rossi, oppure rossoneri: io sono comunista, ma ho una forte simpatia per i compagni libertari, che oltretutto possono vantare canti meravigliosi e che gli invidio molto. Addirittura alcuni canti sono patriottici, nonostante io sia un internazionalista! La tua domanda sul sole dell'avvenire è piuttosto complessa. In primis: il buon Nanni Moretti non ha mai avuto alcun ruolo effettivo nella mia personale formazione, salvo strapparmi qualche rara risata. In secundis: come lo vogliamo intendere, questo sole dell'avvenire? Come una destinazione necessaria verso la quale tutta la storia tende inequivocabilmente? Se è così, la mia risposta è un categorico no: se c'è una cosa che la storia può insegnarci, e in questo periodo è un insegnamento quanto mai attuale, è che la sua prevedibilità è minima. Le cose brutte accadono, e in genere sono diverse da quelle che ci aspettavamo.  Ma c'è un grosso ma: l'emergenza coronavirus ha posto sotto gli occhi di tutti una serie di contraddizioni intrinseche al sistema in cui viviamo, ha inasprito disparità sociali che vedono contrapposte una minoranza di ricchissimi e una maggioranza di poveri, la cui vita ha valore solo in rapporto al guadagno che essi possono arrecare ai primi. Dei poveri non ha importanza la salute: lo stop alle fabbriche è arrivato molto tardi, e ne ha riguardato di fatto una minima parte. Il diktat era: non fermare la produzione. Grazie agli operai, sappiamo bene che nella maggior parte dei luoghi di lavoro le regole di sicurezza non sono state applicate, se non in una fase estremamente avanzata del contagio. Inoltre, la decennale trasformazione degli ospedali in aziende volte al profitto ci ha messo davanti al tracollo di un sistema sanitario indebolito da decenni di tagli e privatizzazioni. E questo è costato molte vite. Insomma, siamo testimoni di tempi veramente bui. Il voler uscire da questa notte, verso un'alba in cui tutti gli uomini siano liberi e uguali, e in cui davvero il libero sviluppo di ciascuno coincida con il libero sviluppo di tutti e non con una lotta a chi si accaparra le briciole di Marchionne, è un'idea quanto mai adeguata ai mali tempi che corrono.



In che misura, canzoni come quelle che hai voluto inserire in questa raccolta, che come hai detto giustamente tu, spaziano su un fronte ampio, anche a livello temporale, credi che possano fare da cartina tornasole, da bussola in questi tempi, per non ricadere negli stessi errori? Per operare scelte consapevoli?

Il vantaggio che ci può offrire un approccio in canzone all'argomento delle lotte operaie, delle rivoluzioni mutilate, tradite, sequestrate, offre un vantaggio. La musica, a differenza di molte altre forme d'arte, non richiede conoscenze pregresse per emozionare: può essere fruita da chiunque. E chiunque può scoprire che i suoi sentimenti sono simili a quelli che negli ultimi duecento anni hanno spinto persone di ogni tipo a ribellarsi a un mondo ingiusto, cercando di renderlo migliore. Ricadere negli errori di sempre fa parte della natura umana, ma anche sbattersi per cambiare le cose quando le moltitudini si rendono conto che non funzionano più. La consapevolezza è spesso un lusso di pochi, e in genere quelli che la posseggono guidano scelte mirate al loro tornaconto. Le canzoni non possono risolvere questa realtà, ma di certo possono commuoverci, farci piangere, farci ridere, farci incazzare, e stimolare la nostra coscienza a capire che troppa roba non va. Poi capire cosa, e come risolverlo, è complesso. Richiede studio, discussione, azione.



Direi di non addentrarci troppo su questo fronte, altrimenti il cercare di capire come e cosa cambiare ci porterebbe lontano da quello che il punto di partenza, ossia questo bel disco, perché è un bel disco in cui hai necessariamente dovuto operare delle scelte, sia per quanto riguarda la selezione delle canzoni sia nella loro reinterpretazione. Quanto ti ha stimolato il rendere tue e allo stesso tempo fresche, attuali, canzoni così diverse per genesi e per inquadramento storico?

È stato il motore di tutta l'operazione. Prima della passione politica, a guidare le mie scelte è sempre stata la passione musicale. Qui non siamo solo davanti a una rassegna storica di canzoni politiche, ma davanti a dei veri e propri capolavori della canzone – a cui spero, a mio modo, di aver reso giustizia. Per dire: mi sono trovato a tradurre Bertolt Brecht e ad arrangiare Kurt Weill, e anche se so sia tradurre che arrangiare, qui avevo la consapevolezza di star maneggiando il materiale di due geni. Mi ha dato ansia, mi sono chiesto se non fosse il caso di dedicarmi ad altri canti... ma poi quella canzone era troppo importante per il mio percorso, e ho deciso di includerla. Ho fatto il massimo per render giustizia, e trovo che alla fine la mia rielaborazione del loro Epitaffio 1919 per Rosa Luxemburg sia efficace – rispettoso, ma personale. E poi ci sono le canzoni popolari, quelle che conoscono tutti come Bella Ciao, qui elaborata in chiave folk-rock minimale, e Fischia il vento; ma anche canti un po' meno noti, come Inno del Patriota di Cesare Bassani, partigiano Sam. Un partigiano ebreo, uno che rischiava doppio dunque, che combatté sui monti del nostro appennino e ci lasciò questo canto. Per me è stato emozionante scoprirlo, perché per lavoro mi sono interessato molto alla musica di matrice ebraica, e sono andato a scovare i canti partigiani dei ghetti. Scoprire che un partigiano ebreo aveva scritto un canto a un'ora di distanza da casa mia mi emozionò tantissimo. E poi canti della Guerra di Spagna, ma anche degli anni '60. Tra tutti questi splendidi brani ha trovato posto una mia canzone, Gappisti, dedicata ai partigiani che, in piccoli Gruppi d'Assalto Patriottico (GAP), agivano in città con modalità di guerriglia. Una tradizione poco cantata, in cui ho pensato di portare umilmente il mio contributo, raccontando una storia inventata, ma simile a tante che possono essere accadute in tutta Italia.



Credo che con questa tua risposta abbia reso l'idea di tutto l'amore, la passione e anche la responsabilità che c'è stata nell'affrontare un progetto così ambizioso che avrebbe anche potuto ricevere critiche da chi magari ha vissuto in prima persona le realtà di alcuni di questi canti. Il Patrocinio dell'ANPI credo sia una garanzia in tal senso. Quanto però credi che un disco come questo possa comunicare agli ascoltatori più giovani? Perché è un disco che indubbiamente ha un valore che va al di là dell'aspetto musicale, non pensi?

Mah, in generale gli ascoltatori più giovani non lo considerano nemmeno più, il formato disco. Sono nati e cresciuti in un'epoca che vede tutt'altre modalità di fruizione della musica. È un fenomeno che ha lati positivi e negativi, ma quello che è certo è che non ho mai pensato che l'ascoltatore di questo disco fosse un sedicenne. Però, chissà, magari capiterà che Spotify gli suggerisca la mia Bella ciao, perché lui l'ha ascoltata spesso nella versione de “La casa di carta”. E magari scopre che gli piace, anche questo modo diverso di interpretare quella stessa canzone. La mia esperienza nelle scuole mi ha mostrato a più riprese che gli adolescenti sono estremamente sensibili alla musica, anche a quella che non fa parte dei loro ascolti: quest'anno ho fatto qualche ora di storia in una scuola di formazione professionale, e i ragazzi della mia classe hanno pianto quando gli ho cantato Gorizia. E l'anno scorso, a una festa antifascista, un bravissimo rapper mio coetaneo, Dank, ha portato i suoi giovani “allievi”, una piccola crew molto talentuosa. Hanno fatto le loro belle esibizioni, poi ho cantato io. Alla fine del mio set Dank è venuto da me, e mi ha detto che uno dei ragazzi era andato da lui a dirgli: “Oh, ma il tipo con la chitarra spacca!” È forse il complimento più bello che abbia ricevuto, perché è arrivato da un ragazzo, appassionato a una realtà musicale talmente distante da quella in cui mi muovo io da renderla all'apparenza incompatibile. Gli adolescenti non sono gli automi imbottiti di droga e internet che certa stampa vuol farci credere, tutt'altro! Al netto di tutto questo, però, non credo che compreranno mai un mio disco. Il mio lavoro si rivolge a un pubblico un po' più grande, che più spesso parte dai venticinquenni, e arriva fino ai rari centenari. Il suo valore ha certamente un aspetto slegato dall'aspetto musicale, e credo che sia quello di essersi costruito da sé intorno a una comunità. Una comunità che mi ha sentito cantare decine di volte queste canzoni: alle manifestazioni, nei centri sociali, alle feste dell'ANPI, e che ogni volta mi chiedeva se avessi un disco che le conteneva. E fino a ieri non c'era. Non c'era testimonianza di questa parte così importante del mio lavoro, che ha costruito una rete di persone meravigliose, vicine e lontane, unite dalla volontà di mantenere accesa la miccia della memoria, e di non confondere il passato con le sue versioni che ci vengono propinate di quando in quando.




Se mi permetti vorrei farti un'ultima domanda, credo che queste canzoni siano belle anche in una versione solo voce e chitarra, però nel disco hai utilizzato archi, c'è il contributo del coro OltreCoro, la voce di Alice Avanzi, credi sarà possibile presentarlo in questa veste in qualche ricorrenza di particolare rilevanza? Sempre che si possa tornare all'attività live, che già questa sembra una chimera...

Grazie per questa domanda, che rende giustizia anche agli amici e compagni presenti in questo album! OltreCoro è il coro popolare che dirigo a Parma, ed è specializzato proprio in questo repertorio. È un coro polifonico, canta a quattro voci. Non è composto da professionisti, ma da compagni di varia estrazione, che ci tengono ad avere cura del patrimonio del canto popolare, di lotta, di lavoro. A volte provvedo io a scrivere nuove armonizzazioni per i canti che scegliamo, altre volte ci rifacciamo alla tradizione: alcuni di noi sono talmente appassionati da partecipare ai raduni internazionali di cori con un repertorio simile al nostro, che in giro per l'Europa sono tantissimi. Da loro impariamo spesso nuovi canti oppure nuovi arrangiamenti. È una realtà molto viva e molto solidale, oltre che divertente da frequentare! Purtroppo in questo momento neppure noi possiamo riunirci, ma abbiamo continuato a cantare, come tanti altri gruppi, filmandoci a casa, montando i filmati e mettendoli online. È un modo per continuare a esistere in questo periodo, nel quale il fulcro della nostra attività, ossia l'aggregazione, costituisce un pericolo per noi e per gli altri. Gli archi invece sono stati la scelta di accompagnamento che ho compiuto un paio d'anni fa, quando l'Istituto Ernesto De Martino ci coinvolse nella realizzazione di una compilation dedicata alla Guerra Civile di Spagna – intitolata “Spagna '36, un sogno che resiste”. Coinvolsi gli amici Salvatore Iaia al violoncello, ed Elena Contò alla viola. Al violino mi misi io. La canzone, La despedida, è chiaramente una canzone di tradizione colta, e con l'accompagnamento di un trio d'archi mi parve di darle una forma coerente con quello che era il mio modo di sentirla e interpretarla. Questa canzone è uscita allora in quel disco, e oggi è stata riedita nel mio Canti rossi, con l'amichevole placet dell'Istituto De Martino, che ringrazio di cuore. Alice Avanzi invece canta Alle donne, una mia personale traduzione di A las mujeres, sempre dal fantastico canzoniere della guerra di Spagna. Non ho voluto cantarla io, perché sentire una voce maschile che pronuncia quelle parole mi dava una sensazione sgradevole di paternalismo... e ho voluto affidarla ad Alice, che è la mia compagna. Con lei collaboro spesso, sia in studio che dal vivo. Alice ora è incinta, e lo era anche al momento dell'incisione. Quello che allora non sapevamo è che quella che aspetta è una bimba. E tutto assume un senso diverso, a riguardarlo con questa consapevolezza! Nessuno di noi sa quando la nostra attività di musicisti potrà riprendere. Una presentazione online c'è già stata, con la partecipazione di Brunella Manotti e di Aldo Montermini, i presidenti della sezione cittadina e provinciale dell'ANPI di Parma. Certo, avremmo tutti preferito poter fare una presentazione in grande stile nella Sala Riunioni della sede ANPI, e sono certo che, non appena sarà possibile, accadrà. E parteciperà anche OltreCoro, e tutti i compagni che hanno collaborato al disco. La musica è migliore, quando la si può fare insieme.

Foto di Cristiano Antonino.