mercoledì, novembre 09, 2016

Torna Marco Ongaro e dà “Voce” ad una scrittura audace, inconfondibile

di Fabio Antonelli

A sei anni di distanza dal pluripremiato “Canzoni per adulti” (2010 – Freecomusic), il 25 ottobre è uscito “Voce” (2016 - D’autore/Azzurra Music), il nono album dell’artista veronese Marco Ongaro. Un disco che, rispetto ai precedenti, descrive forse un nuovo lato del cantautore, più intimista ed introspettivo, grazie ad una registrazione in presa diretta e a degli arrangiamenti unicamente di pianoforte e chitarra acustica.

Cover cd VOCE

Sono passati sei anni dal tuo ultimo disco di inediti "Canzoni per adulti" che finì tra i dischi finalisti in corsa per la Targa Tenco Miglior album in assoluto dell'anno, anni in cui ti sei dedicato soprattutto alla scrittura spaziando dai libretti d'opera alla saggistica, un'attività frenetica. Ora esce "Voce", il tuo nuovo disco di inediti, con una copertina che ti ritrae seduto e rilassato su un comodo divano, mentre suoni la tua chitarra, quasi a voler dire che questo pugno di canzoni ha un carattere quasi confidenziale e che le vuoi proporre così come fossero cantate per degli amici tra le mura di casa, è così? Perché poi hai voluto intitolare semplicemente "Voce" questo tuo nuovo lavoro?

Per cominciare la chitarra non è mia, è quella della sala d'incisione. Comunque quella su cui ho suonato nel cd. Quella, e un pianoforte verticale accordato per l'occasione. Questa è stata la volontà di Gandalf Boschini, produttore dell'album, che nel tradire le sue abitudini di pop dance producer mi ha spinto a tradire anche le mie suggerendomi di non avvalermi di validi musicisti per arrangiare i miei brani. Voleva che offrissi la verità sull'artista, mi ha detto così. Io l'ho seguito. Il risultato è quello da lui cercato: un cd suonato interamente da me, ma senza sovra incisioni, dritto, così come se fossi in un locale a suonare la chitarra o il piano, con la voce e l'armonica a bocca come unici altri strumenti. Per un po' non sapevamo come intitolare l'album, la sua essenzialità mi portava a chiamarlo unicamente con il mio nome e cognome. Capita nella vita di un cantautore, non sarei stato il primo. Al momento di firmare il contratto con Azzurra Music, Marco Rossi, per distinguere il cd dai precedenti (“Dio è altrove”, “Esplosioni nucleari a Los Alamos”, “Anni ruggenti”) incisi per la sua etichetta “D'autore”, mi presenta un documento in cui intitola l'album: “Chitarra e voce”. "Giusto per non confonderci", mi dice. In seguito ci ho pensato su. Quel titolo sarebbe stato impreciso, nel disco ci sono il piano e l'armonica. Ma l'idea era interessante. La decima traccia della raccolta s'intitola “Voce”. Ecco la lampadina. Rende l'idea pratica pensata da Marco Rossi, prende il titolo di una traccia, come si usa nelle raccolte di canzoni e racconti, e al contempo rappresenta simbolicamente il lavoro, improntato al testo, alla canzone spogliata degli orpelli, la voce non solitaria ma materia primaria, sostegno per la sostanza delle parole (non sono così sprovveduto da ritenermi un virtuoso degli strumenti che suono, ma dei testi mi capita di essere abbastanza soddisfatto). Avevamo il titolo.

Sicuramente, sin dal primo ascolto, ci si rende conto che proprio la tua voce sempre più affascinate è messa al servizio dei testi delle canzoni, che come già era successo in passato nei tuoi dischi in assoluto più riusciti, penso allo storico "Archivio Postumia", spesso si muovono tra raffinate evolute ambiguità di punti di vista e di significato, quasi a voler spiazzare anche l'ascoltatore più attento. Come dicevo, lo s'intuisce da subito, basta ascoltare con la dovuta attenzione la prima traccia "Elena", dedicata all'emblema della bellezza femminile in senso assoluto, da sempre oggetto di desiderio dell'uomo, tu sembri invece ribaltarne il punto di vista, ti immedesimi in lei e quasi quasi la bellezza, da valore sembra diventare un fardello che genera nel personaggio mille domande "S'inventò / Forse un passato che rinnegò / Forse un futuro che rifiutò / Per il presente pensò di sì / E poi disse no". Forse perché tutto passa, perché "Tutto è relativo"? Ma questa è già un'altra canzone ...

Acuta osservazione. Ho provato a immedesimarmi nella fortuna/sfortuna di essere investiti dalla bellezza. Si aprono le porte? Se ne chiudono altre? Quando tutto viene offerto, come scegliere? Per questo Elena cincischia sull'acconciatura, sull'abbigliamento, sul da farsi, si lascia sfiorare da pensieri che sfuggono quasi subito, raccoglie idee che se ne vanno. E poi si riposa, ci si chiede: di cosa? Ma di tutta questa indecisione, data dalla decisione già avvenuta per mano della sorte che ha riversato la bellezza ad attrarre il mondo senza preventivamente informare da cosa sarebbe saggio essere attratti. Essere obiettivo del desiderio altrui che spazio lascia al nostro desiderio? Riflessioni, niente di stabilito. Come le avventure minimali di Elena sono oscillazioni in un'indecisione che si spera congeli il tempo, e con esso la bellezza stessa, cui in effetti mica si è tanto stupidi da rinunciare.



Nella precedente domanda ho volutamente introdotto anche il titolo di un'altra canzone che ho amato sin dal primo ascolto, mi riferisco a "Tutto relativo", che nasce in fondo una situazione comune, si è su un treno fermo ad una stazione, il treno accanto parte, lo guardiamo dal finestrino e sembriamo in realtà noi ad essere in movimento, è un esempio lampante della relatività. Ma da qui nascono riflessioni sulle relazioni uomo-donna ed "E' tutto relativo anche se Relazione non c'è". Curioso poi il collocamento dopo un'altra canzone legata al treno "Orient Express", qui il tema è più il viaggio, ma anche il viaggio è una metafora della vita, insomma credo ci sia molto da dire di entrambe, ma lascio a te la parola ...

In verità erano canzoni concepite entrambe per un concept album suggeritomi tempo fa dall'amico Pascal Schembri. Il narratore cercava sollievo da una storia d’amore andata male montando sull’Orient Express a Parigi e andando a est fino a Istanbul per poi tornare, in un viaggio di quelli che si usavano un tempo per far dimenticare gli amori ai giovani che avrebbero dovuto sposare meglio di quanto il desiderio aveva loro messo nel cuore. Li si mandava lontano dagli occhi, contando sull’efficacia del famoso proverbio. L’inventore stesso dell’Orient Express usciva da una storia del genere. Allontanato dall’Europa perché innamorato di una donna non consona al suo ceto, al ritorno ha creato questa lussuosa "macchina per dimenticare con il viaggio”. “Orient Express” è una canzone sulla nostalgia che riavvicina inavvertitamente agli altri esseri umani nel momento in cui si è fortemente ossessionati da un solo esemplare di essi. Tenendo le dovute distanze cui il treno in movimento obbliga, si vede scorrere l’umanità e si attraversano gli agglomerati urbani disseminati come oasi nel deserto. Futile stratagemma che però spesso funziona. I giovani dimenticano gli amori, ne trovano altri. Non il protagonista della canzone. “Tutto relativo” è una tappa di questo viaggio. A una stazione tutto vacilla. La non relazione diventa stimolo di relatività, rende tutto relativo, nel senso riduttivo del termine, ma anche in tutti gli altri sensi, come sempre. L’assenza della relazione che si cerca di scordare con il viaggio mette in relazione ogni altra cosa, la realtà sfuma nell’imprecisione, chi amava chi? Chi è stato lasciato e da chi? La relatività ridimensiona lo spazio-tempo annullandone le coordinate. Ciascuna canzone però vive da sola, un atomo concluso in sé, collegato solo esternamente da un’idea di storia presto contraddetta. Come quei giochi enigmistici in cui si uniscono i puntini per comporre un disegno, la vita dissemina di nessi un percorso che spesso ne è privo, i versi delle canzoni li raccolgono e creano relazioni tra loro. Ancora una volta, tutto è relativo.

Hai citato i giochi enigmistici e devo dire che qualche volta, ascoltando le tue canzoni, si ha come l'impressione di trovarsi dentro uno di quei cruciverba di Bartezzaghi in cui le definizioni, una volta trovate, lasciano letteralmente sbalorditi, quasi incantati a bocca aperta per la genialità. Questo credo sia l'effetto che si prova, ad esempio, ascoltando la canzone "Costi quel che costi" quando si arriva al verso "E' programmatica o precettiva", eppure, questo rap, questa la forma musicale che hai scelto per questo piccolo capolavoro scritto per uno spettacolo teatrale sulla nostra Costituzione, riesce pure a commuovere. Com'è nata l'idea di questo rap sui valori della Costituzione, che proprio in questi giorni credo farebbe gola ai promotori del no? O no?

O sì? Non entro nel merito come non ci entra la canzone. Le canzoni sono usate per vari scopi, le poesie anche, spesso vengono fraintese o strumentalizzate. Questa non si sottrae a tale sorte, ma vorrebbe. Nella domanda se è programmatica o precettiva sta l'essenza del cantautore che non dà risposte ma pone domande (come Dylan tradizionalmente in “Blowing in the wind”). Una domanda che potrebbe essere posta a scuola nell'ora di diritto. La questione è tutta qui. Per questo la si può e non la si può usare per il no quanto per il sì. Una parte dell'anima costituente è programmatica, dunque in continua evoluzione, suggerisce il da farsi non ancora fatto, un work in progress, un'altra è precettiva e dice cosa è indiscutibile. Ispira e stabilisce, momenti e fasi diversi che fanno di questa Carta uno dei dispositivi più accorti della storia giuridica internazionale. Ha ispirato anche me, quando mi è stato chiesto di scriverci uno spettacolo, che si è guadagnato una medaglia della Presidenza della Repubblica, nel 2009. Di acqua ne è passata sotto i ponti, eppure eccola qui in pieno centro del dibattito: ma questo è lo spirito della Costituzione, e di questa Costituzione in particolare: essere oggetto di riflessione continua. Anche la pubblicassi fra vent'anni sono convinto che la canzone troverebbe la sua via di attualità. Mi piace che ci si ravvisi qualcosa di commovente. L'hip hop era l'unico ambito moderno in cui rimasticare un tema così sacro e vitale, dunque il rap è davvero la formula giusta per parlare di parole tanto significative e decisive per la vita di una nazione. Quando l'ho studiata per scrivere lo spettacolo ho percepito l'entusiasmo e il fervore dei "padri" che ci hanno lavorato, ne sono stato contagiato, ho cercato di ritrasmetterlo attraverso il mio metabolismo. Nella musica mi ha aiutato Vittorio De Scalzi, che si è divertito quanto me a giocare in un ambito musicale che non è il nostro, ma che proprio per questo ci appartiene con una verginità particolare.



Come dicevi prima, le poesie spesso sono fraintese, ma a volte è la parola stessa a suggerire ambiguità e doppi sensi, una prova lampante di questa possibilità che poi usi e sfrutti con grandissima abilità è "Bionda", perché una bionda è la sospirata sigaretta che voluttuosamente si tocca, si armeggia con le mani, la si gusta nella bocca, ma bionda può essere anche una magnifica donna e ... non vado oltre, lascio dire a te che l'hai scritta, ne riporto solo un passo, tra i più belli "E ti rigiro tra le mani / e prendo ancora una boccata / mentre mi baci consumata / e mi prometti che mi ami". Attenzione, è una canzone che crea dipendenza ...

Il doppio senso, meglio ancora il senso multiplo è la massima risorsa di chi compone versi. Essendo il verso una comunicazione frammentaria, una comunicazione fallita che proprio sul suo fallimento punta per avere successo nel tentativo di penetrare qualche piega insondata della realtà, la ricchezza delle accezioni si offre al fruitore di poesia (e di canzone) come una ricchezza, un baluardo contro la disperata povertà delle certezze. "E quando mi sento asserito / quando mi sento trafitto da uno spillo sulla parete” canta più o meno T.S. Eliot, “come potrò sputare fuori i mozziconi delle mie abitudini?” L’immensità dei significati di una parola, ivi inclusa l’etimologia, lo sanno bene i filosofi, è il migliore strumento di riflessione sull’esistenza. Non per niente tutto tradizionalmente discende dal Verbo. Ora, in “Bionda” si parla più prosaicamente d’amore e di consunzione, di vizio e attrazione irrinunciabile, come giustamente suggerito: di dipendenza. Una dipendenza simile a quella delineata nella canzone Essi vivono, quasi uno scenario dell’orrore assimilato alla passionalità comune, quella che lega una coppia che non sa stare insieme ma neanche separarsi, è la stessa di “Bionda”, solo che qui in “Bionda” è univoca. Non c’è perdizione reciproca, ma subordinazione emotiva, psicologica, sentimentale verso un abbandono al destino che si scambia con la fatalità dell’innamoramento. L’oggetto amato ci avvinghia nella sua morsa di voluttà e ci trascina verso la nostra fine, che può essere lenta o improvvisa. In molti si cerca questo tipo di esperienza per non sentirsi sperduti nel mondo, per qualcuno è meglio una dipendenza sicura che una libertà incerta. Solitudine e libertà sono facce della stessa medaglia. Ben venga la bionda fatale, e che sia ciò che dev’essere? Ne canto per capire. Forse è più un’emozione che un concetto. Chi non ha mai avuto voglia di perdersi? L’amore è forse altra cosa, ma lascio ai filosofi di cui sopra definirlo. 

Già, parlavi giusto di quelle coppie che non sanno stare insieme ma neanche separarsi, come fossero invisibilmente unite da un elastico, così come canti nella splendida "Essi vivono", dici esattamente "Si allontanano si avvicinano / C’è un elastico che li lega così continuano / Si trascinano in questa saga dell’anno ultimo / Con il primo che preme identico dietro l’angolo / Lui ricorda lei progetta / Entrambi vibrano". Qui davvero raggiungi l'apice in questo continuo gioco delle parti, tra attrazioni e repulsioni, quando questa unione sembra essere fatta tutto si allontana, è bellissima così come la musica suonata da te al pianoforte. So che la canzone sarà anche oggetto di un video, ma il titolo? Nella canzone non v'è traccia ...

Si tratta del verso mancante, l'ultimo. Esattamente dopo "Entrambi vibrano" ci sarebbe stato "Essi vivono", ma invece di metterlo lì l'ho tenuto per il titolo, giacché di titolo si trattava dal principio, il titolo di un film di John Carpenter del 1988. Un film fanta-horror, non privo d'ironia, che non solo denuncia l'inconsapevolezza dell'umano ma anche la sua scarsa voglia di emanciparsi dall'ignoranza della propria condizione. "Essi vivono noi dormiamo", dice il film alludendo all'invasione aliena ormai avvenuta. Ma nella canzone a vivere sarebbero questi due, è questa la vita? Non rinuncio all'ambiguità del significato: mentre stigmatizzo la situazione passionale che non permette di scegliere, mi trovo ad attribuirle la qualità di "vita". Si tratta di una specie non più umana, perché non capace di determinarsi fino in fondo, perciò questi due sono "essi". Però "vivono". Magari quell'altro tipo di amore, quello posato e tranquillo, sereno e duraturo sarà migliore, ma corrisponde alla "vita vera"? Il dubbio attraversa la canzone in fondo, come una nostalgia. Ci piacerebbe forse provare ancora quella passione che rende incapaci di scegliere. Un sospiro di sollievo per esserne usciti e un po' di malinconia per non esserne più trasportati.



Beh, d'altronde, tutto questo è conseguenza dello scorrere ineluttabile del tempo, non si può certo restare immuni alle scalfitture provocate dall'invecchiare, verrebbe di pensare nell'ascoltare la tua "C'era un ragazzo ora non c'è", canzone omaggio a Gianni Morandi e risposta alla sua celebre "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones". Nel libretto che accompagna il disco, oltre ai testi delle canzoni hai inserito delle note guida all'ascolto dei singoli brani e, in merito a questa canzone, che in un passaggio riecheggia anche l'originale hai scritto "Se Morandi è Dorian Gray, Baglioni è il suo profeta". Non credo sia un caso che i due siano saliti su un palco insieme per "Capitani coraggiosi" ... ma torniamo al tuo brano, il vero protagonista è quel ragazzo o quel Marco Ongaro che ragazzo non lo è più?

E non solo quel Marco Ongaro, quei tutti noi che non siamo più gli stessi o ci illudiamo di non essere tali, come se bastasse l'età a cambiare. L'omaggio più che a Morandi è a Mauro Lusini, l'autore della canzone cantata da Morandi. A Gianni avevo proposto di cantare la mia, come fosse una risposta a se stesso qualche decennio più tardi, e lui è stato simpatico nel declinare suggerendomi di farlo io. Ha ragione, lui non è invecchiato neanche di fuori. Non c'è più Lusini, non ci sono i Beatles, i Rolling Stones sono pieni di rughe. Il senso è la prosecuzione della riflessione su Elena. Se il tempo va avanti, tutto cambia e niente cambia. Noi restiamo quelli che eravamo, se non ci guardiamo allo specchio. Il fanciullino non cresce poi tanto, ce lo ricorda saggiamente Jodorowsky, e questo contrasto tra l'esterno e l'interno è la mostruosità della faccenda. Come in quei film dove Meryl Streep viene truccata per apparire diciottenne prima, poi quarantenne, poi sessantenne e quindi ottantenne, non si capisce bene quale sia il trucco corrispondente al vero. Che sciocchezza: un trucco non corrisponde mai al vero. La sostanza è invisibile (altra apparente sciocchezza) e l'apparenza diventa sostanziale. Dov'è finito quel ragazzo? Ci sono ancora ragazzi che sognano come si sognava allora? Il tempo è cambiato e anche la gioventù odierna dovrebbe esserlo. Su questo, e sull'ambiguità tra i giovani d'oggi e l'io giovane di allora, ed ero proprio un bambino piccolo, si gioca il senso propositivo, mai responsivo, della canzone. Risponde alla canzone di allora e risponde alla prima traccia del cd, “Elena”, poi duetta con “Il verbo "era"”, sulla bellezza che sfuma e sui cretini che lo ricordano agli interessati, per scivolare sulla buccia di banana di “Cambierò” (vedi sopra) e su “Voce” che anticipa il tempo trascorso cercando di aggrapparsi al presente. Più ci penso e più questo album raccolta somiglia a un concept. Accidenti, non riesco a fare altro che concept album. Non sarà che tutto è sempre interconnesso?

Accidenti, è vero, più ascolto questo disco e più mi accorgo che tutte queste canzoni magari nate singolarmente, anche a distanza di tempo fra loro, magari suggerite da esperienze o letture fra loro molto lontane, sono in realtà unite fra loro, come in un'unica riflessione sullo scorrere del tempo, sulla vita umana stessa. Il tempo, il suo scorrere, è sempre più presente nella tua attività non solo musicale, mi viene in mente, ad esempio, anche il tuo recente libro "Elogio della puntualità" scritto insieme ad Andrea Battista. Accidenti anche perché con la tua risposta mi hai calato in solo colpo gli ultimi tre brani del disco che, con la cover di "Hallelujah" di Leonard Cohen direi che costituiscono un magnifico poker. Allora ti chiedo proprio di quest'ultima chicca, la cover, perché hai voluto inserirla visto che ne esistono decine se non centinaia di versioni?

Eh no! Accidenti lo dico io. Possibile che debba continuare a sentir chiamare cover delle traduzioni filologicamente curate? L’ultimo disco di De Gregori è stato definito di cover, ma erano traduzioni di canzoni di Dylan. “Via della povertà” non è la cover di “Desolation row”, è la traduzione che ritrasmette nella nostra lingua quanto ideato in origine dal poeta Dylan, rispettandone lo spirito, la metrica e le rime. Altrimenti cominciamo a definire cover le traduzioni che Quasimodo ha fatto delle poesie di Saffo. Quasimodo fa cover di Saffo? Non siamo ridicoli. Caproni ha fatto cover di Apollinaire? Magari, forse sarebbero state migliori delle traduzioni. Le canzoni che ho tradotto e pubblicato da Cohen sono adattamenti, ho tradotto il testo originale cercando di restituirne la lettera senza tradire la musicalità italiana. Una volta d’accordo su questo possiamo dire che la mia versione di Alleluia (e anche il titolo è tradotto) è l’unica traduzione italiana incisa su disco di questa canzone. Esiste una versione in italiano di Baccini ma parla di Shrek, l’amore per un orco, dunque non traduce niente e tradisce tutto, più o meno come si usava negli anni Sessanta, quando “Let it be”  diventava “Dille sì”. I tempi sono cambiati, per fortuna, anche grazie a De Gregori e De André, che di traduzioni hanno fatto incetta, a partire da “Suzanne”. “Una storia sbagliata” di Bubola/De André prende surrettiziamente la musica di “Ballad of the absent mare” di Cohen ma non ne è la traduzione. Quella possiamo chiamarla cover. La mia “Ballata della cavalla assente” pubblicata su “Canzoni per adulti” invece è la traduzione e adattamento del testo originale di Cohen. L’unica versione tradotta pubblicata finora. Spero di essere stato chiaro. Detto questo: non esistono versioni pubblicate di “Hallelujah” che svolgano la funzione divulgativa che attribuisco a questa operazione. La mia è la prima in italiano. E qui rispondo alla domanda. Quando traduco e incido una canzone straniera ho l’intenzione di creare una canzone italiana che permetta alla gente del mio Paese di capire che cosa ha scritto il genio cui mi sono accostato per tradurlo. Cerco di restituire agli italiani, con una certa simultaneità tra musica e parole, una blanda idea del piacere che gli anglofoni provano nell’ascoltare la canzone originale. La voce non è la stessa (quella di Cohen è irraggiungibile), gli arrangiamenti neanche (Buckley ha offerto tutto nella sua semplicità), ma il testo esprime ciò che indicativamente il poeta voleva esprimere, sempre con i limiti e le ambiguità infinite proprie della poesia. Interpreto il testo “sacro", come Cohen e Dylan spesso fanno con le Scritture, giacché da sempre il poeta è un esegeta. Non pretendo di coglierne o restituirne tutte le sfumature ma aspiro ad avvicinarmici il più possibile per il piacere di chi non capisce le canzoni in inglese. Sulla traducibilità delle poesie esistono gli stessi dubbi che su quella delle canzoni, ma ogni tanto bisogna lanciarsi perché l’amore è più forte dell’insicurezza. E l’insicurezza è comunque l’essenza della poesia.



Dopo questa "bacchettata" sulla differenza tra cover e traduzioni filologicamente curate, che ho molto apprezzato, credo si possa abbandonare il percorso intrapreso tra le tracce del disco per chiederti invece un'ultima cosa, che credo stia a cuore a chi ti ama e ti segue da sempre. Ci sarà modo di ascoltare questo tuo nuovo lavoro discografico dal vivo e se sì, sarà in versione voce e chitarra/pianoforte, così com’è stato concepito? In ogni caso il disco come sarà acquistabile a livello di supporto fisico, visto che il problema reale resta sempre quello della distribuzione delle opere discografiche?

Mi piacerebbe andare in giro in concerto con una band molto folta per cantare queste canzoni come non sono nel cd. Una sorta di contrappasso rispetto agli altri album, in cui incidi e sovra incidi strumenti su strumenti per poi magari andare a fare i concerti in due. Come sono stato fatalista nell'accettare la formula del disco, così lo sono per i concerti. Farò ciò che l'occasione mi suggerisce. Dal solitario alla grande orchestra, non ho pregiudizi. Il concerto è un momento staccato dal disco, sempre e per un disco come questo, che vorrebbe ricostruire la mia dimensione più solitaria, forse assoldare subito qualche strumentista per andare in pubblico mi sembra una soluzione interessante. Come si trova l'album? Come tutti gli album del mondo: sulle piattaforme in distribuzione web, nei negozi prenotandolo (mai nella mia vita si è trovato un mio disco in un negozio senza prenotarlo, i tempi sono cambiati per gli altri, forse, per me la storia è sempre uguale e paradossalmente non ci ho perso nulla), cercando in internet anche spedizioni postali direttamente dalla casa discografica (lo fanno e ne sono felici) o presso altre strutture specializzate in questo tipo di forniture (Amazon, ecc.). Insomma, basta volerlo.