giovedì, ottobre 29, 2015

Premio Tenco 2015 - "Fra la via Aurelia e il West", un’edizione quasi perfetta


di Fabio Antonelli

Sabato 24 ottobre, all’Ariston di Sanremo, s’è conclusa la 39sima edizione del Premio Tenco, che ha segnato il ritorno alla tradizione nel senso che, dopo alcune edizioni in cui, per problemi sostanzialmente economici la rassegna s’era svolta in forma ridotta nel vicino Casinò, si è tornati alla classica formula delle tre serate all’Ariston. Tre serate in cui sono stati consegnati sia i Premi Tenco, quelli assegnati “insindacabilmente” dal Club, come ci ha tenuto ancora una volta a sottolineare lo storico presentatore Antonio Silva, sia le Targhe Tenco, quelle votate da una giuria di circa 230 giornalisti, la più vasta e rappresentativa in Italia in campo musicale.

L’edizione 2015, intitolata “Fra la via Aurelia e il West” è stata dedicata Francesco Guccini, uno dei maestri indiscussi della canzone d’autore italiana che, instancabile, malgrado i suoi settantacinque anni e la non trascurabile mole, ha presenziato a tutte le serate, non trascurando né la mitica Infermeria del Tenco, luogo di scambi culturali e bevute all’insegna dell’amicizia, né quei dopo Tenco svoltisi nel privè del Casinò di Sanremo e in cui gli artisti sono stati chiamati a improvvisare delle jam session.

Francesco Guccini - Foto di Manuel Garibaldi


Quest’anno, ogni artista che è stato invitato al Tenco dal Club, è stato “obbligato” a presentare un proprio omaggio al Maestro e, in proposito, Francesco Guccini quando è salito sul palco alla fine dell’ultima serata per salutare e ringraziare il numerosissimo pubblico, ha ironicamente detto "Queste tre giornate sono state faticosissime. Bravi tutti! Le canzoni mi sono piaciute, sembrava quasi che le avessi scritte io” aggiungendo poi "Io ringrazio tutti, però vorrei dire: sono ancora vivo!".

Veniamo però alle serate, non voglio certo raccontare nel dettaglio tutto quanto accaduto serata per serata, altrimenti non basterebbe certo un articolo, vorrei invece soffermarmi da una parte sugli episodi più emozionanti e toccanti e dall’altra su quelli meno riusciti, le note stonate, poche, di quella che è stata forse la più bella delle edizioni dell’ultimo decennio.

Partiamo dalla prima serata, in cui ci sono state parecchie consegne: la Targa Tenco per la miglior canzone a “Il senso delle cose” a Cristina Donà e Saverio Lanza, la Targa Tenco Opera prima a La Scapigliatura, il duo cremonese dei fratelli Nicolò e Jacopo Bodini, per il disco omonimo; il Premio Tenco all'Operatore Culturale a Guido De Maria, vignettista e cartoonist fra i più apprezzati in Italia e grande amico di Francesco dai tempi (1967-68) della collaborazione nell'ambito del Carosello per gli slogan dell'Amarena Fabbri.

In questa prima serata, apertasi eccezionalmente non con la classica “Lontano lontano” di Luigi Tenco bensì con “Auschwitz” di Guccini, cantata da Vittorio De Scalzi accompagnato per l’occasione da Mauro Pagani e Edmondo Romano, una piacevolissima sorpresa, almeno per il sottoscritto che a dire il vero l’ha sempre un po’ trascurata, è stata l’esibizione di Cristina Donà. E’ stata direi perfetta, sia nell’esecuzione di “Stelle” di Guccini, sia dei propri pezzi, anche quando li ha cantati nell’inusuale contesto, almeno per lei, di soli pianoforte e voce. Tutti brani molto belli, compreso quello che le ha fatto vincere la Targa (ex - equo con il duo Bersani-Pacifico con "Le storie che non conosci”).

Cristina Donà - Foto di Manuel Garibaldi


Devo ammettere che il Premio Tenco, anche in passato, è sempre servito a farmi conoscere artisti pregevolissimi e anche questa volta non s’è smentito.

Un altro artista che ha asciato il segno è stato John De Leo, ex voce dei Quintorigo, qui in veste solista che dotato di una voce straordinariamente duttile e virtuosa, accompagnato da musicisti di grande spessore, ha proposto una personalissima “Il pensionato” di Guccini e alcuni suoi pezzi frutto di un’appassionata e lunga ricerca musicale. Da applausi a scena aperta.

John De Leo - Foto di Manuel Garibaldi


Il momento topico della prima serata è stato sicuramente la presenza di Roberto Vecchioni. Il Professore ha omaggiato il Maestro con una splendida versione di “Bisanzio”, brano in cui il cantautore modenese nel 1981 anticipava il non senso di un mondo dove Oriente e Occidente non si capiscono più. Eseguita da Vecchioni come fosse stata tratta da un libro di poesie, con la musica a fare solo da sottofondo musicale alla lettura del testo ha fatto si che le singole parole, una dietro l’altra, sembrassero uscire da quell’immaginario libro per dare vita a magnifiche immagini. Spettacolare, così come l’esecuzione di alcuni propri cavalli di battaglia, tra cui non poteva mancare in conclusione la sua “Luci a San Siro”.

Roberto Vecchioni - Foto di Manuel Garibaldi


Si parlava prima di note dolenti, beh direi che il duo La Scapigliatura, malgrado fossero freschi di Targa Tenco Opera prima non mi ha certo entusiasmato, con la loro aria da intellettuali barbuti e scapigliati. E’ vero che, come cantavano i Nomadi “chi vi credete che noi siam per i capelli che portiam”, non bisognerebbe mai giudicare dall’aspetto però il loro modo di porsi sia in conferenza stampa sia sul palco, il loro citazionismo, l’aria un po’ snob delle canzoni e l’essersi, di fatto, limitati a cantare e suonare le loro chitarre su delle basi preregistrate, non ha certo deposto a loro favore.

Peggio di loro però è stata l’esibizione di Appino, che s’è presentato sul palco con aria da rock star, ma non è mai riuscito a conquistarsi il pubblico presente, complici ballate dai buoni contenuti ma dall’andamento stanco. A sua parziale discolpa, bisogna ammettere che ha avuto la sfortuna di scontrarsi con un macigno gucciniano come “Eskimo”, da cui ne è uscita una versione tesa, veloce come un treno in corsa, ma assai piatta. Da dimenticare. Anzi già dimenticata.

Direi di passare alla seconda serata, visto che il resto è stato tutto molto apprezzabile, seconda serata che ha visto l’apertura da parte dell’Orchestra Sinfonica di Sanremo, diretta per lì occasione da Vince Tempera, uno dei musicisti che più ha suonato con Guccini. L’Orchestra ha eseguito tre brani di Guccini tra cui una “Radici” che, grazie alla bravura della cantante ospite Vanessa Tagliabue Yorke, si può azzardare sia stata quasi meglio dell’originale apparsa su disco nel lontano 1972. Il pubblico, più numeroso che nella prima serata, se n’è accorto e ha riservato alla Yorke, a fine esibizione, una lunghissima standing ovation.

Altro artista accolto benissimo e direi meritatamente dal pubblico, è stato il livornese Bobo Rondelli, che ha reso omaggio il Maestro con “L’avvelenata” e che con un equilibrio perfetto tra ironia, leggerezza, profondità di pensiero, ha poi proposto alcuni pezzi dal suo nuovo disco “Carnevali” tra cui “Nara F.“, eseguita pianoforte e voce, dedicata alla madre venuta a mancare non molto tempo fa, con il pubblico in rigoroso silenzio e visibilmente commosso. Bravo, spendendo pochissime parole ha saputo incantare il pubblico.

Bobo Rondelli - Foto di Manuel Garibaldi


La seconda serata ha davvero sfornato ottime prove, compresa la comparsata del comico Leonardo Pieraccioni, grandissimo fan di Guccini, venuto per omaggiare il maestro. Ha eseguito alcuni suoi brevissimi ma affatto stupidi pezzi, per poi tributargli una bella e sentita interpretazione di “Venezia”. Certo c’è voluto un po’ prima che si mettesse a cantare quelle canzoni di poche pretese, come più volte detto dello stesso consapevole autore, ma lo scandalo delle “strisciate” sanremesi, gli ha offerto più di un fianco per parecchie frecciate velenose.

Ci sono state anche le interessanti esibizioni di due bei premi, il Premio Tenco per il migliore artista, assegnato quest’anno alla cantante inglese Jacqui McShee, voce dei Pentangle, un gruppo folk rock inglese con influenze jazz e il Premio “I suoni della canzone” assegnato ad Armando Corsi, uno dei più bravi chitarristi d’autore di sempre, dal passato pieno di prestigiose collaborazioni.

Armando Corsi - Foto di Manuel Garibaldi


La serata s’è poi conclusa con il set di Carmen Consoli che, chitarra elettrica alla mano, ha subito omaggiato Guccini con “Il vecchio e il bambino” con il proprio sempre personalissimo modo di cantare. Ha poi attaccato il distorsore e ha iniziato a cantare tre suoi pezzi “Geisha”, “Lo zio” e “AAA cercasi”, tutti all’insegna della difesa della donna costantemente abusata e sottomessa dall’uomo, in questo coadiuvata da un duo basso e batteria tutto femminile. E’ apparsa dura, violenta come un pugno nello stomaco, ma incredibilmente affascinante.

Carmen Consoli - Foto di Manuel Garibaldi


A deludere, invece, credo sia stata proprio l’esibizione di Mauro Ermanno Giovanardi, premiato con la Targa Tenco più prestigiosa, quella assegnata per il miglior album in assoluto dell’anno. Nulla si può dire in merito alla sua voce, una delle più belle e accattivanti dell’intero panorama italiano, capace come quella di Tognazzi di trasformare anche la ricetta di un risotto in un componimento poetico, però personalmente nutro un po’ di dubbi, per altro non fugati dalla sua esibizione al Tenco, sullo spessore artistico dell’ultima sua fatica discografica “Il mio stile”. Un’opera discutibile proprio per lo stile con cui è stata creata, troppo patinata, perfetta, quasi asettica; è certamente il suo stile ma probabilmente non il mio. Discutibile direi anche il suo omaggio a Guccini con “Dio è morto”, non contesto tanto l’originale mix con “Je t’aime … moi non plus”, anche se non ne capisco il nesso logico, ma lo stile degli arrangiamenti che hanno quasi trasformato la canzone di Guccini in una canzone da night. Mah …

Eccoci giunti all’ultima serata, quella che ha visto l’Ariston gremito come ai vecchi tempi.
Se dovessi parlare delle note stonate, avrei già finito qui, poiché è stata una serata pressoché perfetta, con alcuni punti davvero alti, come ad esempio l’apertura affidata ai Têtes de Bois, vincitori della Targa Tenco interpreti di canzoni non proprie con l'album “Extra” in omaggio a Léo Ferré. Esibizione suggestiva la loro, sia quando hanno tributato a Guccini la “Canzone delle domande consuete”, sia quando hanno affrontato il repertorio di Ferrè, canzoni di forte impatto, pieni di simboli, ondivaghe, a tratti debordanti che però il leader del gruppo, Andrea Satta, ha saputo far sue e tenere sotto controllo.

Andrea Satta - Foto di Manuel Garibaldi


Canzoni forti, sanguigne, legate alla propria terra, eppure altrettanto universali perché hanno come temi lo sfruttamento, le sofferenze, lo strapotere dei ricchi, la corruzione, sono quelle cantate da Cesare Basile, cantautore catanese e vincitore della Targa Tenco per il dialetto, con “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più”, da cui sono state tratte le canzoni eseguite in compagnia dei propri musicisti di sempre. Una garanzia la sua presenza.

Cesare Basile - Foto di Manuel Garibaldi


Come non parlare poi della travolgente esibizione del canadese Bocephus King, che ha prima incantato il pubblico con una magnifica versione in lingua inglese di “Autogrill” di Guccini, così bella da far sembrare la canzone essere nata in quella lingua e che l’autogrill descritto in essa non fosse più quello della nostra pianura padana bensì quello dell'immensa pianura americana. Segno che una canzone, quando è scritta in maniera superba, può funzionare anche oltre confine senza problemi. Poi, dopo l’omaggio a Guccini, Bocephus è tornato ai propri pezzi e con la propria band ha surriscaldato l’Ariston, tanto che a fine esibizione è stato acclamato dal pubblico a tal punto, che il conduttore Silva ha dovuto concedere, cosa rara nella storia del Tenco, un bis. Un vero animale da palcoscenico, così come ha poi scherzosamente sottolineato anche il “tappabuchi “ Paolo Migone (esilarante in tutte e tre le serate) che entrato canticchiando la melodia del brano appena cantato da Bocephus ha detto di lui, scherzando, “quello è una bestia, mettetelo in una gabbia e rispeditelo in Canada”.

Bocephus King - Foto di Manuel Garibaldi


Salire sul palco, dopo un’esibizione così, chitarra e voce sola e portarsi il pubblico dalla propria parte credo sia un’impresa non da tutti, eppure Giovanni Truppi (Premio IMAIE 2015), uscito sul palco quasi nudo (in canottiera a dire il vero) accompagnato dalla propria chitarra elettrica è riuscito nell’intento. Dopo una bella versione di “Gli amici”, il suo bell’omaggio a Guccini, i suoi brani a tratti intimisti, a tratti surreali, a tratti sfrenati, uniti a una tecnica impressionante sia a livello strumentale sia vocale hanno fatto il resto. Da annotarsi.

Questi gli apici di una serata che si è conclusa con una rappresentativa dei musicisti storici di Guccini che hanno tributato al maestro alcuni suoi classici, poi lo stesso Guccini è salito sul palco per ringraziare e salutare.

Francesco Guccini - Foto di Manuel Garibaldi


Non vi poteva essere conclusione più degna.


venerdì, ottobre 02, 2015

Intervista a Flavio Oreglio intorno alla rassegna “Musici, poeti e giullari”

di Fabio Antonelli

Castello Malaspina - Brallo di Pregola (PV)


Sabato 3 ottobre, presso il Circolo dei Poeti Catartici che ha sede nel Castello Malaspina in frazione Pregola di Brallo di Pregola (Pavia), che detto così sembra di doversi infilare in culo ai lupi per arrivarci, avrà inizio la rassegna “Musici, poeti e giullari”, ossia una serie di Cene d’Autore (food & entertainment) che vede la tua Direzione Artistica. Cominciamo dalla location, termine che va tanto di moda, perché in questo luogo particolare e per altro di grande fascino?

Perché a Pregola, nel 1980 io ho fatto la mia prima serata proponendo le mie canzoni … in occasione del Trentennale ho deciso di costituire una sorta di “rifugio” catartico per ricordare le mie radici nel luogo dove il seme è stato piantato. Il nome giusto per questo rifugio non è stato difficile da trovare, è nato così il circolo dei poeti catartici che si propone come “cabaret d’altura”…

Flavio Oreglio


Il titolo che hai voluto dare alla rassegna, se non dico male, sembra quasi volersi riallacciare ad un mondo passato, quello rinascimentale in cui musici, poeti e giullari erano nelle mani di generosi mecenati che però riconoscevano il loro valore. Oggi, purtroppo, non è più così, però forse qualcosa ancora si riesce a fare. Questo tuo progetto va in tal senso?

Musici poeti e giullari, anche se nella terminologia sembra richiamare il medioevo (cosa che potrebbe anche avere un senso) in realtà si riallaccia alle componenti fondamentali storiche del cabaret nato alla fine dell’ottocento, il quale raggruppava un gruppo di poeti d’avanguardia che sperimentarono nuove forme di scrittura poetica (tramontava il romanticismo e nascevano realismo e simbolismo) l’interazione tra musica e poesia (albori della moderna canzone d’autore) non disdegnando il linguaggio satirico-umoristico. Mi riferisco al gruppo di poeti denominati “Les Hydropathes” e guidati dal giornalista Emile Goudeau, ad Aristide Bruant e alla sua “chanson canaille” (che cantava il lato oscuro della Belle Epoque) e a uno stuolo di disegnatori e scrittori satirici che fecero vivere la rivista “Le Chat Noir”, collegata all’omonimo locale (Chat Noir) fondato dal pittore Rodolphe Salis nel 1881.

Leonardo Manera - Primo ospite della rassegna


La rassegna si aprirà con Leonardo Manera, un ospite molto noto anche al grande pubblico anche grazie alle sue innumerevoli partecipazioni televisive, perché hai voluto affidare proprio a lui l’onere di rompere il ghiaccio?

Leonardo è un grande artista e un amico. A me piace sconvolgergli la vita con queste proposte, lui che è persona gentile e sensibile non mi dice mai di no soprattutto perché sa che in caso contrario lo picchio. Scherzo ovviamente … l’ho già picchiato … La verità è che Leonardo ha una straordinaria dimensione poetica che non sempre traspare dalle sue apparizioni televisive ma che io voglio assolutamente sul palco che mi sono proposto di dirigere.

Tra i vari personaggi che settimanalmente calcheranno la scena, vedo nomi a te molto familiari come Alberto Patrucco o Flavio Pirini, entrambi, come te, eternamente oscillanti tra la veste di comico e quella di musicista, ma anche veri e propri musicisti come il milanese Folco Orselli o poeti come Vincenzo Costantino “Cinaski”, come ti sei mosso nello scegliere gli ospiti?

La scelta degli ospiti rispetta la dimensione del cabaret che ti ho esposto poco fa. Il vero cabaret non è quello televisivo (quello è varietà, avanspettacolo, animazione da villaggio … arti nobili che però col cabaret non hanno niente a che fare). Io voglio riproporre lo spirito originario del cabaret e quello spirito vive nell’anima di tutte le persone che ho contattato.

L'interno del Castello Malaspina


Di questa rassegna sei, come detto, il Direttore Artistico, ma sfogliando il programma vedo che ti sei tenuto una serata da protagonista, ci dobbiamo aspettare qualche novità?

Ho a disposizione uno spazio e lo uso sia per proporre artisti che ritengo in linea col mio pensiero artistico sia per tenere un contatto diretto con il pubblico in particolari occasioni. L’inaugurazione del circolo avvenuta quest’estate è stata un tripudio di affetto, il 15 ottobre uscirà per Salani il libro “Catartico!” (antologia e inediti) e quale luogo migliore potrei trovare per presentarlo? Per il resto io sarò presente di tanto in tanto per seguire da vicino l’andamento del progetto.

Il ciclo di incontri si concluderà il 4 dicembre  con Walter Leonardi e direi che si chiude davvero alla grande. Che aspettative hai da questa rassegna, considerando anche il fatto che in Italia la sensibilità verso quella forma d’arte che era il cabaret , inteso come divertimento in grado però di far pensare, è stata letteralmente sedata da anni di imbarbarimento culturale?

Le mie aspettative? Spero di portare il pubblico a conoscenza della grande varietà di linguaggi intelligenti che sono in circolazione e che la televisione non tiene quasi mai in considerazione … è la mia battaglia di sempre, condensata nel progetto “Musicomedians” (www.musicomedians.it) sul quale lavoro da quindici anni. Sai com’è … si combatte …

Direi di chiudere, se sei d’accordo, fornendo ai lettori i riferimenti della Rassegna e, da parte mia, con un bel in bocca al lupo.

La rassegna “Musici Poeti e Giullari” è un ciclo di 10 appuntamenti, si parte sabato 3 ottobre e poi si procede tutti i venerdì fino al 4 dicembre. Si terrà al “Circolo dei Poeti Catartici”, presso il Castello Malaspina a Pregola (Brallo di Pregola – PV). Per maggiori informazioni si veda il sito www.poeticatartici.it e/o la pagina Facebook del Castello Malaspina (www.facebook.com/Castello-Malaspina-1438386723113867/). Ci vediamo sui monti, nell’ultimo comune dell’appendice sud ovest della Lombardia … terra di confine e di grandi promesse. Grazie per l’augurio … contraccambio katartikamente.

ll Direttore Artistico


Programma rassegna “Musici Poeti e Giullari”

03.10.15 Serata inaugurale - Incontro con LEONARDO MANERA
09.10.15 ALBERTO PATRUCCO in “Vedo buio”
16.10.15 VINCENZO COSTANTINO “CINASKI” in “Nato per lasciar perdere”
23.10.15 FOLCO ORSELLI in “Storie e canzoni blues da MilanoBabilonia”
30.10.15 FLAVIO OREGLIO in occasione del suo “Trentennale on stage” presenta il libro antologia “Catartico!” (Salani – 2015)
06.11.15 GIORGIO MACELLARI in “Tra jazz e musica d’autore” - Special guest: Riccardo Bianchi
13.11.15 FLAVIO PIRINI in “Circa intorno quasi teatro canzone”
20.11.15 STEFANO COVRI in “Milano canta e spara”
27.11.15 Serata magica - Incontro con RAUL CREMONA
04.12.15 WALTER LEONARDI in “Recital”

mercoledì, settembre 02, 2015

Hallenstadion Zürich, 22.08.2015 “Pippo Pollina: das grosse Finale”
di Fabio Antonelli



L’11 ottobre del 2012, nella magnifica cornice del Krone Circus di Monaco di Baviera, ebbi l’onore di assistere a uno dei più importanti concerti del lungo Tour con cui Pippo Pollina portò in giro “Süden” il fortunatissimo disco realizzato a sei mani con i musicisti bavaresi Werner Schmidbauer e Martin Kälberer e rimasi letteralmente stupefatto dall’accoglienza riservata dal pubblico tedesco a quell’evento, basti pensare a come la data fosse sold out da mesi e che la struttura ha una capienza di 5.000 posti.

Ora, invece, è passata poco più di una settimana da quel sabato 22 agosto in cui Pippo Pollina ha voluto congedarsi dal suo amato pubblico, dopo aver dichiarato di non voler più suonare dal vivo fino al 2017, attraverso un magnifico concerto durato quasi quattro ore, in cui  ha raccolto sul palco numerosissimi ospiti.

E’ vero, ha giocato in casa, si potrebbe direbbe usando una terminologia cara a chi ama il calcio, perché questo evento l’ha voluto realizzare all’Hallenstadion di Zurigo, la sua città adottiva, quello che l’ha accolto quasi fosse un proprio figlio molti anni fa, però credo che radunare un pubblico pagante di 13.000 persone, con biglietti che andavano da 80 a 50 franchi, in questo periodo di crisi economica, non sia proprio risultato da buttare …

Ciò però che fa più impressione, in termini positivi, è che queste grandi cifre ruotano intorno non a un cantante pop bensì a uno dei migliori esponenti della nostra canzone d’autore, uno che nelle canzoni canta si l’amore, ma anche l’impegno sociale, il desiderio di cambiare, di ribaltare tutto ciò che appare scontato e inevitabile, il tutto sempre con grande umanità, umiltà e soprattutto onestà intellettuale.

Forse è proprio questo suo essere autentico, unito alla forte volontà di avvicinarsi costantemente al pubblico spiegando quasi sempre nella lingua locale le canzoni prima di eseguirle, che è colto da un pubblico che, per la stragrande maggioranza, non capisce nulla dei testi delle sue canzoni se non attraverso le traduzioni sempre presenti nei libretti dei suoi dischi.

Altrimenti non mi spiegherei come un pubblico generalmente abbastanza freddo, come quello svizzero e tedesco, possa magari ridere a crepapelle durante alcune presentazioni, applaudire come un forsennato, fino ad arrivare letteralmente a saltare sulle poltroncine durante l’esecuzione dei pezzi più trascinanti.

In tal senso faccio una prima considerazione rivolta a chi mi sta leggendo e magari si starà chiedendo chi sia questo Pippo Pollina, perché in Italia è pressoché sconosciuto.

Di proposito non dico nulla, invito solo a cercare la sua musica, si accorgerà subito come la sua musica non sia per niente “pallosa”, anzi credo sia la dimostrazione di come la canzone impegnata possa essere anche gradevolissima da ascoltare, soprattutto quando sa toccare il cuore.

Torniamo però alla serata, Pippo ha suonato per quasi quattro ore insieme al suo fedele gruppo, il Palermo Acoustic Quintet e all’Orchestra da Camera “Musica viva”, diretta da Willy Honegger, ma mai come in quest’occasione il tempo è volato via, grazie anche alla presenza di ospiti molto diversi fra loro per stile, linguaggio musicale, quasi a voler dimostrare che la musica non può che unire popoli e culture anche molto distanti e lontane fra loro.

La lunga carrellata di ospiti è stata però aperta non da un musicista ma da Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino, giornalista, attivista e poeta italiano, noto per le sue denunce contro le attività di cosa che gli costarono la vita in un attentato, il 9 maggio 1978, a dimostrazione che per Pippo musica e impegno civile sono inscindibili e “Centopassi”, la sua canzone dedicata a Peppino, ne è il segno.

Alcuni degli ospiti della serata sono artisti che hanno collaborato con lui, come ad esempio Giorgio Conte che ha duettato con lui in “Mare mare mare”, canzone presente nel suo ultimo album “L’appartenenza” o la catanese Etta Scollo, che ha eseguito in duo con Pippo un paio di pezzi da brivido o come i già citati Werner Schmidbauer e Martin Kälberer, coautori di “Süden”.

C’è stato anche il cantautore svizzero-tedesco  Linard Bardill, che, nel lontano 1987, scoprì per caso Pippo mentre cantava “Eskimo” di Guccini, cercando di vivere di musica suonando per le strade della Svizzera e, conosciutolo meglio, lo invitò a partecipare a un progetto discografico in lingua romancia e alla relativa tournée. Fu la svolta per Pippo.

Pippo ha poi voluto sul palco anche una serie di artisti con i quali non ha mai collaborato direttamente ma che ammira fortemente, alcuni noti al pubblico svizzero e tedesco come Gigi Moto, Büne Huber von Patent Ochsner, Stefan Stoppok, uno invece a noi molto noto, Eugenio Finardi, un musicista che ha sempre stimato per lo spirito ribelle e la coerenza.

Non ultimi sono saliti sul palco, duettando con Pippo, anche i figli Madlaina e Iulian, entrambi cresciuti a suon di musica e che ora stanno cercando di intraprendere un proprio percorso artistico. Se la prima è apparsa molto emozionata sia nel cantare il pezzo scritto per “Süden”, sia nel duetto con Giorgio Conte dove è apparsa un po’ impacciata nel cercare di ricreare l’incanto di “Com’è bella la luna”, invece, il figlio maggiore, che ha voluto da subito scegliersi Faber come nome d’arte proprio per non far pensare di essere in qualche modo raccomandato dal padre, ha dimostrato di possedere voce, grinta e durezza da far impallidire lo stesso Pippo, credo anzi se ne sentirà parlare.

Per dovere di cronaca il mega concerto, dopo una serie di acclamatissimi bis, s’è concluso al ritmo di una forsennata “Bella ciao” che ha visto tutto il pubblico convenuto a Zurigo cantare e ballare, davvero un finale emozionante.

Io però non voglio chiudere qui, bensì fare una mia considerazione del tutto personale.

So che un paio di anni fa Pippo ha sottoposto all’attenzione della giuria che sceglie i brani per il Festival di Sanremo, due suoi pezzi inediti che non sono stati però presi in considerazione. Scelta lecita per carità, soprattutto nel caso fosse stata dettata da motivazioni puramente artistiche, un po’ meno nel caso in cui si fosse giustificata la bocciatura con la considerazione che Pippo Pollina è un big solo all’estero e non in Italia, quasi che gli onori e i meriti guadagnati in terra straniera qui non avessero valore … Ma si sa che qui si è big solo se si arriva da Amici o X-Factor…

Ciò che più sorprende il sottoscritto è, invece, che un Club come il Tenco, che ha fatto della canzone d’autore il proprio vessillo, non abbia mai invitato Pippo, l’unico, credo, esponente della canzone d’autore italiana che sia riuscito a esportare la propria opera, per lo più scritta e cantata in italiano, oltre confine.

E’ vero, la sua musica può anche non piacere e si sa che i gusti musicali sono del tutto personali e per questo sempre opinabili però, se penso che sul palco dell’Ariston, in una recente edizione, tanto per fare un esempio, s’è esibito Marco Fabi, cugino del ben più famoso Niccolò beh, allora mi domando come mai non si sia ancora rimediato a questa ingiustizia.

Sito ufficiale di Pippo Pollina: http://www.pippopollina.com/
Pippo Pollina su Facebook: http://www.facebook.com/pollinaofficial

lunedì, aprile 20, 2015

Intervista a Filippo Andreani

di Fabio Antonelli



E’ da poco uscito il magnifico disco “La prima volta” di Filippo Andreani (disco autoprodotto e distribuito da Mastermusic), dopo l’importante esordio con “La Storia Sbagliata” (un concept album – tra storia e fantasia – sull’incredibile vicenda del Capitano Neri e della staffetta Gianna, partigiani della 52esima Brigata Garibaldi operante sul Lago di Como - Nodo Libri / I Suoni 2010) e il successivo “Scritti con Pablo” (Lucente/Many/ Venus 2011), un po’ i suoi scritti corsari per dirla alla Pasolini. E’ a tutti gli effetti, il suo terzo lavoro ma, come suggerisce il titolo, per vari motivi si potrebbe quasi considerarlo “la prima volta” di Filippo Andreani. Non voglio però anticipare nulla del contenuto di questa intervista, leggetela, credo ne valga davvero la pena, così come vale la pena cercare di portarsi a casa il suo disco, che di così belli e toccanti non capita poi tanto spesso di ascoltarne.

Mi piace solitamente iniziare le interviste partendo dalla copertina del disco, perché è un po' come fosse il biglietto da visita di un nuovo progetto musicale. Com'è stata concepita e perché hai voluto intitolare il disco "La prima volta"?

Perché è "la prima volta" che, artisticamente parlando, riesco a essere davvero me stesso. Il che non è affatto scontato. Almeno non lo è stato per me. A un certo punto mi sono accorto che - per paura di mostrarmi per intero - ero finito ad assomigliare a tutti tranne che a me stesso. Mi è costato molto ammettermelo ... ma è stato bello "tornare a casa" e poi questo è stato un anno di tante prime volte: non ultima, è stata la prima volta che qualcuno mi ha chiamato papà. La copertina è stata disegnata da un amico tatuatore di Roma ed è ispirata a "Il coraggio del pettirosso" di Maggiani. Quel coraggio che ho ritrovato, per la prima volta dopo tanto tempo.

Copertina disco "La prima volta"


Beh, direi che c'è un cambio di registro notevole rispetto ai tuoi lavori precedenti, sinteticamente potrei dire che s'è persa un po' di quella cantautoralità un po' ingessata e a tratti autoreferenziale che sa di stantio per dare aria e ossigeno alla musicalità, sia attraverso sonorità più elettriche sia attraverso un cantato più libero, non so se condividi questa mia impressione.

Condivido in pieno, però non rinnego niente di quello che ho fatto. Sai, troppe volte ci si sofferma sulla forma ... parlo soprattutto della critica ... in molti hanno sottolineato i difetti di cui parli riferendoti ai miei lavori passati, mentre nessuno o quasi si è soffermato sulla sostanza. Cosi, le storie della Gianna e del Neri, quella di Aldo Bianzino, di Licia Pinelli e di altri, sono rimaste dov'erano prima (nel dimenticatoio), mentre tutti erano occupati a darmi dell'emulatore di un tale di Genova. Questo non mi è piaciuto granché. Ma tant'è. In ogni caso, io stesso ho voluto discostarmi da quel tipo di sonorità ... del resto ci sarà un motivo se in casa ho una gigantografia di Strummer e non di De Andrè. La mia vita l'ho spesa con i Clash nelle orecchie, non con “Anime Salve”.

In Italia, se tu noti, si finisce sempre per essere accostati musicalmente o a De Andrè o a Paolo Conte così poi, come dici giustamente tu, spesso si perdono di vista i contenuti e qui, in questo nuovo lavoro ci sono davvero storie e personaggi raccontate con grandissimo senso poetico. Cito due canzoni "Gigi Meroni" e "Numero nove", due gioielli per scrittura, solo apparentemente dedicate al mondo del calcio ma lascio a te la parola ...

Nascono in due momenti differenti della mia vita. Comincio dal Borgo: l'ho conosciuto all'Ospedale, dove per disgrazia era il compagno di stanza di mio papà, anche lui affetto da SLA. Poi il papà se ne va su una nuvola e il Borgo resta. Lo ritrovo allo stadio Sinigaglia. Io e altri amici della Curva eravamo in campo con lui, con le nostre bandiere e i nostri sorrisi ingessati. Mica potevamo far vedere che dentro piangevamo come bambini. Quando siamo arrivati sotto il nostro Settore, Stefano ha guardato l'inferriata. Ero li, l'ho visto. In quel punto si era appeso per la storica esultanza dopo il gol contro il Milan. Parlo degli anni ottanta. Voleva risalirci. A quel punto vaffanculo alla decenza: mi sono messo a piangere come un bambino. Poi sono tornato a casa e ho scritto quella canzone. Per Gigi è stato diverso, meno traumatico senz'altro: la sua figura mi ha affascinato sin da bambino. E poi ho conosciuto quest’amore incredibile per la bionda del Luna Park, Cristiana. E poi c'è Como, Genova, Torino. Il lago, il porto, la fabbrica delle auto. E poi c'è il Toro, che nella mia testa non è una squadra di calcio: è una poesia, è il popolo che ride e che piange e, i torinisti, a dir la verità, hanno sempre pianto tanto proprio quando stavano per ridere. Da Mazzola a Meroni.

E' vero sono due canzoni diversissime fra loro ma altrettanto toccanti, bellissime. Altrettanto emozionante e portatrice di lacrime credo sia "Lettera da Litaliano", dedicata a Piero Ciampi. A lui tantissimi hanno dedicato canzoni ma non credo proprio che tu l'abbia scritta per moda, com'è nata?

Da “Adius”. Uno per scrivere “Adius” non deve essere solo disperato, deve avere il cuore devastato, non nel senso di incapace di amare, ma nel senso di definitivamente rassegnato a non essere amato. Il che, credo, deve essere molto peggio.

Ne è nata una canzone d'amore struggente, un canto a quell'amore che avrebbe potuto essere, ma non è mai stato. E' cosi?

Si, proprio cosi. E per introdurla ho trovato una vecchia registrazione televisiva di Ciampi, nella quale diceva un'altra cosa terribile: "Per capire cos'è la solitudine, bisogna essere stati in due". Forse è banale ma quel verbo al passato rivela un tormento vero, reale, inguaribile, senza alternativa.

Perché hai voluto aprire il disco con “Canzone per Delmo” e perché una canzone dedicata ad Adelmo Cervi?

Quella canzone è stata il regalo per i settanta anni di Adelmo. La sua storia la conosciamo tutti, in pochi conoscono invece la luce che ha negli occhi: una luce triste, da bambino abbandonato. Adelmo mi ha fin da subito ispirato tenerezza e quella è una canzone che parla soprattutto di questo: della tenerezza mancata tra un padre e il suo bimbo.

Foto di Antonio Spanò Greco


Questa canzone ti vede duettare con il grande Marino Severini dei Gang, ma non è assolutamente l’unica collaborazione in questo disco vero? Dirò un altro nome tra i tanti, Sigaro della Banda Bassotti che ha prestato la sua voce particolarissima in “E Roma è il mare”, un’altra canzone meravigliosa che nasce sempre dai ricordi. Raccontami la genesi di questa canzone che, forse, non è solo una canzone di ricordi ma un’esperienza di vita che prosegue giorno per giorno? No?

Prosegue, si: per mia fortuna continuo ad avere gli stessi cattivi maestri e le stesse cattive frequentazioni. Roma, per uno che abita a Valmorea, è l’oceano. Io in quell’oceano ci ho nuotato insieme ai Bassotti, agli All Reds, ai libri di Valerio Marchi, alle storie brutte di Verbano e di Biagetti. Mi sento di appartenere a quella parte di oceano. Quella parte profonda in cui ogni giorno nuotano gli amici miei.

La memoria ha un peso notevolissimo in questo disco così come l’ha avuto anche nei dischi precedenti. Mi viene in mente un’altra grande figura d’uomo, prima ancora che di calcio, che appunto ricordi con versi di dolcissima poesia, mi riferisco a Gianni Brera e alla canzone che gli hai dedicato “Che la terra ti sia lieve”. Quanto credi che manchi oggi una figura come quella di Gianni in termini di valori? Soprattutto a uno come te che, giusto per citare i tuoi versi in “E Roma è il mare”, canti “Tra Mazzola e Rivera, avrei scelto Vendrame”.

Guarda, l’ha spiegato bene Gianni Mura, coniando l’espressione “senzabrera” per descrivere quelli che, come noi, ne sentono la grande mancanza. Brera manca. È un dato di fatto per chiunque viva lo sport come fatica e passione; ma anche per chiunque continui a sostenere che la zuppa pavese – se fatta bene – vale un’aragosta. In definitiva, manca a chiunque si ostini a innamorarsi della semplicità. Per fortuna che ha un grande erede e che questo “figlio”, Gianni Mura, abbia preso dal “padre” tutti i migliori pregi.

Un altro contributo molto originale viene da Steno dei Nabat che ti accompagna in “Tito”, qui il protagonista dei ricordi sei tu stesso lungo il corso degli anni, partendo da quando eri bambino e tua madre ti chiamava Tito per finire con il guardare il futuro. Com’è questo bilancio dei tuoi primi quasi quarant’anni, ma soprattutto come vedi il tuo futuro?

Passo molto tempo a pensare a me, a quello che ho fatto, a quello che faccio e a come lo faccio. Il motivo è che mi sono imposto di morire da galantuomo (ce la farò?) e che la galanteria va costruita giorno per giorno, con attenzione. In “Tito” parlo a quel Filippo cui sono solito rivolgermi guardandomi allo specchio. Quanto al futuro … il mio coincide con l’età di mia figlia: è per lei che vivrò altri cento anni. È banale e retorico, ma io sono banale e retorico quando parlo di lei. Mi ha sfasciato il cuore.   

Di ricordo in ricordo, c’è un altro personaggio magari sconosciuto ai più ma che ti ha segnato, ne canti insieme a Rob dei Temporal Sluts nella dura “Veloce”, ti va di parlarne?

Angelo Tagliabue all’anagrafe; Speedy Angel nelle note dei dischi dei Potage. Una persona davvero perbene, un semplice, uno vero. Un uomo entusiasta, soprattutto. “Veloce” è una lettera per lui, che è andato via troppo presto. Speedy era … è un esempio del vecchio adagio che loro stessi (i Potage) cantano in una loro canzone, “Vecchi Punk Rockers”: non importa saper suonare, ciò che conta è avere qualcosa da dire. Un atteggiamento che adoro e di cui io stesso faccio la mia bandiera.

Fotto di Enrico Levrini


Il disco però non guarda solo a ciò che è stato, anzi si chiude con una dolcissima e poetica canzone che ci parla soprattutto di futuro, di un’intera vita da vivere davanti. Il titolo è una data che penso, ricorderai per sempre nella tua vita, il giorno in cui è nata Annarella. Trovo adorabile questa tua canzone a partire dalla citazione di una delle più belle canzoni di Pierangelo Bertoli, non voglio aggiungere altro, vorrei che fossi tu a parlare di questa canzone.

Grande Fabio che l’hai colta! “Dal vero” è davvero una grande canzone. Quella canzone è stata scritta fuori dalla sala parto, prima di entrare per accogliere la mia piccolina. Ero a Varese (che per un comasco sfegatato come me equivale a una trasferta importante) a giocare quel mio “derby da ospedale”, e in quel momento mi sentivo accanto alla mia mamma (“che ha trovato un porto dopo la tempesta”), mio papà (“che nuotava al largo e se l’è preso il mare”), mia moglie (“che se dovessi reinventarla la farei dal vero”). Insomma, tutti lì ad aspettare che Annarella arrivasse. Poi, alle 22.22 precise del 30.01.2014 eccola tra le mie braccia. Uno a zero per noi, rete della piccola Andreani!

Vorrei chiudere con una riflessione, s’è detto più volte che questo disco è un disco di ricordi, di pensieri legate a persone che hanno lasciato un segno. Un disco che per altro sta davvero raccogliendo notevoli consensi di critica. Quanto è importante non dimenticare?

Non credo sia importante, quanto necessario. Gli alberi che non hanno radici cadono al primo vento. Per quanto mi riguarda la Storia è maestra di vita. Senza, non saprei in che direzione camminare.

Nel ringraziarti per la grande disponibilità dimostratami, perché so dei tuoi molteplici impegni poiché purtroppo come tanti bravissimi artisti non hai il privilegio di vivere della tua arte, vorrei solo chiudere con una battuta. La prossima volta che ti attingerai a scrivere un nuovo disco non farmi più pianger così perché se no ti addebiterò il costo dei fazzoletti di carta.

Sono io che ti ringrazio del tuo tempo. Quanto ai fazzoletti, non usarli: fai vedere a tutti, con orgoglio, che hai pianto.  Siamo circondati da uomini che non lo fanno mai. Poveretti.

Links:

Video del singolo "CANZONE PER DELMO (feat. Marino Severini - Gang)":


giovedì, aprile 16, 2015

Intervista a Giuseppe Righini

di Fabio Antonelli

Foto di Fabiana Rossi


Il 14 aprile è uscito “Houdini” (Ribéss Records, distr. Audioglobe), terzo lavoro discografico di Giuseppe Righini, multiforme artista romagnolo (nasce a Rimini nel 1973) che, sul suo sito personale, si autodefinisce cantante curioso, autore onnivoro, attore occasionale, scrittore funambolo e piccolo giornalista carbonaro. Sono passati ormai quattro anni dal suo secondo disco “In Apnea” (2001) e dopo i primi ascolti mi sembra di poter dire che il mondo musicale di Righini sia davvero cambiato tutto. Ora prevale anzi direi domina l’elettronica dentro una veste pop ma poi lo riascolti bene e allora sembrano riemergere echi decisamente più cantautorali del suo disco d’esordio “Spettri Sospetti” (2008). Allora “Houdini”, d’altronde il titolo lo suggerisce, forse è anche un sottile gioco d’illusioni, un rimescolare le carte, un confondere acque dense e torbide come le sonorità del disco.

Credo che questo nuovo disco "Houdini", rappresenti musicalmente una svolta decisamente elettronica, una notevole virata rispetto al disco d’esordio "Spettri sospetti", anche se poi il gusto per il noir resta sempre presente. Come sei arrivato a questo progetto?

“Houdini” arriva a un paio d'anni da “Enciclopedia completa di uno sconosciuto”, un doppio album di remixes in edizione limitata in cui colleghi e amici avevano manipolato per intero tutta la tracklist di “Spettri Sospetti” e “In Apnea”, i miei primi due albums. Questo mio desiderio e interesse nei confronti dell'elettronica ha radici antiche, spuntate nei miei primi ascolti e mai del tutto recise. Insieme al produttore di “Houdini”, Fulvio Mennella, abbiamo deciso di impostare il lavoro in quella direzione, semplicemente assecondando un desiderio di entrambi e personalmente figlio di alcuni esempi del passato come Suicide, Soft Cell e via discorrendo: squadra di lavoro minimal, attenzione focalizzata su produzione e canzoni. Questa vena, così come l'amore per il noir, mi appartiene da sempre. Già in “Spettri Sospetti”, sebbene più defilata, c'era una componente elettronica, così come in “In Apnea”. In "Houdini" questa esigenza ha chiesto più spazio, che io ho concesso volentieri.

Mi sembra però di cogliere, in questo passaggio, una grandissima attenzione nella cura dei suoni e dei testi solo apparentemente minimalisti, quasi a voler creare soprattutto suggestioni, ricordi, visioni, è così?

In assoluta linea con le suggestioni del titolo stesso dell'album, mi verrebbe da dirti di sì. Certamente, se si escludono forse alcuni pezzi - l'apertura di “Monge Motel” ad esempio, oppure, in parte, la stessa “Amsterdam” - un certo tipo di storytelling nei testi è stato abbandonato e, in questo disco, la scrittura è certamente più visionaria e suggerita che prettamente narrativa. Nulla esclude il ritorno di storie, personaggi più “definiti” nei prossimi dischi, ma per “Houdini” ha vinto questo tipo di canone più, diciamo così, informale, se vogliamo rubare una definizione pittorica. I suoni e la produzione sono curatissimi e chi ascolta musica elettronica, sa bene quale può essere la potenza e il calore di tali canoni. Semplicemente, principalmente, in “Houdini” ci sono più synths, campioni e sequenze che negli altri dischi e le chitarre, i violoncelli, alcuni bassi e alcune batterie non sono scomparsi del tutto.

Copertina di "Houdini"


Dalle note del libretto del disco, che libretto tanto non è, perché ha il formato di un foglio quadrato, piegato in quattro, leggo che il disco è stato scritto e pensato interamente da te nel corso del 2014, in un’alternanza tra Berlino e Rimini. Nel disco direi che si colgano tra le righe echi e riferimenti a due grandi registi cinematografici legati a queste due città, mi riferisco a Wim Wenders e Federico Fellini. Quanto sono stati importanti per te e quanto sono stati fonte d’ispirazione in questo tuo lavoro?

L'artwork dell'album, così come accaduto anche per “Enciclopedia completa di uno sconosciuto” e “In Apnea”, è stato affidato alla visual artist Alexa Invrea, che negli ultimi anni collabora spesso con me anche dal vivo con proiezioni e in rete con video. La grafica e il design sono di Johanna Invrea. Con loro e con l'etichetta, Ribéss Records, abbiamo deciso che il formato manifestino del booklet avrebbe meglio esaltato alcune idee iconografiche che avevamo. Berlino è, letteralmente, la mia seconda casa dove vivo parte dell'anno e, negli ultimi tempi, sta acquistando sempre più valore simbolico e pratico per me. Il suo valore si alimenta a vicenda, dal punto di vista emotivo, formativo e suggestivo in simbiosi con la mia città natale, Rimini. Utilizzando un’immagine che sa di salsedine, il disco è stato dunque scritto vicino al Mare del Nord e inciso sull'Adriatico. Sono un grandissimo fruitore di cinema, di conseguenza non immune al fascino di Fellini e Wenders. Non soltanto loro però mi seducono, e se la loro influenza si è infilata tra le righe di “Houdini”, penso sia stato più un effetto inconscio e collaterale che intenzionale da parte mia. Inutile dire che sono assolutamente i benvenuti.

Il disco è stato anticipato dal video del primo singolo "Magdalène", in cui tu stesso sei attore in un cortometraggio in cui un uomo sembra voler sfuggire dai propri ricordi, ma è difficile abbandonare ciò che è stato, è dentro una galleria ferroviaria che sembra non aver mai fine, fino alla scena finale in cui si vede finalmente l'uscita, la luce, vivida che inonda lo schermo. Questo senso in parte di claustrofobia, di prigionia dalle stesse proprie esperienze di vita mi sembra di coglierlo non solo qui o è una mia suggestione tra le tante suggestioni suscitate da queste nuove canzoni?

Sicuramente il tema dell'isola, del pianeta, cosmo e luogo a sé, al “riparo” dal mondo e dal “fuori” è un concetto che mi affascina da tempo. Mi è capitato in altre interviste di parlarne, e segnalare ad esempio un pezzo come “Bianca” nel primo disco o un inedito rimasto escluso dalla tracklist finale di “Houdini”, intitolato “Hikikomori”. Quel che mi viene da sottolineare per “Magdalène” è forse uno stato di amnesia più che di claustrofobia. Ricordiamo l'esistenza di qualcuno - o qualcosa - la sua bontà, la sua bellezza, la sua importanza ma abbiamo come perduto momentaneamente le coordinate di quel ... posto. Dunque vaghiamo, in una terra di nessuno tra quel che era e quel che sarà, così come accade al mio personaggio nel cortometraggio. Il video è stato girato in una vecchia galleria ferroviaria molto suggestiva a San Marino, vicino a Rimini, che durante i bombardamenti fu utilizzata come ricovero per sfollati. Con Daniele Quadrelli, regista di questo e altri miei video nonché caro amico, ci siamo misurati e divertiti in un piano sequenza in bianco e nero che ci soddisfa molto, e che sta riscuotendo diversi consensi. E' una cosa importante per me, perché considero l'aspetto visivo del mio lavoro in maniera molto rispettosa.

Hai citato una canzone che alla fine non è entrata a far parte di questo lavoro, mi piacerebbe magari saperne il motivo, ma c'è invece una canzone cui sei particolarmente affezionato, cui non avresti rinunciato per nulla al mondo a inserirla nella tracklist?

Sono molto soddisfatto della tracklist finale di “Houdini”. A volte un pezzo resta fuori non necessariamente per il valore in sé, maggiore o inferiore dei pezzi promossi ma semplicemente perché nell'economia generale dell'intero album serve un pezzo d'altra natura. E' accaduto in ognuno dei miei dischi, credo accadrà ancora. Spesso negli inediti si nascondono delle chicche preziose, che prima o poi vedranno luce, quando le circostanze saranno favorevoli. E' certamente quello che mi auguro per “Hikikomori” e molti altri. In genere la rosa di canzoni da cui si seleziona con il produttore la scaletta finale è molto ampia per ogni disco. Se proprio devo dirti un titolo, sono molto contento che in “Houdini” ci sia un pezzo come “Lungo la strada”, che rappresenta molto per me sotto infiniti punti di vista e chiavi di lettura, personali e musicali. Per “In Apnea” poteva essere “La luce del sole alle sei di pomeriggio”, o “Si qui ora”. Per “Spettri Sospetti”, invece, “Ninna nanna del mare in tempesta” e così via. Ma ognuna delle tracce contenute in “Houdini” ha un valore importante e significativo, di rilievo nella mia vita presente, il mio passato recente e la strada che ho di fronte. Dovunque mi condurrà.

Foto di Johanna Invrea


"Lungo la strada" insieme con "Amsterdam" e "Non siete soli" sono il terzetto che starei ad ascoltarmi e riascoltarmi, quasi ipnotizzato. A me piace molto soffermarmi sui testi e a proposito di “Lungo la strada”, la canzone si chiude con i seguenti versi “Troverai la verità / sembrerà banale / solo l’amore / ci può salvare”, versi semplici ma carichi di significato, quanto credi nell’amore come via di salvezza?

Sono certamente tre canzoni importanti, ma per il mio percorso personale davvero tutto il disco lo è. Ogni fiore che non appassisce conta. Per quel che riguarda gli ultimi versi di “Lungo la strada”, non è assolutamente casuale che io utilizzi quelle parole e faccia pure riferimento all’apparente banalità di quel che dico. Quando accade, l’amore vince. Semplicemente. Infallibilmente. Non sempre ci fidiamo, proteggiamo, assecondiamo, ascoltiamo e nutriamo la bellezza di questa … banalità.

C’è un’altra canzone in particolare che mi ha incuriosito, si tratta di “Nonsense dance”. Mi ha colpito per le sonorità espresse ma soprattutto per il titolo, io credo che tutto abbia sempre un senso anche il nonsense, com’è nata questa canzone? E’ davvero solo un divertissement?

Non solo. Quest’album è probabilmente il disco più pop, a livello di scrittura, che io abbia composto e licenziato fino a oggi. Scuro e meno leggero di quel che potrebbe apparire a un primo sguardo, certamente, ma indubbiamente pop, almeno in alcuni episodi. “Nonsense Dance” è una delle tracce più commestibili e ludiche dell’intero lavoro, è vero, ma al contempo una delle più riflessive. Io poi se c’è da trasfigurare un paesaggio non esattamente luminoso e dipingergli sopra un’altra sfumatura per confondere le acque e giocare con gli specchi non mi tiro indietro. Mi piace mescolare i sapori e decontestualizzare gli elementi di sets e scenari, pur senza perdere il timone dell’idea di fondo. “Nonsense dance” è in realtà un brano sull’incomunicabilità, che utilizza la danza e il cinema come paraventi metaforici, estetici e formali e, musicalmente parlando, utilizza un’elettronica di matrice vagamente transalpina ma, ripeto, non è una traccia così leggera come parrebbe.

Prima parlavi della strada che hai di fronte, come hai intenzione di promuovere questo tuo nuovo lavoro? Hai già imbastito date e luoghi in cui presentarlo?

La presentazione del disco, che è uscito il 14 aprile, sarà sabato 18 aprile a Santarcangelo di Romagna in un luogo davvero magico che si chiama Loretta. Per ogni info su come raggiungerlo e prenotarsi per l'evento suggerisco di seguire in questi giorni la mia pagina ufficiale Facebook e quella di Ribèss Records attraverso cui saranno forniti dettagli e contatti. Non si tratta di una serata a inviti ma data la capienza limitata di questo luogo davvero speciale la prenotazione potrebbe non essere una cattiva idea. Poi, alla fine del mese, volo a Berlino con Quadrelli per girare un nuovo video lassù e da maggio in avanti cercheremo di suonare il più possibile e promuovere l'album al meglio. Anche in questo caso, il sito ufficiale e le pagine dei socials saranno utili per avere ogni news.

Per concludere, a chi non solo non conosce questo nuovo progetto, ma non conosce neppure Giuseppe Righini, che cosa diresti?

A chi non mi conosce, semplicemente, direi di cercare le mie canzoni e venire ai miei concerti. In genere funziona così, non trovi Fabio?

Assolutamente, per un musicista credo sia la sua musica a parlare per lui e che la dimensione live sia quella che maggiormente riveli lo spessore di un artista, quindi il consiglio per chi ci legge è di cercare la tua musica e venire ai tuoi concerti.

Assolutamente. Io sarò senza dubbio là.






Sito ufficiale di Giuseppe Righini: https://giusepperighini.wordpress.com/

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